NATALE 1942 al fronte russo |
Dicembre 1962 |
di D. Carlo Gnocchi
Già l’anno prima il Natale si era risolto, per il
Corpo di spedizione in Russia, in una giornata di lotta furibonda e improvvisa, poiché i Russi erano usciti
inaspettatamente
dalla calma, proprio sul fronte degli italiani; se non esclusivamente con l’acre proposito di profanare la dolcezza
religiosa del giorno natalizio, almeno nel facile intento di operare un’azione di sorpresa. E davvero do-
vette essere un risveglio brutale e una sfida cocente quell’allarme gridato di casa in casa, di fortino in
fortino, quando già l’atmosfera della notte santa, calda di fiati e di canti sommessi si disponeva a intimità di presepe
e di focolare e i pensieri dei soldati si tacevano lontani e sognanti dietro il suono raffreddato e pretenzioso delle
fisarmoniche.
Quest’anno poi, se anche davanti alle linee della nostra Divisione il nemico non dava segno di vita, si sapeva troppo
bene che, su tutto il fronte, l’Armata italiana era, ormai da quindici giorni, impegnata in una lotta mortale, impari e
sfortunata, per consentire anche ad un uomo solo di abbandonare la linea ed assistere alla Messa natalizia. Quella notte
anzi: sentinelle raddoppiate, uomini ai pezzi, scarpe ai piedi e... arresti in vista per gli ufficiali.
Moriva il cuor al Cappellano ed agli alpini che avevano lavorato per settimane a preparare nelle baracche perdute nella
neve, altari di festa, presepi di fortuna (l’Edolo lo aveva scavato a tutto rilievo in una grotta gessosa del Don e non
vi mancava l’arrotino in faccende, né le oche placide sul laghetto bianco) e a far prove dei cori per la Messa, fino
alla mezzanotte (piano ragazzi che è già il «silenzio» e io non voglio grane col capitano !...); ma la guerra ha
purtroppo leggi di ferro e bisogna sapersi «arrangiare».
Allora l’altarino fu elevato nella buca del Comando di Battaglione, fra le travi che sostenevano la volta (e sembravano
colonne di catacomba) e tra le sandaline dei fili telefonici che uscivano a fasci sulla steppa bianca, verso le linee
del fuoco, fino ai Comandi avanzati di Compagnia e alle Batterie in allarme. Nella notte, fosforescente di stelle e di
neve, ogni uomo ed ogni cosa stava sospesa nell’atmosfera trepida della miracolosa attesa.
Il Comandante del Battaglione è al telefono da campo. «Ragazzi, la Messa è incominciata. Nel nome del Padre, del
Figliuolo e dello Spirito Santo», dice con voce inesperta e accento spiccatamente bresciano. «ora siamo... (come si dice
Cappellano?) siamo all’Offertorio! ... E’ la Elevazione».
Alpini: «Attenti! Presentat’arm!»
Lungo i camminamenti imbottiti di neve, il comando passa da uomo a uomo, sussurrato nella notte vitrea ed ansiosa e gli
alpini, con gli occhi fissi al nemico, scattano sull’attenti, dinnanzi al Signore che scende contemporaneamente
sull’altare da campo, nel dolore della steppa infinita, e sugli altari delle Chiese d’Italia, festanti di luci e di
incenso.
Nottataccia. Vento e nevischio a flagellare gli uomini
di vedetta. E buio impenetrabile. «Quegli altri» zitti e quieti. Nessuna sparatoria. Solo qualche colpo pazzo, ogni
tanto. Ma vatti a fidare. E quei poveri Cristi di vedetta, infagottati e incappucciati, ad aguzzare gli occhi sospirando
il cambio.
Ventiquattro dicembre, notte di Natale. Il primo Natale di guerra. A casa, mia madre faceva in quel giorno il suo
compleanno. Malinconie, cose di un tempo che sembrava non essere stato.
Nella baracca, dietro il costone, nessuno parlava. Ognuno teneva per sé la sua tristezza e aveva pudore a far trasparire
la nostalgia. C’era in quel silenzio, in quell’inumano silenzio di prima linea, qualche cosa di ossessivo. Per nessuno
di noi era Natale.
Qualcuno uscì a dare il cambio. Rientrarono gli altri intirizziti. Gli scarponi batterono sul terreno con tonfi sordi.
Di nuovo fu silenzio.
Poi, avvenne improvvisamente il miracolo. E lo fece un alpino dei monti di Bagni di Lucca, il più abile di tutti noi.
Buttò giù il suo zaino, vi frugò a lungo e ne trasse
una piccola cosa. Io mi domando ancor oggi per quali vie misteriose essa fosse giunta fin lì, nello zaino di un alpino
alla guerra.
Era un piccolo Gesù Bambino di gesso, di quelli che fanno al suo paese. Piccolo e roseo, con un camicino azzurro e i
capelli giallini. Ognuno lo guardava, nella poca luce, ad occhi sbarrati.
L’Alpino si alzò. E teneva delicatamente il Gesù Bambino dentro il palmo della sua grande mano, come in una culla
tiepida. Lo posò sul rozzo tavolo, accanto alla lampada famosa. Poi si fece il segno della Croce.
Allora qualcosa si sciolse dentro di noi. Ognuno si avvicinò, silenziosamente. Santini si copri gli occhi con le mani e
pianse pensando ai suoi figlioletti. Nella baracca entrò l’aria del paese, il suono delle campane, il tepore del
focolare. La guerra era lontana e non ci riguardava più. Ognuno si segnò e pensò cose di pace.
E fu Natale. Anche per noi.
BRUNERO GIAMBASTIANI
(dal periodico «Stella Alpina» della Sez. A.N.A. di Pisa-Lucca)