GRUPPO SOLIGHETTO |
Giugno 1989 |
Più numerosa del solito la presenza degli alpini a Solighetto, per commemorare la spietata battaglia di Nikolajewka?
Così ci è parso.
La cerimonia semplice e breve, ma profondamente sentita, ha avuto la sua attuazione con una S. Messa celebrata — nella
chiesa parrocchiale - da don Carlo Zanon, superiore dei padri salesiani di Cison di Valmarino; con la deposizione di una
corona di alloro al Monumento ai Caduti; ed infine con l’intervento del presidente della sezione prof. Giacomo Vallomy,
il quale nel plaudire calorosamente la consolidata iniziativa del gruppo e in particolare di chi ne è alla guida il cav.
Giovanni Pansolin - medaglia di bronzo al V.M., conferitagli proprio in Russia a PostojalowkaDon - quindi testimone di
quella guerra tanto violenta, quanto inumana ed impari - ha ricordato il calvario dei nostri Soldati e in particolare
dei nostri Alpini, il sangue dei quali arrossò abbondantemente la bianca ammantata steppa russa, soggiungendo che mai
dobbiamo dimenticare di rendere omaggio ed onore quelli che sono morti e a coloro che, se colpiti nella carne e nello
spirito, fecero ritorno.
A tale celebrazione hanno partecipato oltre ai rappresentanti della sezione — con vessillo — e dei gruppi — con i
gagliardetti —, i Reduci cav. Ampelio Rossi ed Olindo Battistuzzi — decorati di Medaglia d’Argento al V.M.,
rispettivamente a Quota 205,6 di Selenji Var-Deresawka il 24 dicembre 1942 e al Medio-Don Schebekino 30 gennaio 1943, e
gli altri superstiti Andrea Marciano (croce di guerra al V.M. — Monte Trebescinies-Quota 1806-fronte greco), Achille De
Nicolò (croce di guerra al V.M. — Gallina di Ciaf — fronte greco), Giovanni Drusian e Teofilo Bonanni; ed inoltre il
sindaco di Pieve di Soligo dott. Antonio Padoin e numerosi ragazzi delle scuole elementari accompagnati dalla maestra
signorina Teresa Fabbri.
Per meglio far capire quale fu la reale odissea di quei mesi, riportiamo un eloquente capitolo tratto dal libro di don Carlo Gnocchi - anch’Egli miracolosamente scampato alla morte - “Cristo con gli Alpini”.
Noi alpini che abbiamo dovuto ingaggiare undici combattimenti per aprirci un varco nell’accerchiamento nemico,
ripiegando per settecento chilometri nella steppa invernale, che siamo vissuti per diciassette interminabili giorni
nell’imminenza, non della morte liberatrice, ma della prigionia in mano dei russi, che abbiamo dovuto cedere di fronte
all’umiliante superiorità numerica e meccanica di un nemico tracotante, dobbiamo dire che, se la campagna degli italiani
in Russia si può chiamare la “campagna del dolore” ciò si deve assai meno ai russi e alle loro armi micidiali che alla loro terra inospitale e al suo crudele inverno.
Piè che dai russi, fummo vinti dalla Russia.
Come potrò dimenticare le gelide notti, feroceente serene, passate alla tragica luce dei bivacchi, le apocalittiche bufere di neve che parevano incenerire il mondo nella nube livida della tormenta e trasformare l’avanzata degli alpini
in una marcia di deportati o di maledetti: la bramosa ossessione di una sota, di un focolare, di un po’ di varietà, di vita
e d’amore in quell’inferno bianco e in così acerrima inimicizia di uomini e di cose, e infine quella marcia fatale verso
una mela invisibile e sempre piè lontana, inceppati dalla neve fresca, flagellati dal vento implacabile, agghiacciati
dal freddo, premuti, dominati dal cielo e dalla terra e, per ogni lato, da un nemico preponderante che ci aveva
destinati alla distruzione? A quali estremi può essere spinto l’uomo da così grave iattura e da così spietata condizione
di cose !
Combattere bisognava e camminare, senza tregua e spesso senza speranza. Chi dopo aver lottato per lunghi giorni contro
lo sfinimento era costretto a perder terreno, andava insensibilmente ai margini della colonna in marcia e finiva per
accasciarsi poi lungo le prode delle piste, rimanendo per terra a seguire con lo sguardo spento il fiume lento dei
compagni dilungantesi, guardato esso stesso senza pietà e senza interesse, votato alla morte per assideramento.
I muli, uno dopo l’altro si abbattevano estenuati dalla fatica, dalla fame, dal gelo, e così le slitte cariche di
feriti e di congelati restavano arenate nell'immensità disperata della steppa. "Non abbandonateci, siamo italiani
anche noi!" gemevano quegli infelici, aggrappandosi ai compagni che a mala pena reggevano essi stessi il peso della
propria marcia. “Signor Cappellano — implorava un ferito — sparatemi, per amor di Dio, ma non lasciatemi
qui”.
Può darsi condizione più disperante e più umiliante di quella che viene dall’impossibilità di soccorrere, dal non aver
più una benda per un ferito, la forza di stendere la mano a un congelato che si trascina carponi dietro la colonna,
un po’ d’acqua per un morente (ché spesso i pozzi erano suggellati dal ghiaccio) un pezzo di pane per un estenuato — peggio
ancora — del non aver neppure la facoltà di commuoversi e di soffrire? Chi può dire, se nella vita non l’abbia provato,
il terrore che viene dal veder l’anima propria perdere mano a mano il potere di consentire al dolore, al pericolo e alla
morte?
Nulla è più agghiacciante di questo impietramento e quasi morte interiore, sotto i colpi troppo gravi e reiterati della
sventura, della fame, della stanchezza e del sonno.
Del sonno... Quando la sera cominciava a distendere sulla steppa le sue
tristi ombre, ogni occhio si dava a scrutare bramoso e inquieto la linea rasata dell’orizzonte per cercarvi la povera
sagoma di un’isba o il disegno di qualche sperduto paesello rurale, e non appena gli era dato intravederlo nel biancore
fosforescente della notte, la colonna degli uomini stanchi e arrancanti aveva un sussulto. I più validi allungavano il
passo, gli altri, i sorpassati, moltiplicavano la resistenza con la brama di un tetto ormai vicino e di un lembo di
terra dove distendersi al coperto del cielo implacabile. I primi arrivati si cacciavano affannosamente nelle case,
calando in ogni vano, fin sotto il tetto; gli altri sopraggiungendo ad ondate successive, riempivano ogni interstizio
facendo muro gli uni contro gli altri; gli ultimi, i più stanchi, dovevano accontentarsi distendersi contro le pareti
esterne, all’insulto del vento e del gelo, strenuamente lottando contro l’invasione del sonno letale. ‘Lasciatemi
metter dentro almeno la testa - implorava monotono un alpino dallo spiraglio della porta, in una notte di tormenta —
lasciatemi respirare almeno una boccata d’aria calda...” E nessuno di tutti quegli uomini stipati e rantolanti nel
sonno bestiale poteva rispondergli.
Mangiare, ecco l’altro imperativo tormentoso. Che cosa non ho visto mettere sotto i denti nei giorni della ritirata!
Avanzi di minestra, intrugli di miglio abbandonati dai russi, patate, bietole crude, frustoli di pane vecchio...
All’ultimo, non appena un mulo o un cavallo stramazzava per la fatica, gli si faceva immediatamente intorno un grumo
alacre di uomini con baionette e coltelli, dopo pochi istanti, non rimaneva più sulla neve arrossata di sangue, che la
testa dell’animale ancor calda ed espressiva, quattro zampe e un mucchietto fumante di interiora che l’ultimo alpino
andava ancora una volta a rimestare prima di andarsene col suo pezzo di carne infilata sulla canna del moschetto, per arrostirsela al fuoco dei bivacchi serali.
In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l’uomo.
L’uomo nudo; completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grandi di lui, da ogni ritegno e
convenzione, in totale balia degli istinti più elementari paurosamente emersi dalle profondità dell’essere.
Ho visto contendersi il pezzo di pane o di carne a colpi di baionetta; ho visto batter col calcio del fucile sulle mani
adunche dei feriti e degli estenuati che si aggrappavano alle slitte, come il naufrago alla tavola di salvezza; ho visti
quegli che era venuto in possesso di un pezzo di pane andare a divorarselo negli angoli più remoti, sogguardando come
un cane, per timore di doverlo dividere con gli altri, ho visto ufficiali portare a salvamento, sulla slitta, le cassette
personali e perfino il cane da caccia o la donna russa, camuffati sotto abbondanti coperte, lasciando per terra
abbandonati i feriti e i congelati; ho visto un uomo sparare nella testa di un compagno, che non gli cedeva una spanna di
terra, nell'isba, per sdraiarsi freddamente al suo posto a dormire...
Eppure. in tanta desertica nudità umana, ho raccolto anche qualche raro fiore di bontà, di gentilezza e d’amore —
soprattutto dagli umili — ed e il loro ricordo dolce e miracoloso che ha il potere di rendere meno ribelle e paurosa la
memoria di quella vicenda disumana.
La Russia è, comunque e da sempre, una terra infausta agli Italiani.
Ricordo che, nel dormiveglia di quelle notti cariche di incubi e macerate dalla stanchezza, la Russia mi appariva
sempre alla fantasia stanca come una gran massa inerte, oceanica, enigmatica che si lascia passivamente possedere,
consente di avanzare cedevole e misteriosa, ma poi ti si chiude improvvisamente alle spalle, ti conglutina, ti diluisce
e ti annulla nella sua desertico immensità, così che tu non puoi liberartene per quanto vada e forsennatamente ti sforzi
di camminare verso l’orizzonte dilatato e irraggiungibile.
Una sola forza orienta, ora e per sempre, il nostro cuore verso quella terra remota: il ricordo e l’impegno verso i
nostri morti.
I dolci compagni che abbiamo lasciato lungo il cammino della libertà e della vita, baciandoli in fronte prima di
deporli pietosamente sulla neve calpestata con le armi in pugno e l’immagine della Patria nelle pupille languenti.
Possano essi, come il grano che marcisce nei solchi, ridare una nuova primavera dello spirito a quella terra dolente!
R.B.