GRUPPO SOLIGHETTO |
Giugno 1994 |
A 51 anni dalla battaglia di Nikolajewka ci siamo ritrovati a Solighetto per ricordare chi non è più ritornato da
quell’infida steppa e stringerci attorno a chi ancora oggi porta nel fisico e nella memoria le stigmate di quell’atroce
odissea.
Una riconoscenza, questa, che anno dopo anno vogliamo e dobbiamo tributare verso quanti si sono resi protagonisti di una
battaglia per la vita, più che una guerra di conquista.
Sono stati per noi momenti di intima meditazione su fatti che ricordano un patrimonio immenso di dolore e che
auspichiamo siano una testimonianza per poter costruire una società nuova e migliore, con traguardi di pace e di
fratellanza.
Solitamente le nostre cronache riferiscono le varie fasi del cerimoniale, fasi che, trite e ritrite, sembrano pensierini
da terza elementare.
Vi dirò che la sezione era rappresentata dalla quasi totalità dei Gruppi (ne mancava solo uno) dal presidente Basso e
dai suoi vice, dal cons. naz. Lino Chies, Travaini ed il gen. Vettorazzo; dal m.magg. dei CC. Giovanni Ignetto e dal
Sig. Sindaco.
Facevano corona sull’altare oltre ai nostri Gagliardetti quelli dell’A.N.P.I. del Quartier del Piave, della Sez.
A.N.E.I. di Pieve, dei Combattenti e Reduci di Barbisano e Pieve di Soligo, dei Mutilati ed Invalidi e i Bersaglieri del
Q.d.P., degli Artiglieri e dell’Arma Benemerita di Pieve.
Detto questo il mio compito di redattore sarebbe finito avendo riportato con cruda freddezza la cronaca spiccia di una
annuale riunione, che anno dopo anno si ripete nella sua cruda ritualità.
Mi preme riportare il succo degli interventi in special modo quello dell’officiante don Lino Tavano dei salesiani
cisonesi che nell’omelia così si rivolgeva ai convenuti:
“Se io fossi stato un alpino reduce dei nostri gloriosi battaglioni della Julia, della Cuneense o della
Tridentina, ricorderei con orgoglio e immensa riconoscenza quei miei valorosi compatrioti che nel gennaio del ‘43 hanno
resistito e combattuto contro ogni logica umana ed avversa natura.
Se io fossi stato alpino, anch’io racconterei di quella biscia nera, lunga quasi 40 Km, di soldati nella ritirata di
Russia che dopo l’uscita dalla sacca di Nikolajewka, dopo aver lottato nove giorni e nove notti, dopo aver evitato le
truppe di Stalin, racconterei che gli unici amici che hanno aiutato i nostri soldati sono stati i contadini russi.
Spesso l’immagine della Madonna o la foto di una persona cara mostrata a questi contadini valeva in cambio un pezzo di
pane o una minestra calda.
Gli scritti dicono che Nikolajewka non fu una battaglia, fu una grandiosa carica a piedi, fu l’ultimo cancello prima
della libertà e della sopravvivenza; chi con i piedi in cancrena per il congelamento, chi con le pallottole e le schegge
nei fianchi o nelle gambe andavano avanti perché speravano, perché il desiderio di vivere in quel momento era più forte
della morte.
Nell’estate del ‘42 erano partite 210 tradotte, nell‘aprile del ‘43 ne bastarono solo 15 per riportare a casa il nostro
corpo d’armata. Su quasi 230.000 uomini ne sono tornati 30.000 feriti e congelati, 115.000 i superstiti mentre 85.000
sono mancati all’appello. Questi i dati semplici, scarni e freddi di un archivio storico.
Se io fossi un alpino non mi
vergognerei di celebrare l’esempio di chi si è opposto al nemico ed alla natura ostile,
direi anch’io come Giulio Bedeschi: “siamo fieri di essere ancora vivi!”.
Anch’io avrei memoria dei caduti dicendo: “avevamo vinto, eravamo riusciti a sfondare il muro di Nikolajewka ad un
prezzo inaudito di uomini, eravamo vivi grane al sacrificio di tanti nostri compagni
fratelli”.
Quel bene della libertà,
della democrazia, che noi e le nostre famiglie stiamo godendo, è costato vita e sangue di tantissimi alpini e soldati
di ogni arma.
Se simpatizzo e sono solidale con gli alpini di ogni epoca è
perché il loro fulgido esempio continua nel tempo, in ogni paese, in ogni nazione, non con la forza delle armi ma con
quella vera riserva morale che è l’energia del bene che supera il mondo egoista in cui viviamo, supera la mancanza di
coscienza individuale, supera la mancanza del senso di responsabilità e la continua tentazione del denaro, del successo,
del potere.
Come simpatizzante degli alpini, con animo generoso e
forte, anch’io vorrei portare amicizia, testimonianza di presenza e di pace come quei giovani militari impegnati in
tante missioni umanitarie e di sicurezza in Italia, Somalia, Albania, Mozambico e Bosnia.
Anch’io, come cittadino e cristiano, solidarizzo con quegli Alpini di Brescia che un anno fa, nel 50° anniversario della battaglia di Nikolajewka, hanno abbracciato i militari russi superstiti riuniti nella stessa messa di suffragio per i
caduti di entrambe le parti.
Anch’io, cari fratelli, mi unisco a tutti gli alpini e familiari per quell’asilo costruito per i bambini di Rossosch
come segno di concreta fratellanza, di solidarietà e pace.
Possa essere questo il segno di una nuova era di fratellanza e solidarietà anche fra i giovani delle nuove generazioni.”
Prendeva quindi la parola il capogruppo Antonio Possamai che dopo il benvenuto alle autorità civili e militari presenti
e un grazie agli alpini che anno dopo anno si riuniscono a Solighetto sempre più numerosi, passava la parola al Sindaco:
“Che senso ha oggi, dopo 51 anni, ricordare questo tragico episodio della 2° guerra mondiale, che vide impegnati e
morire migliaia di soldati italiani sul fronte russo?”.
Il Sindaco di Pieve ha posto questa domanda provocatoria in quanto gli viene più difficoltoso, ogni anno che passa,
trovare le parole adatte per commemorare degnamente queste ricorrenze, in quanto, nonostante la distanza temporale
di quegli eventi offuschi la memoria o ne sbiadisca i ricordi, la retorica e le parole usate in tutti questi anni è
stata disconosciuta e tradita dai fatti e dai comportamenti. Troppe, continue e insistenti sono infatti le notizie di
scandali, ruberie e tradimenti che quotidianamente ci vengono “bombardati” da stampa e televisione per limitarci a ricordare l’eroico sacrificio dei morti, senza alcun riferimento alla attuale situazione
economico-politico e sociale.
- “Mi rendo conto - prosegue il
Sindaco - che inutili, prive di significato e di circostanza,
possono sembrare le parole dette; possono addirittura offendere chi si è sentito tradito negli ideali dai comportamenti
di una classe dirigente che negli ultimi tempi ha predicato bene, ma razzolato male.
Ma per quanti ancora ci credono, ed io sono tra questi, per quanti si augurano che l’italia possa risollevarsi dal
baratro in cui è sprofondata, questa rievocazione, questa celebrazione, oltre che al ricordo dei morti, ci deve indurre
ad un senso di riscatto e di speranza per un’italia, unica, unita e democratica”.
Chiude ufficialmente l’oratoria il presidente Basso che si associa ai saluti del Capogruppo e porta i saluti del prof.
Vallomy assente per una leggera indisposizione, a cui invia un abbraccio affettuoso di pronta guarigione. Rivolge il
pensiero al cav. Giovanni Pansolin che di questa iniziativa, prima a livello nazionale, fu l’ispiratore, il promotore e
l’animatore. Così, per ricordare il sacrificio e l’eroismo di migliaia di soldati, gli alpini della sezione e
dell’Associazione hanno voluto costruire a Rossosch un asilo donandolo ai bambini russi. “Un grazie ai volontari
- concludeva il presidente - e sono molti che si sono distinti in questa opera di solidarietà. Al momento opportuno li
ricorderemo tutti ed in luogo più adatto.
Così con la stessa volontà, nel medesimo spirito di unità nazionale dimostrato dagli alpini, mi auguro che gli italiani
nell’esercizio del voto scelgano gli uomini politici giusti che sappiano camminare con noi sulla strada della
solidarietà, del senso del dovere e dell’onestà per rompere definitivamente la sacca della disonestà e della corruzione,
incamminandosi verso un'Italia veramente unita e democratica”.
Steno Bellotto