ADUNATA NAZIONALE |
Dicembre 1962 |
Non voglio certo sostenere che questa sia una nuova specialità, né che vi sia mai stato qualcosa di simile in passato. E
neppure mi passa per la testa di farlo credere a qualcuno.
Eppure vi fu un certo periodo in cui qualche anima semplice credette alla cosa, sia pure per breve tempo e in condizioni
particolari di spirito. Ma procediamo con ordine.
In quell’anno, con le brume dell’autunno, giunsero nella località alpina le reclute, le «nebbie», come erano chiamate da
quella banda di filibustieri del battaglione Verona.
E tra queste un buon nucleo di «panze longhe» destinate ad una batteria che più tardi ebbe a coprirsi di gloria nelle
desolate lande russe. A quei tempi l’accoglienza alle reclute non era certamente raccomandabile e le «tube» ben sapevano
quello che le attendeva fin dal momento del loro arrivo alla stazione.
Fu quindi con lieto stupore che dette tube notarono la presenza di un ufficiale che li accolse alla stazione, e li
accompagnò in caserma dove la «naia » cominciò con un discorsetto che ebbe il potere di rinfrancare quei tremebondi
giganti in cappello tondo, penna a 90 gradi e odoranti di naftalina da far venire uno svenimento a gente più delicata.
«Ragazzi», disse l’ufficialetto ben messo in ciccia, agghindato con tutta la chincaglieria, ma pivellino quanto le tube,
«qui dovete considerarvi come a casa vostra e vi troverete fra amici, fra fratelli. Sarà come essere in famiglia e siate
certi che serberete un buon ricordo di questo periodo.
Aggiunse altre cosette, dette tutte in buona fede e concluse: «Ora vi lascio fra i vostri amici più vecchi che avranno
cura di voi».
E difatti questi cari amici si presero immediatamente cura di loro, permettendo ai nuovi giunti di occuparsi del loro
rancio, della pulizia delle loro gavette e della preparazione delle loro brande, che, guarda il caso, erano sfatte in
maniera indecente. Dopo questo non mancò un piccolo trattenimento di benvenuto a base di ordine chiuso in mutandine,
giberne e fucilone. Nonostante il fresco della notte, i nuovi fratellini cominciarono a sudare abbondantemente per cui i
premurosi camerati si preoccuparono di procurare loro un bagnetto ristoratore. E non è a dire che faticassero poco in
tale compito perchè non fu facile portare sul pianerottolo del terzo piano una tale quantità di secchi d’acqua da
rovesciare sui «bagnanti» costretti a salire le scale da argomenti persuasivi quanto solidi.
Quando finalmente fu concesso ai miseri di ritirarsi per dormire fu con un sospiro di soddisfazione che essi si
buttarono sul letto. Certo che non fu facile coricarsi, anche per via di certi rimaneggiamenti alle lenzuola, combinati
dai cari fratellini che più tardi, in un clima di bolgia infernale, pensarono bene di tener sveglia l'attenzione dei
novellini con scherzi di vario genere; su questi penso sia meglio sorvolare poiché queste righe potrebbero capitare
sotto gli occhi di non iniziati alla «naia» alpina di allora.
Ed al mattino la sveglia sorprese tutti, anziani e tube, mentre gli occhi stavano per chiudersi su una comune stanchezza
che affratellava finalmente tanti commilitoni.
Prima del caffé (l’è come l’acqua...) un caporalino con un cappello alla bravaccia ed una faccia feroce che rimediava
alquanto ad una statura non eccessiva per una «panza longa» e che si era distinto nell'operazione benvenuto, rivolse
brevi ma eloquenti parole alle stanche, impaurite e deluse tube, ferme sull’attenti davanti a tanta autorità.
«Chi vuole andare in aviazione si raduni laggiù» disse l’autorità con voce truculenta, accentuando, con un dito grosso
come una salsiccia, un punto del piazzale.
La domanda dovette essere ripetuta, tanto erano diventate ottuse in poche ore di naia quelle menti ancora fresche di
vita borghese. Vi furono sguardi di sorpresa, rapide consultazioni, cenni brevi fra compaesani. E chi ne aveva avuto
abbastanza della calda accoglienza della sera prima ed il coraggio di farlo capire, si portò «laggiù».
Fra essi un nostro amico, ora emerito conoscitore di funghi (sono ancora sano perchè ho sempre mangiato quelli che lui
scarta) il quale avrebbe avuto la voglia e la possibilità fisica di mangiarsi il Caporalino, cappello compreso, in pochi
minuti.
«In aviazione è un’altra cosa» disse a chi gli chiedeva consiglio.
«Accetta stupido, con me!». E così si trascinò un certo numero di adepti, attratti dalla sua prestanza fisica e da una
certa aria cittadina che metteva soggezione ai noveri montanari della batteria.
Il drappello di «coraggiosi» rimase così isolato dagli altri. Impalati sull’attenti assistettero, bramosi, alla
distribuzione del caffé agli altri che, poverini, se ne dovevano rimanere in quella bolgia infernale il cui saggio era
bastato a decidere loro, i più grossi, i più avveduti, i più dritti, a cambiar aria
Che importava una tazza di quel che si usava chiamare caffé? Si sarebbero certamente rifatti e molto bene fra poco. Ed
infatti il caporaluzzo dall’ala del cappello rivolta in su, dalla faccia feroce e che odorava ancora di gatti
trangugiati la sera prima, diede poco dopo ordini secchi ai quali i «fortunati» risposero con solerte obbedienza e
perizia che odoravano ad un buon miglio di «premilitare».
Bene inquadrati, furono visti allontanarsi dai rimasti che si mangiarono dalla rabbia per non avere avuto il coraggio di
accettare anche loro la proposta. Ed ecco i novelli aviatori fermati davanti a dei capannoni che potevano anche avere
tutta l’aria di piccoli hangars per apparecchi da caccia.
«Qui» disse il caporale mandrillo, «qui è il vostro regno e cominciate subito il vostro servizio».
E fu così che gli «aviatori» presero immediato contatto con i muli della batteria, ben sistemati in comodi ed enormi
capannoni e preparati a puntino, come sapevano fare gli anziani di quella indiavolata batteria per fare ammattire i
pivellini.
Allo sbigottimento del buon Onorio e dei suoi «volontari», subentrò un lavoro indiavolato inteso: 1) ad evitare i calci
di molti «apparecchi da bombardamento»; 2) a cercare di raccapezzarsi in quella bolgia di urla, rumori, risate di anziani sbucati da
ogni parte; 3) a lustrare per dritto e rovescio ogni tipo di «velivolo» messo a loro disposizione con particolare
generosità: quattro ogni volontario.
Allorché il lavoro fu interrotto dal perentorio invito della tromba del rancio (il rancio è un servizio!) dei baldi «aviatori» non restavano che dei miseri resti, degli stracci che appena si reggevano in piedi, sporchi, smunti, sudati,
con l’aria di chi fosse stato messo in una macchina da salami e tirato fuori dalla parte opposta.
Nessuno ebbe il coraggio di mangiare il rancio, anche se era obbligatorio il farlo, come ebbe a chiarire il feroce
caporale. In compenso, come aviatori, venne poi loro riservato un trattamento speciale. Se volete saperne di più su
questa faccenda, chiedete delucidazioni al buon Onorio, sempreché ne abbia la voglia. Comunque vi consiglio di parlargli
con la dovuta circospezione, girando alla lontana e senza nominare «l’aviazione alpina»!
E’ un consiglio da amico! E non venite poi a reclamare da me se vi capiterà di trovarvi con «due occhi così»!
(da «Dos Trent» della Sezione di Trento