ALPINI DI BOL


Agosto 1963

DA VENT’ANNI
I morti che maggiormente piangiamo

La nave scivolava agilmente lungo la costa dalmata e la serata di gala a bordo era giunta alla fase più allegra e spensierata; erano le ore due di una splendida notte dello scorso aprile, coll’Adriatico calmo più dei precedenti giorni, con una brillante fetta di luna che inargentava lievemente la superficie tremula del mare.
Uscii dalla vasta sala divenuta una fragile foresta di stelle filanti che allungava le sue spire come carezze attorno al nudo collo delle dame, e raggiunsi il comandante il quale aveva da tempo ripreso a dirigere la rotta tra i bassi fondali, dopo aver «aperto» le danze secondo il rituale delle crociere.
In plancia di comando non s’udivano le grida festose né i suoni dell’orchestra impegnata negli eccitati pezzi musicali moderni, ma solo lo sciabordio dell’onda creata dal veloce procedere della nave sull’Amarissimo mare.
Avevo un muto appuntamento col vecchio comandante un tempo nemico; con quest’uomo che aveva evidentemente capito perché durante il giorno m’ero fatto indicare sulla carta l’isola di Brazza, il paesino di Bol, Punta Maddalena ed avevo chiesto l’orario del nostro passaggio in quei luoghi.
E’ un tipo abile e furbo il capitano: alto ed asciutto, con la pelle bruciata dal sole impastato di salsedine, due occhietti pungenti e saettanti, con l’inseparabile sigaretta tra le labbra che rientrano oltre i denti nella ritmica voluttuosa aspirazione delle profumate volute di fumo. Durante la guerra era stato una specie di corsaro in questo mare del quale conosce l’anfrattuosità più segreta delle coste, i moti e le insidie delle acque, la storia più intima dei villaggi e delle città dell’intera Dalmazia.
Al comandante non era sfuggito che avevo chiesto le medesime informazioni anche ad un suo ufficiale di coperta, che all’occhiello portavo il distintivo dell’A.N.A., che durante qualche ora del giorno mi leggevo le «Centomila gavette» di Bedeschi, che gli unici «souvenirs» che m’ero portato a bordo erano schegge rocciose del Montenegro e dell’Erzegovina, e che m’interessavano le pur lontane montagne d’Albania visibili al largo di Cattaro.
Ora ero lì, al suo fianco, pensando alla stessa cosa ma senza che alcuno ne parlasse: io me ne sarei vergognato; lui fu generoso a tacere.
Ecco l’isola di Brazza, ecco Bol e, laggiù, le tenui luci di Punta Maddalena, sulla destra di Sebenico.
Fu in questo breve spazio di isole e di coste che si svolse, esattamente vent’anni or sono, una tragedia ancor oggi inesplicata.
*
Nell’estate del 1943 il paese di Bol era presidiato dalla 323° compagnia del 3° reggimento alpini, comandata dal capitano Leo Banzi figlio di un generale; il reparto era male equipaggiato e quasi senza armi quando il 5 agosto, malgrado l’estrema resistenza, venne sopraffatto dalla popolazione partigiana e posto di fronte all’alternativa di cedere le armi o di venire massacrato.
Il Capitano Banzi, responsabile della vita di settanta alpini che continuavano ad essere più utili alla Patria rimanendo in vita che facendosi, ormai tutt’altro che gloriosamente, sgozzare dai croati, dispose l’evacuazione della località.
Con imbarcazioni di fortuna, superando pericoli gravissimi, il capitano Banzi e i suoi uomini raggiunsero Punta Maddalena dove vennero deferiti ad una corte marziale italiana.
L’improvvisato atroce tribunale militare, esempio di tutta l’infame organizzazione antinazionale che vide quale mezzo di espiazione delle colpe altrui quello di massacrare in ogni forma e circostanza i generosi soldati italiani, si mise immediatamente a giudicare.
Presieduta da un non meglio identificato col. Bianchi, la corte marziale di Sebenico concluse l’infame opera in due ore, senza procedere all’interrogatorio dei testi né attendere l’arrivo del prescritto rapporto del comandante del reggimento dal quale dipendevano gli uomini in
giudizio.
Il Capitano Leo Banzi venne ritenuto colpevole del reato di aiuto al nemico e di resa in campo aperto: venne degradato e condannato alla fucilazione; il sottotenente Renzo Raffo e altri ventisei alpini vennero giudicati rei di sbandamento durante il combattimento con conseguente condanna alla fucilazione.
Nel tentativo di trasformare in odio quella che è sempre stata una leale, fraterna elevazione competitiva tra alpini e bersaglieri, ordinarono proprio a questi ultimi di provvedere alla fucilazione delle ventotto Penne Nere; i condannati perdonarono ai giudici e ai fanti piumati i quali spararono, piangendo, ai propri fratelli alpini schierati sull’arenile di Punta Maddalena.
Non bastò: altri ventitrè alpini della 323° compagnia vennero condannati a quindici anni di detenzione ed avviati ai lavori forzati nelle miniere di alluminio di Sebenico.
Appena un mese dopo sarebbero stati proprio i maggiori comandanti a fuggire di fronte al nemico, lasciando soli e senza ordini più di un milione di soldati dai quali avevano preteso giuramenti ed obbedienza oltre ogni buon senso umano e militare.
Dopo dieci anni il processo è stato rifatto dal Tribunale militare territoriale di Bari col risultato di riconoscere che gli Alpini di Bol avevano resistito fino al massimo delle possibilità all’attacco avversario; farsi ammazzare ormai inutilmente, per un orgoglio militare malamente inteso, sarebbe stato un errore. Gli alpini erano stati sopraffatti, è inutile negarlo, malgrado il valore espresso ma non sufficiente a compensare l’inadeguatezza delle armi in dotazione e il numero degli attaccanti, se quest’ultimi hanno dato una possibilità agli alpini di salvarsi vuol dire che ne avevano riconosciuto la bontà e l’eroismo.
Venti alpini superstiti uscirono finalmente dal carcere dicendosi: « Paìs, l’è finida la guera! » e ventotto telegrammi vennero inviati dai Generale Salvi, Presidente del Tribunale Militare di Bari, alle singole Famiglie dei trucidati: «Restituisco non la vita dei vostri cari, ma l’onore immacolato». Il tribunale ha inoltre ordinato che il dispositivo della sentenza di riabilitazione venisse trascritta sul certificato di morte di ciascuno degli innocenti fucilati.
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La nave fendeva veloce l’onda mentre il timoniere teneva in silenzio la rotta; assieme al «corsaro di guerra» iugoslavo mi trovavo a scrutare con pensieri comuni la lontana spiaggia di Punta Maddalena.
Ad un tratto il capitano premette il pulsante della sirena, come si usa fare a modo di saluto in prossimità delle maggiori città della costa: ma Bol è un villaggio piccolo e cullato dal sonno; Punta Maddalena era troppo là in fondo, oltre Brazza, per udire il nostro saluto.
Il suono della sirena ebbe un’insolita durata: sembrava un urlo di fiera ferita o il gemito di un gigante morente. Era il saluto col quale il lupo di mare iugoslavo si univa a me nel salutare le ventotto Penne Nere mozzate da un vile destino.

M. ALTARUI