UN CANTO DEGLI ALPINI |
Febbraio 196 |
Costantino Nigra, il diplomatico poeta, non aveva con sé una squadretta agguerrita di allievi, un
registratore, bobine e nastri, quando in giro per le colline del suo Canavese, se si trovava nella villa paterna, o in
quelle del Monferrato, sapeva vincere la naturale ritrosia dei contadini, raccogliendo, come un moderno cultore di
scienza folcloristica, dalla loro voce o dal loro canto, il fiore della poesia popolare piemontese. Gentile, attento,
paziente, riusciva a far ricordare agli anziani le preziose canzoni cantate in gioventù, imprimeva ai giovani l’impeto
d’un canto, mormorato nell’infanzia: e di ogni canzone, d’ogni stornello o strambotto, allineava diverse lezioni a
seconda dei luoghi, materia poi di quello splendido libro, che pubblicato nel 1888 dall’editore Loescher, di recente, in
rinnovato clima di attenzione all’humus poetico popolare, è stato ristampato con io stesso titolo di «Canti popolari del
Piemontese».
FINALE DRAMMATICO
Quando redazioni, raccolte a Leynì da una contadina, e poi a Torino, in Valfenera e a Sale Castelnuovo, riporta
Costantino Nigra del «Testamento del marchese di Saluzzo», una canzone mesta e dal drammatico finale, che i soldati
reduci dalla sfortunata spedizione del nobiluomo piemontese contro le truppe di Carlo V e dall’assedio di Aversa del
1528, cantavano già all’epoca del loro ritorno in patria, esprimendo così, col canto, da loro scaturita o da un ignoto
poeta, l’emozione e il ricordo d’una scena che li aveva colpiti e commossi: il giovane. ambizioso marchese di Saluzzo
che, a soli 33 anni, dopo giorni e giorni di assedio, ferito da un colpo d’obice dell’artiglieria imperiale, è raccolto,
conclusi i negoziati, dal marchese di Vasto, si sente morire e chiama a sé i commilitoni più fidi e dinanzi a loro detta
il suo testamento, raccomanda la vita sua che quattro parti se ne debba far. Giustamente Paolo Monelli ha
ricondotto a questo canto piemontese, diffusosi, del resto poi nel Veneto e nella Bassa Emiliana, l’ascendente piè
diretto della nota canzone di guerra cantata dagli alpini della prima guerra mondiale, il «Testamento del Capitano»,
scrivendone a proposito della parodia fattane alla radio in una rivistina della domenica sera e indotto dallo scarso
spirito e dalla forte grossolanità di quest’ultima, ad occuparsi del testo di una delle piè
belle canzoni di guerra e certo fra le più care.
Le corrispondenze sono quasi assolute. Il capitano di Saluzzo sta tanto male da morire a manda ciamé li so’ soldà;
ma i suoi soldati, esattamente come gli alpini di quattro secoli dopo, sia che non voglian debolezze, sia che prima di
tutto voglian pensare al loro dovere, recalcitrano: i soldati del marchese hanno da montare la guardia, hanno da passare
in rivista, all’appuntamento con il loro capitano che muore ci vanno tirati per i capelli. ma poi quando sono alla sua
presenza e lo vedono disfatto sul letto di morte, eccone l’impressione dolente e vibrante nella domanda, che da una
guerra all’altra ha valicato il tempo:
Coza comand’lo, capitani? Coza comand’lo ai so soldà?, dicono i piemontesi del marchese di Saluzzo a ritorno
dalla battaglia per i Francesi; Cossa comandelo, sior capitano allora adesso che semo qua?, chiedeno ubbidienti e
con ancora un velo di ironica premura gli alpini del Carso. Dopo, nell’una e nell’altra canzone, i due capitani
raccomandano la spartizione della loro vita. Ed io comando che la mia vita — in cinque pezzi sia da tajà, cioè il
capitano ai suoi alpini. Il primo pezzo al re d’Italia, secondo pezzo al battaglione; il terzo pezzo alla mia mamma..
finché si giunge alla sua bella e alle sue montagne. Ma il giovane marchese di Saluzzo, se della sua vita destina
una parte alla Francia, una al Monferrato, alla mamma vuole che sia data la sua testa ch’a s’arricorda d’so primi
fiöl e alla Margherita, la donna sconosciuta che tutto ad un tratto, per quei meravigliosi voli che hanno le poesie
popolari, è li presente anche lei e cade morta di dolore, vuole mandé ‘l corin, cha s’aricorda del so amur.
Si riallaccia così, l’antica canzone popolare cinquecentesca, alla particolare considerazione del cuore come centro
della vita e dell’ardimento, che corre in tutta la lirica provenzale fino al Dolce Stil Nuovo e il cui primo accenno,
vistoso e satirico, ma non meno carismatico, si incontra nel
famoso Compianto di Ser Blacas, scritto da Sordello con Goito e al quale insomma, su scorta di illustri studiosi della
lirica occitanica e italiana del Duecento, si può ricollegare la nostra canzone di guerra, che allora invece d’essere
antica di quattro secoli, lo sarebbe di tre di più. Il fatto non è così meraviglioso come può apparire a basarsi
soltanto sul numero dei secoli: in quel Monferrato in cui è restata viva la tradizione orale d’un canto come il
«Testamento del marchese di Saluzzo», i trovatori provenzali avevano trovata una seconda patria e senza dimenticare che
i soldati fra i quali «sbocciò» si trasmise l’idea del canto in onore del proprio capitano, avevano combattuto a fianco
di soldati francesi, certo già nella memoria, tramandata da generazione in generazione, doveva riposare l’eco di un
Compianto che era famosissimo al tempo del suo autore. Quel Sordello da Goito, fuggito dall’Italia in Provenza, cariche
le spalle di ratti di donne e poco edificanti avventure, che divenne a poco a poco un gentiluomo a cui Carlo d’Angiò
donava castelli e terre e che Dante, certo guardandolo attraverso la forte poesia del suo Compianto, ci presenta
sdegnoso e cupo, fino all’abbraccio di Virgilio, è il primo in ordine di tempo ad aver avuto la fondamentale trovata
della spartizione del corpo di un morente fra chi gli soppravviverà. E l’invenzione fu di tale portata che l’identità di
Ser Blacas, in onore del quale Sordello scrisse nel 1237 il suo Compianto, è affondata nel tempo e invece è restato
vivacissimo, a resistere ai secoli, il patetico e insieme severo, duro fatto poetico del Testamento e della speciale
comunione del corpo o di una sua parte fra il morente e gli aitanti.
SCENA MACABRA
Pianger voglio Blacas su questa schietta melodia — con cuore triste e smarrito, dice Sordello e aggiunge che ne
ha ragione perchè era un signore buono e morendo lui sono venute meno molte virtù. C’è un solo modo di riparare a un
danno così grave che gli si cavi il cuore e se ne nutrano i baroni che vivono scorati, senza nerbo né valore. I
baroni, i principi che da Blacas avrebbero avuto da imparare sono un buon manipolo e Sordello con la sua furia
addolorata li allinea in una sua macabra e
grottesca scena, nel consiglio di cibarsi del cuore di Blacas, di questo cuore nobile che assume proporzioni vaste e
profonde e pende rosso e importante sullo straordinario Compianto funebre. Primo mangi del cuore- che ne ha gran
necessità – l’imperatore di Roma, se vuole i milanesi – per forza conquistar. E poi il re di Francia ed Enrico III;
in quanto al re di Pastiglia conviene che ne mangi per due, e così via fino al conte di Tolosa che ne deve mangiare più
di tutti perché se con altro cuor la sua perdita non ripara – con quello che ha, ripararla non sembra.
Il tono è di satira, ma il dolore vi palpita e
il tempo di quella pena ha fatto tesoro, caduta la cronaca delle allusioni politiche, tramontati di esse i personaggi:
era stata infatti quella pena, nella sua trovata espressiva, a determinare la novità del Compianto, dissimile da tutti
gli altri del tempo, apologetici del defunto, unico valoroso in un mondo di larve. E se ne ricordarono i soldati del
marchese di Saluzzo, qui nel Canavese e nel Monferrato, il tema risorse nelle trincee venete fra gli alpini; là in
Provenza il cuore, da noi raggentilita la parte anatomica in un poetico traslato «vita mia»; si tramandò per quelle vie
che posano sulla qualità etnica dei luoghi e in una diversa geografia dall’altra sancita dagli assetti politici, legano
terre molto distanti fra loro.
Già nel 1240, tre anni dopo che Sordello l’aveva composto — e questo conferma il pensiero di Monelli che proprio a
componimenti più forti e veri si attacca la parodia - il Compianto di Ser Blacas fu travestito comicamente da due
trovatori, Bertram de La Manon e Peire Bremon Rica Novas e si trattò di banali e pesanti ricalchi, quando più si
prestava la sanguinolenta scena del cuore in pasto ai baroni, al facile spirito di bassa lega. Ma di essi e dei loro
versi non è restata traccia e della creazione di Sordello, della sua sostanza si è nutrita la poesia popolare; ritornata
anonima ha raggiunto ciò che in fondo desidera ogni poera, è passata nella memoria di tutti.
LUCIA SOLLAZZO
(per cortese concessione de’ «Il Gazzettino» di Venezia)