RUBATA AUTO MILLETRE PIU' TRE ALPINI


Dicembre 1963

Nel tardo pomeriggio della giornata conclusiva del IV Raduno Triveneto mi trovai impegnato, unitamente al Presidente della Sezione, in piccole operazioni di polizia alpina per neutralizzare o regolare l’euforia spontanea di taluni convenuti. Ciò è addirittura indispensabile perchè è ormai noto che nelle sagre scarpone si inseriscono sempre elementi non alpini che approfittano dell’allegria generale e della comprensiva generosità dei nostri incontri e far ricadere sugli alpini le tristi considerazioni che la popolazione viene a trarre da spiacevoli episodi.
Per spazzare via due delinquentelli di meno di vent’anni, piazzati ai crocevia tra la stazione e la Gradinata degli Alpini e che ostacolavano la viabilità, si determinò un piccolo ingorgo del traffico che si stava già risolvendo sveltamente quando giunse una Fiat 1300 completa di alpini.
Al vedere l’animato crocchio in mezzo alla strada, il guidatore fermò l’auto lasciando il motore acceso e si unì a quella che credeva una allegra comitiva alpina in vena di baldoria.
I due incauti giovinastri che turbavano la quiete del prossimo tagliarono celermente la corda sotto la minaccia di una robusta timbratura di calcioni nel sedere, ma l’allegro gigante alpino della Milletre aveva ormai trovati amici (chissà se occasionali o di più lontana data) con i quali si scambiava solenni manate sulle spalle ed energiche strette di mano, facendo ponte con le robuste braccia sopra il tetto dell’auto; d’andar via non ne voleva sapere e non potevamo lasciar ingombrare la strada con una macchina di alpini veri quando avevamo appena fatto sgomberare due alpini fasulli.
Dentro l’auto rimanevano tre alpini sonnecchianti ai quali nulla importava di ripartire, anche perché la sosta conciliava un più soave appisolamento.
Vedevo che ai carabinieri e ai vigili urbani stava crescendo la temperatura e so bene che è meglio non far faticare la forza pubblica in faccende che possiamo sbrigare da soli.
Mi buttai dentro l’automobile e partii con scatto da competizione sperando che il proprietario si muovesse o almeno intervenissero gli occupanti; manco per niente: il «derubato» continuò a seminar manate e i tre alpini entro l’auto rimasero beati senza pronunciar parola. Mezzo chilometro più avanti infilai un rettangolino di posteggio, feci gracchiare il freno a mano e tornai a piedi per indicare al grosso alpino dove poteva riprendersi la Milletre.
Non l’incontrai né al rifar la strada né in centro, e poco dopo non ricordavo più nemmeno la faccia pienotta dell’alpino appiedato.
A sera ormai inoltrata lasciai i vecchi amici e mi cacciai in macchina passando per la via centrale per tornare a casa, quando un alpino mi fa segno di fermare e lo feci pensando che volesse darmi una castagna arrostita come lasciapassare, cosa che si andava ripetendo con varie altre vetture in transito.
— Par piaser: me portalo dai carabinieri? I m’ha fregà la màchina!
Vacca miseria! Nella tenue penombra dell’interno non avevo riconosciuta la facciona dell’alpino della Milletre trafugata.
Mentre l’abbacchiato alpino saliva al mio fianco e ripartivo lentamente tra il traffico intenso, riprese: Ho telefonà ai carabinieri e dèss vò in caserma a denunciar ‘l fatto.
— Ma com’è stata, dov’è avvenuto?
— Giuda ladro, la m’è sbrissada da soto gli oci; e li m’ha robà anca gli alpini che gèra dentro
Ma mondo boia! — ribatto — come si fa a farsi rubare tre alpini?! Adesso cerchiamo assieme e vedrai che troveremo macchina e carico.
Manco a dirlo mi fermai proprio dietro la Milletre e l’alpino mi fece tanti elogi per le mie trascendentali qualità poliziesche.
Stretta di mano. Ciao. Ciao. E un po’ di fretta da parte mia di buttarmi a volo sulla via di casa.
Il motore della mia auto s’era spento durante la breve sosta d’addio anche perchè il tragitto era stato fatto in modo malagevole data l’intensità del traffico; girai l’accensione ma il motore non agganciava; l’ansimare singhiozzato dell’avviamento non riusciva ad intenerire i pistoni. Ingolfato! Ed ogni nervosa insistenza si sprecava inutilmente.
Pensai che il proprietario dell’altra Milletre si sarebbe ormai accorto dello scherzo e che le cose si mettevano male per me; infatti lo vidi tornare alla mia macchina ponendo il dubbio sulle mie virtù di cercatore-macchine-rubate, e mi chiese se per caso avevo visto chi aveva portato lì la sua auto.
Anche i suoi amici alpini scesero dalla macchina e riconobbero in me l’improvvisato loro compagno del breve viaggio di trafugamento.
Qui volano botte, pensai, e le botte degli alpini non sono mai da sperare di lieve entità.
La mia vittima aveva aperto lo sportello e reclamava con voce ferma che uscissi dall’auto, mica era arrabbiato, ma l’insistenza era preoccupante.
Uscii, valutando la pur minima dose di pugni che avrei potuto distribuire ai miei assalitori quando una prima pacca mi raggiunse una spalla.
Strette di mano, pacche reciproche che facevano tuonare le casse toraciche, e via a bere un conclusivo gotto alla vicina osteria e offerto dall’ormai amico Ugo Vazza lieto che l’auto col carico di alpini fosse stata fregata da un altro alpino.

m.a.


A questo articolo scritto il 7 ottobre, giorno successivo a quello del fatto, debbo fare una dolorosa aggiunta prima della pubblicazione.
Ugo Vazza e i suoi Alpini abitavano a Rivalta di Longarone e ho fatto il possibile per conoscerne la sorte dopo la tragedia del 9 ottobre.
E’ ormai accertato che Ugo, il mio nuovo amico, è morto; sulla sua salma, contrassegnata col n. 31, hanno reperito la fede nuziale e il grosso orologio d’oro a calendario. La figlia quindicenne, ritornata dal collegio ove studia, si è recata in municipio per ritirare gli oggetti del babbo: svenne appena glieli mostrarono.