GRUPPO SAN FIOR |
Dicembre 2021 |
Carlo se n’era tornato da Belluno l’ottobre del 1961, dopo 20 mesi di naia. 20 mesi, e cioè due in più del dovuto, un prolungamento causato dall’emergenza creata dagli attentati in Alto Adige. Ricorda che la cosa non gli era pesata più di tanto, in fondo non si stava così male sotto naia, a casa lo aspettavano giornate ben più impegnative, il duro lavoro nella vasta campagna dove le braccia non bastavano mai.
Il CAR lo aveva visto recluta a Montorio Veronese, poi Belluno, 7° Alpini Battaglione Belluno, Compagnia Comando. Qui la prima sera fu sottoposto dai veci al rito della comunione. La cosa non gli piacque troppo e quando si trovò a essere lui nello status di vecio non volle perpetuare tale pratica ai tubi.
Quando era caporale di giornata gli toccò tante volte di portare a mezzogiorno il rancio al colonnello per l’assaggio. Il colonnello, forse per non rovinarsi il pranzo al Circolo Ufficiali, senz’altro più raffinato di un rancio alpino, invitava Carlo ad assaggiare le varie pietanze. E la risposta del caporale fu sempre la stessa, una, una sola, sempre quella: ottimo sior colonnello.
Una naia in un ambiente straordinario, l’addestramento lo aveva portato su tutti i passi dolomitici ai piedi delle nostre montagne e sui ghiaioni alle pendici delle Tre Cime di Lavaredo. Poi amicizie uniche e indimenticabili, perché si sa come sono le amicizie nate sotto naia. Carlo ricorda le allegre libere uscite ed anche qualche bevuta (di cui due particolarmente abbondanti). Ricorda che nel corso di una esercitazione con l’obice in alta montagna i sei alpini del suo plotone furono premiati con cinque litri di anice che dovevano bastare tot giorni (tirava aria molto fredda) e che invece bastarono molto meno.
Finita la naia, Carlo il cappello lo mise dentro a un cellofan e come si trattasse di una reliquia lo depose in un armadio. La piccozza finì sulla parete della cucina, bastone di legno lavorato a mano e la lama in alluminio ricavata dalla fusione della sua gavetta. Quella piccozza sta ancora lì, gli ricorda Belluno e l’amico artista che gliela fece, Franco, andato avanti troppo presto, dopo che con lui aveva condiviso non solo la naia ma anche l’esistenza.
Quale fine fece la divisa militare Carlo non se lo ricorda. Ma presumibilmente accadde ciò che accadeva sempre da queste parti. Chi ha buona memoria ricorderà, infatti, che a trar verdorame era d’obbligo indossare la camicia di naia modello estivo, mentre a sarpir le vide si andava con la jacheta grigioverde invernale.
Ricorda peraltro di aver indossato un paletò che era un intelligente adattamento della mantellina militare che il padre portava durante i furiosi assalti nel Carso e di cui non era riuscito a disfarsi nemmeno nella precipitosa fuga giù per i pendii di Caporetto.
Poi si sa come vanno le vicende della vita: quel cappello, avvolto nel cellofan, in quell’armadio ci è rimasto per 60 anni e chissà per quanti anni ancora vi sarebbe rimasto se Carlo non avesse scoperto che 60 di vita del Gruppo San Fior erano anche 60 anni dal suo congedo. Carlo se l’è rimesso in testa, e si è riscoperto alpino.
Ci sono venute alla mente, allora, le parole con cui si concludeva una delle storie raccontate nella serata dedicata al Gruppo: Quel cappello. Quel buffo cappello: metterlo in testa deve essere un sortilegio che ti segna per sempre. Magari quando finisci la naia lo scagli lontano, più lontano possibile, poi un giorno lo riprendi e lo custodisci gelosamente e guai a chi te lo tocca. Lo metti su a ogni occasione e non lo rinneghi mai. Perché: alpini una volta, alpini sempre.
Una serata, quella di giovedì 23 settembre, in cui le Penne Nere sanfioresi hanno ricordato alcuni momenti della loro storia attraverso i racconti di naja e alpini eseguiti da Chiara e Valentino. A questi racconti si sono intercalati i temi svolti dai ragazzi che hanno raccolto le sensazioni vissute nel visitare, accompagnati dagli Alpini, l’Isola dei Morti a Moriago. In alcuni momenti la commozione è stata forte per tutti. La serata si è conclusa con l’intervento di Nino Geronazzo che ha accolto l’invito di rispondere alle domande dei ragazzi delle scuole medie sul ruolo e sul futuro degli alpini nel nostro paese.
Molto applaudita, il giorno dopo, la rassegna corale che ha visto esibirsi il Coro ANA Giulio Bedeschi di Gaiarine, il Coro Minimo di Belluno e il Coro Pradevai di San Fior in un repertorio di voci e canti alpini meravigliosamente assortito.
Sabato 25, lo spettacolo teatrale NEVE, interpretato dall’attore Giovanni Betto, è stata l’occasione per ricordare l’immane tragedia della ritirata di Russia, dove gli alpini scrissero una delle pagine più tragiche della loro storia.
Domenica 26 settembre erano presenti a San Fior 4 vessilli sezionali, oltre a quello di Conegliano e le rappresentanze di 30 gruppi alpini. Tra questi il gruppo di Boccaleone, Bergamo, da oltre 20 anni gemellati con il Gruppo Alpini San Fior.
Dopo l’alzabandiera, la sfilata dalla sede a piazza Marconi e l’omaggio ai Caduti, la Santa Messa è stata celebrata dal parroco don Luca nella Sala Polifunzionale, data l’inagibilità della chiesa Parrocchiale. Ricordando i soci alpini che non ci sono più, il pensiero è andato a quella domenica di agosto di 60 anni fa, quando nel sagrato della chiesa inondato dal sole don Paolo benediceva il gagliardetto del nuovo Gruppo.
“Un foro profondo rompe l’unità del cerchio simbolo di perfezione e armonia: è il dolore del ricordo di tante vite amate, spezzate, scomparse. Il dolore è una ferita che gronda sangue ma custodisce un cuore che ci aiuta a guardare oltre, verso il futuro.” Queste le parole dell’architetto Lorena Gava per presentare l’opera dell’artista Alberto Pasqual posta sul monumento ai Caduti di San Fior e che si è voluto inaugurare proprio in occasione della celebrazione del 60°. La benedizione dell’opera, da parte di don Luca, è stata preceduta dagli interventi del sindaco del Consiglio Comunale dei Ragazzi Jessica Casagrande, del sindaco Giuseppe Maset, dell’assessore regionale al territorio e cultura Cristiano Corazzari, del capogruppo Elio Tonon e del presidente sezionale ANA Conegliano Gino Dorigo.
Negli interventi è stato sottolineato l’attaccamento delle Penne Nere alla loro terra e alle loro tradizioni: a San Fior riesce difficile parlare della realtà del paese senza parlare degli Alpini che in questa comunità sono attivi da 60 anni. Scorrendo le pagine della nostra storia, infatti, si scopre che questa è anche la storia del paese. Non c’è, infatti, momento di impegno sociale, culturale, solidale, ricreativo che non veda la loro presenza, fedeli al motto “dove c’è un paese lì ci sono gli alpini”. Come sottolineato dall’assessore regionale, l’impegno per la comunità è stato particolarmente importante in questo periodo di grande difficoltà sanitaria, vicini da sempre al mondo della sofferenza.
Il monumento ai Caduti (appena restaurato dal Gruppo per lasciare un segno del 60°) è lì a ricordare, ha sottolineato il sindaco Maset, che anche qui la guerra presentò il conto, un conto salatissimo se è vero che il lungo elenco sembra addirittura esagerato per un paese come San Fior.
Quest’opera, realizzata in materiale pesante e nobile come il bronzo, sembra appena appoggiata alla superficie del monumento. È stata donata dalla ditta DIEMMEBI e realizzata in accordo con l’Amministrazione Comunale, che ha voluto così omaggiare gli Alpini in occasione della loro festa, ed è carica di significati. Rientra nei programmi dell’Amministrazione, sensibile alla promozione di testimonianze morali e visive che ricordino la storia della comunità. Racconta che in un mondo dominato dalla frenesia del progresso e segnato da cambiamenti epocali, gli Alpini si fermano ancora per celebrare ed onorare la memoria dei loro veci. Quelli che per dovere andarono a combattere una guerra che non era la loro in una terra che non era la loro e lì rimasero per sempre.
L’inaugurazione di questo monumento ha voluto essere anche il ricordo emozionante e commovente di Adriano Lot, uno dei fondatori della DIEMMEBI, che se n’è andato un anno fa lasciando un vuoto incolmabile nella sua famiglia e nella comunità sanfiorese.
La storia del Gruppo è una storia di emozioni, gioie e fatiche… Nino Vinera, Angelo Zanette, Diego Visentin, Nino Barzotto, Lino Fantinel, Angelo Leiballi, Remo Talamini, Domenico Tomasella, Annibale Covre, Giuseppe Da Rui, Michele Brescacin, Piero Zago. Sono questi i fondatori del Gruppo Alpini San Fior.
Il Gruppo fu costituito ufficialmente il 22 agosto 1961, ma già dal 1956 i soci si riunivano per programmarne la nascita. Gli incontri si tenevano all’osteria “4 colonne dalla Marcella” in una stanzetta ricavata dal sottotetto, che rappresentò quindi la prima sede del Gruppo. Quell’osteria non esiste più, chi ha meno di 60 anni non può ricordarla, perché è sparita per far posto a un condominio. Era molto caratteristica, con le quattro colonne che sorreggevano il portico che dava sulla Pontebbana. Lì, tra l’altro, fermava la corriera che ripartiva carica di studenti e operai per Conegliano. Con quell’osteria sparì anche un po’ di storia del nostro paese.
Dal 1968 il gruppo continuò a riunirsi in due stanze del dopolavoro Enal, presso l’osteria Baret. Fino a che fu acquistata la struttura che oggi costituisce la nostra sede. Un prezzo di favore, 1.230.000 lire. Soldi non ce n’erano, ma c’era tanta passione e la voglia di avere una sede propria. Si fecero avanti degli sponsor (allora non si chiamavano così) che anticiparono il denaro: Danilo Favretto, Nino Vinera, Giuseppe Da Rui e Brando Baret, personaggi la cui fede alpina è rimasta proverbiale. Lo stabile fu ristrutturato dai soci, che vi lavorarono il sabato e la domenica. Gli Alpini si autotassavano pagando la tessera, inoltre ogni mercoledì e venerdì chi entrava in sede metteva 500 o 1000 lire dentro a un bottiglione in bella vista all’entrata. Lo stile era quello dell’autofinanziamento e il giorno di paga mensile c’era sempre chi lasciava al capogruppo qualche biglietto da 10.000 per la sede.
In questi anni le parole più belle che ci sono state rivolte sono quelle di Silvano, fondatore dell’Associazione Renzo e Pia Fiorot, ospite in una nostra assemblea: “Nella disponibilità verso gli altri, gli Alpini hanno tradotto la loro esperienza, maturata quando erano sulle pareti rocciose, tutti attaccati alla corda, uniti in un solo pensiero: arrivare sulla vetta tutti, e felici anche se stanchi.
Quella corda l’Alpino se l’è portata a casa, in quella corda, ogni volta che trovo un Alpino, vedo il segno della solidarietà, vedo il segno della liberazione, perché quella corda è il punto di riferimento del desiderio di tutti gli Alpini di rendersi utili nella società: lo capisco quando ne vedo uno che ti dice “presente” perché nel loro vocabolario non esiste la parola “no”. Abbiamo bisogno di questa cultura, il nostro mondo non può perdere questi valori, perché questi sono valori di liberazione, di solidarietà, soprattutto in una società che purtroppo tende a guardare da un’altra parte, generando problemi di convivenza. Per questo con gli Alpini mi sento bene, mi sento uno di loro, anche se mi manca la penna! E non potrò mai dimenticare che nei momenti più difficili della mia esistenza ho sempre trovato un alpino al mio fianco”.
Il regalo più gradito, invece, l’abbiamo ricevuto anni fa, quando ci è stata dedicata una via e un parco del paese. Via degli Alpini e Parco degli Alpini… per dire che in questo paese noi ci siamo e ci saremo. È stata una bellissima storia. Noi faremo di tutto perché continui a esserlo
FDM