NATALE IN RUSSIA |
Dicembre 1963 |
La notte di Natale calò sulla distesa bianca; era patetica e struggente come solo i soldati in trincea la sentono,
lontani da ogni bene, dispersi nel silenzio, prossimi alle stelle.
A mezzanotte, dalle gelide tane disperse fra la neve, ombre lente sortirono sulla pianura e s’avviarono silenziose verso
un punto un poco luminoso. Convenivano dagli esigui tuguri ricavati tra neve e terra, pazientemente divisi con pidocchi
e topi; andavano a processione e giungevano alla piccola luce, alla baracchetta del Comando di battaglione a salutare
Gesù, poiché il cappellano Lo chiamava tra gli alpini, in quella notte: diceva la Messa di Natale in prima linea e Lo
pregava di scendere a trovare gli alpini, che Lo attendevano con puro cuore.
Pochi avevano trovato posto nella baracchetta, i più stavano nella neve, si erano inginocchiati nella neve e dalla
porticina aperta vedevano le due candele accese e il cappellano che pregava per chiamare Gesù.
Il cappellano pregava con fervore ma un poco in fretta, perchè gli alpini tremavano di freddo, quarantadue feroci gradi
sotto zero, ma erano venuti da Lui.
Stavano fermi e buoni nella neve, le ginocchia sprofondate nel bianco parevano di ghiaccio, tenevano la testa bassa a
dire le loro semplici preghiere e ogni tanto l’alzavano a guardare il chiarore delle due candele.
Il cappellano leggeva in fretta e a bassa voce le parole della Messa di Natale.
Vedi, Bambino Gesù — forse diceva il suo cuore mentre gli occhi scorrevano sulle righe del messale — questi sono alpini
che fanno la guerra. Ma non ne hanno colpa, Tu lo sai. Sono stati mandati, e devono ubbidire. Preferirebbero lavorare
tranquilli nelle loro case, per i loro figli e per le mogli che sono rimaste sole e per i vecchi. A loro non manca la
buona volontà di servirTi in pace proprio come vorresti Tu, Pax ominibus bonae voluntatis. Vedi invece dove sono
finiti e come soffrono, che vita fanno! Guardali come sono ridotti, quasi peggio di Te quando nascesti: hanno solo un
po’ di fradicia paglia per sdraiarsi: Tu almeno avevi, scusa, il bue e l’asinello a riscaldarTi col fiato. Loro, no. Il
loro finto esce dalla bocca e diventa brina, ricade sul bavero e sul petto del cappotto, anche quando dormono; si
svegliano così, poveretti, col ghiaccio sugli abiti. E sopportano, perchè sono mansueti ed umili di cuore, come Tu vuoi.
Quando mi sono voltato verso di loro per annunciare Gloria in excelsis Deo, ho visto che sono inginocchiati nello
neve rivolti al Tuo altare: me l’aspettavo, li conosco bene. E stanno a testa china, Ti pregano, se li ascolti sentirai
che Ti chiedono soprattutto di farli tornare presto a casa, alle loro montagne; da soli non possono andarci, sono capaci
di morire qui, per ubbidire. Tu stesso li hai fatti così; ma se li restituisci alla casa sentirai che felicità, che
bontà d’intenti e d’opere vive nel loro cuore...
Press’a poco così doveva pregare il cappellano, perchè era un alpino anche lui.
Ormai la Messa di Natale stava per finire; con quei quarantadue sotto zero non era possibile, in linea, fare altre
cerimonie. Nella baracchetta, vicino all’altare, il campanello del telefono da campo trillò.
— Pronto — disse a bassissima voce, per non disturbare, il maggiore Letti che comandava il battaglione Tolmezzo.
Ascoltò, rispose brevemente e tolse la comunicazione scambiando con il celebrante un gesto di rammarico.
Immediatamente ai posti di combattimento! — ordinò ad alta voce; — i russi stanno venendo all’attacco davanti al nostro
battaglione. Capitano Reitani, qui per favore.
La ventisei, che operava in diretto appoggio del battaglione, aveva la linea pezzi schierata fra le postazioni
degli alpini.
— Mi raccomando il collegamento fra noi disse il maggiore; — sarà dura, dagli osservatori avvertono che i russi stanno
attaccando con almeno tre battaglioni il mio reparto. Dovremo compiere uno sforzo enorme.
Il cappellano aveva terminato la Messa e stava riponendo gli arredi sacri, s’udì il frullare e lo schianto d’alcuni
colpi di mortaio che esplosero nelle vicinanze.
— Non rispettano neppure la notte del Signore... — sospirò il cappellano spegnendo le due candele.
Reitani era già uscito, corse duecento metri a raggiungere la batteria. Le salve di varie batterie russe iniziarono a
scaricare proietti sulle linee italiane.
Dietro i pezzi, al Comando di batteria squillò il telefono, Reitani accorse.
— Tiro d’interdizione su Novo Kalitwa — disse a Dell’Alpe uscendo e comunicando i dati.
La batteria iniziò a sparare aprendo il duello con le artiglierie russe, i bengala si alzavano illuminando le linee con
una fioritura di luce, scoprendo i grossi battaglioni nemici che avanzavano sulla neve; velocissimi nastri rossigni si
stendevano nell’aria rasentando le corolle dei cardi vizzi, venivano incontro agli alpini acquattati e si spegnevano nel
buio: pallottole traccianti delle mitragliatrici russe.
Avanzando ancora i reparti russi ed intensificandosi il fuoco nemico, squillò nuovamente il telefono alla ventisei.
Il comandante di gruppo ordina di sospendere il tiro su Novo Kalitwa, che verrà ripreso dalle due altre batterie del
gruppo. La ventisei inizi il tiro di sbarramento sui reparti russi che avanzano.
Reitani comunicò alla linea pezzi le variazioni di tiro, le prime granate caddero sui russi, questi risposero con un
intensificato tiro dei mortai. Le mitragliatrici degli alpini sparavano a tiro incrociato, lunghi sibili negli alti
spazi del cielo annunciavano il passaggio delle granate. Vampe violacee e rossastre zampillavano dovunque sulla neve,
disseminando schegge sugli uomini e inserendo sprazzi di colore nel bianco spettrale della luce dei bengala.
— Parla il maggiore Letti — disse ancora una voce concitata al telefono della ventisei – Reitani, tieniti pronto
a sparare a zero, ho gia avvertito i miei alpini di stare sdraiati sulla neve, i russi che attaccano stanno per dare
l’assalto alle nostre trincee, sono a duecento metri. Sono migliaia, è un momento duro; tiro preciso, a fil di penna, mi
raccomando, se no mi ammazzi gli alpini
Fidatevi della ventisei, maggiore — replicò Reitani e ritornò di corsa ai pezzi per far variare il tiro.
— A zero, ragazzi — comandò ai capi-pezzo — a duecento metri. Ricordatevi che i proiettili che sparate sfiorano gli
alpini.
— Non sbaglieremo di quattro dita, signor capitano! — esclamò
Bartolan curvandosi assieme a Coltrin sul sistema di puntamento del
pezzo.
Trenta secondi dopo, gli alpini affacciati alle trincee a sparare, avendo a cento passi dietro le spalle i quattro pezzi
della batteria, percepivano a un metro sopra la testa il sibilo e il risucchio delle granate roventi della ventisei
che li sfioravano, per esplodere duecento metri più avanti nel folto del reparto russo.
— Perfetto, Reitani! — gridava il maggiore Letti al telefono; — ancora, ancora! Tiro accelerato fino a contrordine, se
puoi; è il momento culminante.
Con gli stessi dati, tiro accelerato — ordinò Reitani alla linea pezzi.
Quando i russi, nella luce dei bengala, spiccarono il balzo finale per
piombare nelle trincee del battaglione, la neve e l’aria ribollivano di
esplosioni, di schianti; gli alpini, curvi sulle loro armi e protetti dai
nastri infuocati della ventisei che parevano mordere le penne, sparavano a perdifiato, frenetici, decisi a
difendere la trincea e scattare al contrattacco quando i russi fossero stati a pochi metri. Il battaglione e la
batteria, fusi in un’unica micidiale forza, difendevano la linea e la vita in uno slancio estremo. I russi piegavano le
ginocchia e s’afflosciavano sulla neve, ma altri sopraggiungevano baldanzosi arrestandosi anch’essi e cadendo; prossimi
ormai alle linee altri guadagnavano un metro, due metri, abbattendosi infine innanzi alla distruggitrice tenacia di un
battaglione e d’una batteria d’alpini; la sorte parve a lungo sospesa sulle linee, affidata da un lato a virtù di
tenacia di pochi e dall’altro all’irruenza e alla massa d’urto dei molti; quando gli sforzi degli assalitori parvero
scoordinarsi, quando infine la massa russa voltò le spalle e all’improvviso arrancò come una pesante mandria verso il
buio delle proprie linee, allora fra gli alpini, che deposto finalmente il fucile sulla neve si soffiavano sulle mani
gelate o le infilavano sotto le ascelle corse un brusio che da difensore a difensore diceva:
— Abbiamo collaudato la linea: potranno venire mille volte, ma non passeranno più.
Ora gli alpini riordinavano le armi e correvano di bocca in bocca i primi tristi consuntivi del combattimento:
— Due morti e quattro feriti al primo plotone...
Un colpo di mortaio è entrato alla trincea del quarto: cinque morti e un ferito...
— Una ventina di alpini si sono congelati...
— Tre assiderati...
Dalla piana antistante le trincee si udivano salire i lamenti dei feriti russi immobilizzati nella neve. Lugubri e
fuochi, straziavano il cuore.
— Bisognerebbe fare qualcosa, andare a prenderli poveretti. Sulla neve muoiono, con questi quarantadue sotto zero.
— Sono già uscite due pattuglie, ma non hanno potuto avvicinarsi, sono state prese a fucilate. Ci sono ancora diversi
russi appostati in giro, e sparano.
La ventisei aveva avuto otto feriti, Serri li aveva medicati e avviati
all’ospedale. Uno s’era presentato, un servente del secondo pezzo, e aveva mostrato in silenzio al medico le palme delle
mani. Dal palmo alle estremità delle dita mancavano in tutto il loro spessore i tegumenti cutanei, le povere mani
ostentavano a nudo i fasci di muscoli e il biancore luccicante dei tendini.
— Cosa t’è successo, disgraziato?
— Mi ero levato i guanti un momento, signor tenente, perchè erano incrostati di ghiaccio e non potevo muovere le mani.
Sono scivolato vicino al pezzo e sono caduto; per non sbattere la faccia ho dovuto poggiare le mani sul ferro del
cannone. Per il gelo la pelle mi è rimasta attaccata là, Dio santo.
Il gelo, l’indemoniato gelo era sempre il nemico più feroce; era vile, subdolo, implacabile, e ad ogni istante in
agguato.
L’altro, formidabile anch’esso, era tuttavia più facilmente affronta- bile. Non desisteva se non era esaurito dallo
sforzo, però. Anche in quella notte di Natale dopo mezz’ora di tregua ritornò all’attacco con forze più imponenti,
impegnò i suoi uomini con un vigore impressionante scagliandoli di nuovo contro il battaglione e la batteria, deciso a
sfondare. Ripiegò, ritornò quindi con maggiore furia all’attacco.
Attenti — telefonarono dagli osservatori e dai comandi — viene avanti con forze raddoppiate, è indubbiamente un intero
reggimento che avanza.
L’urto contro il battaglione e la ventisei fu terribile, distruggitore; fortunatamente gli altri battaglioni del
reggimento e le batterie del gruppo riuscirono ad agganciare il reggimento nemico impegnandolo su più largo fronte e
frazionando la potenza d’urto. Il nemico non giunse a ridosso delle trincee; nell’imminenza dell’alba il reggimento
russo, fiaccato da ore di tentativi sanguinosi, ripiegò ancora una volta.
Agli sguardi stanchi degli alpini l’alba svelò innanzi alle trincee lo spettacolo di centinaia di russi inerti sulla
neve.
Le palpebre pesavano, tormentate dalla stanchezza; e gli occhi vitrei dei soldati guardavano fissi e come spenti al di
sopra dei cadaveri il primo livido pallore di quel venticinque dicembre che gli uomini amano salutare giorno di pace.
(da «Centomila gavette di ghiaccio» - Ed. Mursia)