Ma insomma che ci stiamo a fare? |
Agosto 1962 |
Lo so che il titolo non è del tutto esatto perchè avrebbe dovuto
essere formulato più esattamente con un CHE CI STATE A FARE ? nel senso che la domanda è più pertinente a chi vive fuori
dell’A.N.A., a chi non è quindi stato Alpino.
Nessuno s’è arrischiato a farmi una domanda del genere, ciò è vero, ma è bene proporla tra noi anche per prevenire
richieste e snebbiare dubbi da parte degli altri.
Non saran pochi coloro che si domanderanno perchè mai questi alpini in congedo (molti erroneamente ci definiscono ex
alpini) si affannino tanto a mantenere in vita e addirittura potenziare sempre più un’associazione antitetica al
prevalente «ideale» del vivere allegramente in pace senza vincoli sociali ed inibizioni morali e dimentico di tante
sofferenze subìte in un cinquantennio, diversa quindi da una collettività che sembra aver assunto a propria insegna
l’indifferenza nazionale e a proprio simbolo un pur fragile benessere economico.
Gli Alpini sembrano invece volere il contrario, e si accaniscono a portare il cappello alpino che è il copricapo che
dovrebbero maledire tante son le rogne che ha procurato loro, e continuano a marciare dopo tanto cammino percorso con le
vene aperte in casa e fuori, e vogliono ricordare continuamente i Morti che, appunto perchè troppi, gli altri son
propensi a dimenticare; e quei loro gagliardetti e vessilli accanitamente tricolori sui quali non vogliono appiccicare
alcun «correttivo» di partito quando tutta la vita che ci circonda ha qualche venatura di opportunismo «sociale»
Ma insomma, che volete alpini col vostro sventolìo di bandiere, il vostro parlare di Patria con pur commovente
insistenza, ora che si tende a ideali supernazionali in campo politico ed economico?
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Le nostre finalità statutarie sono un po’ lunghe da descrivere ma esse trovano una sintesi squisita nelle poche parole
scolpite sulla colonna che l’A.N.A. ha collocato da lungo tempo sulla cima dell’Ortigara: PER NON DIMENTICARE.
Da queste poche parole è facile comprende perchè la nostra Associazione si proponga di «tenere vive le tradizioni e le
caratteristiche degli Alpini, favorendone i buoni rapporti di colleganza con i reparti in armi; di raccogliere ed
illustrare i fasti e le glorie degli Alpini; di cementare i vincoli di fratellanza tra gli Alpini di qualsiasi grado e
condizione e curare, entro i limiti di competenza, i loro interessi e l’assistenza reciproca; di promuovere e favorire
lo studio dei problemi della montagna, sempre in armonia con gli scopi dell’Associazione, mantenendo i migliori rapporti
con Associazioni ed istituzioni che abbiano scopi analoghi e collaborando con esse per la loro risoluzione».
Gli scopi della nostra Associazione sono quindi assai vasti e non si limitano all’intendimento di passare mezza giornata
assieme, di tanto in tanto, davanti a qualche fiasca di vino.
Se abbiamo lo scopo di testimoniare di fronte a tutti l’opera degli Alpini in guerra, ricordiamo nello stesso tempo,
all’attenzione dei responsabili. che la guerra è una cosa estremamente grave anche se assicuriamo di fare il nostro
dovere in caso di bisogno; pure in tempo di guerra gli Alpini sono quelli che brontolano di più e che in maggior
percentuale se ne vanno a morire.
La nostra è sempre stata una associazione tra le più progredite dal punto di vista umano perchè raccoglie soci di
qualsiasi provenienza sociale ma che hanno il cappello alpino quale incontestabile denominatore comune.
L’ ANA. ha pure una funzione di studio dei problemi della montagna in modo che anche in tale campo si riconosce
l’intimità di sforzi e di scopi tra l’alpino studioso e il montanaro alpino.
Amiamo infine le montagne, soprattutto quelle di casa, e in questo sentimento ci troviamo uniti ai tanti che le
frequentano e che ci vogliono bene al sapere che noi siamo presenti a garantire che esse rimarranno le montagne di casa
nostra.
Tutto ciò lo facciamo con semplicità, senza arzigogoli retorici, ma con affetto uguale da parte di tutti noi; nei nostri
giornali sezionali è difficile trovare l’articolo da premio letterario mentre vi si ritrova con frequenza la poesiola
buttata giù come uno sfogo dal semplice alpino in trincea.
A noi piace parlare così alla buona dei nostri problemi e cantare le nostre altrettanto semplici
canzoni, soprattutto perchè la vita ci riserva poi, all’infuori dell’A.N.A., snervanti preoccupazioni professionali o
notevoli fatiche fisiche manuali che affrontiamo con rinnovato vigore volendo essere Alpini anche nel quotidiano lavoro
e nelle civiche incombenze.
I nostri intendimenti non vanno quindi assolutamente oltre al desiderio ed allo sforzo continuo di essere dei buoni
Italiani; il fatto di essere stati Alpini ci ha solo dato i mezzi e le esperienze per valutare, forse in maggior misura
di altri, quanto sia necessario l’affetto onesto e reciproco al prossimo e alla natura il che costituisce l’elemento
primo per amare sinceramente Iddio, la Patria e la Famiglia.
Sotto la naja alpina ci siamo trovati eterogenei al massimo: gente istruita e gente analfabeta, ricchi e miseri, nobili
e semplici montanari, sacerdoti e poco credenti, ma quando siamo tornati, dopo aver fuso le nostre qualità buone e in
parte corretto quelle cattive, ci siamo ritrovati un po’ tutti migliori, con un cumulo di esperienze umane che prima
mancavano alla nostra formazione.
A questa scuola sublime abbiamo appreso quella che è la solidarietà umana e si sapeva che se qualcuno si «arrangiava»
con la nostra gavetta in caso di bisogno egli avrebbe diviso il suo pane con noi, se uno marcava visita per evitare una
piccola ordinaria fatica lo stesso sarebbe stato pronto a passare nel proprio zaino una parte del carico del compagno
stanco o più debole.
Abbarbicati alle roccie, nel superamento delle impervie pareti, si sentiva che la corda che ci univa nel pericolo e
nella reciproca sicurezza era un simbolo di solidarietà che andava oltre la momentaneità del bisogno.
E in guerra ogni Alpino sapeva e sa che questo affetto viene centuplicato all’estremo per il bene di ognuno; e se uno
rimane con le budella al sole gli altri faranno il possibile per salvarlo o almeno lo seppelliranno come un fratello
senza scordarlo mai.
I nostri Caduti li amiamo proprio perchè ci sono stati fraterna- mente amici in vita, perchè spesso son morti al posto
nostro, perchè son stati degli uomini coraggiosi che han saputo generosamente vivere ed eroicamente morire.
Quando le note d’un «silenzio fuori ordinanza» e quelle di Stelutis Alpinis e di tutte le nostre melanconiche canzoni,
ci fan sentire più vicino questo esercitò di Penne Mozze, non ci meraviglia se le lacrime premono agli occhi e i
singhiozzi alla gola: riandiamo col pensiero al personale amico raccolto col petto squarciato dal colpo di mortaio, come
a tutti gli altri Alpini che non sono tornati.
Pensiamo anche a tutti gli altri Soldati d’Italia ed anche ai nemici caduti sotto i nostri colpi o spaccati dalle
baionette, piombati ai nostri piedi mentre i fiotti del loro sangue ci sprizzavano addosso come dita rabbiose di una
mano tesa a maledire la guerra quanto noi.
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Abbiamo ora accennato ai Soldati d’Italia nella loro unità
perché non si deve credere che l’A.N.A. pensi solo a ricordare l’opera degli Alpini; è solo la necessità di una
specializzazione che c’impone di riservare alle memorie del nostro Corpo gran parte della nostra dedizione.
Stimiamo quindi il nostro Esercito e lo difendiamo nella sua integrità e specialmente nei suoi sacrifici passati, perchè
per noi l’Esercito altro non è che l’espressione del popolo in armi; noi non lo identifichiamo in una potenza avulsa dal
popolo che lo forma e tanto meno come un elemento repressivo del singolo e della società.
Molti considerano la naja una esperienza amara e dannosa, ma noi restiamo fedeli ad una Associazione che trae origine
dalla naja proprio perchè non vogliamo che tale esperienza ci sia stata inutile.
L’esercito ha infatti una finalità formativa insostituibile perchè la disciplina seguita nella scuola o nell’officina si
integra con quella della ferma, le pedate sul sedere ricevute dall’istruttore completano la prima dotazione avuta dal
padre o dal fratello maggiore e che è pur essa necessaria soprattutto ai giovani d’oggi, le tante fatiche fisiche che si
sopportano con poca convinzione di utilità si rivelano convincenti della necessarietà delle costruttive fatiche del
braccio e della mente che attendono dopo il congedo; qualche saltuario periodo di c.p.r. non nuoce allo spirito anche se
le ossa dolorano alla sveglia.
L’esercito deve quindi preparare dei buoni soldati ma specialmente dei buoni cittadini e tanto vorremmo che le punizioni
fioccassero più per lo scorretto comportamento esterno che per lievi mancanze commesse in caserma.
I cittadini devono sentirsi bene vicino ai soldati, sentirsi sicuri e protetti anche dalle villanìe e dai pericoli; non
deve accadere che uomini e donne si trovino costretti a fare apprezzamenti negativi sui soldati anche perchè possono
avere dei figli e dei fratelli che morirono indossando un’eguale divisa.
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Considerazioni sfavorevoli vengono spesso fatte a causa della guerra perduta e si rimprovera all’esercito le colpe più
disparate; è anche questo argomento che va difeso per difendere pure la nostra Associazione.
Meraviglia certo che un giornalista solitamente esatto come Indro Montanelli scriva che «quando venne la guerra... il
novanta per cento degli eroi scappavano e l’ottanta per cento dei navigatori non sapevano nuotare», dimostrando una
ferrea memoria sugli effetti di una catastrofe che non va imputata al soldato italiano intendendo come tale l’esercito
operante e non quello che sedeva a Roma; la medesima memoria Montanelli non l’ha serbata a ricordare i suoi impetuosi
articoli quale corrispondente di guerra, come non ha ricordato che, nel momento più grave della nostra storia, son
mancati gli ordini dei capi in doppia «greca» ma anche i «suggerimenti eroici» dei giornalisti armati, come lui, di
macchina da scrivere.
Le argomentazioni sarebbero lunghe e, se a qualcuno piacerà, si potranno anche discutere su queste colonne sebbene la
conclusione sia unica: il Soldato italiano ha dimostrato nell’ultima, come nelle precedenti guerre, un eroismo che gli
merita il rispetto di tutti, compreso quello del predetto signore.
Non abbiamo la pretesa di declamare con enfasi esclusivistica che la nostra è una e Patria di eroi, di santi, di poeti e
di «navigatori» ma crediamo che abbastanza di tutto ciò si possa riconoscere alla nostra Italia.
Come cittadini e soldati noi continuiamo a cercar di meritare quanto le generazioni trascorse ci han lasciato di buono,
di rimediare agli errori gravi di pochi potenti che i deboli han lasciato divenire tali, per poter infine consegnare
agli italiani di domani un Tricolore pulito da sventolare senza vergogna nel cielo d’Italia.
MARIO ALTARUI