ANTONIO CANTORE |
Agosto 1965 |
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E’ il 20 luglio: cinquant’anni addietro il Generale
Antonio Cantore ha lasciato le scarpe al sole delle Tofane ed oggi, mentre scrivo queste poche parole di rievocazione,
una esigua ma assai significativa rappresentanza di dirigenti alpini sta salendo a Forcella di Fontananera per spargere
fiori di montagna sulle rocce che furono bagnate dai sangue del Papà degli Alpini.
Invidio non poco i fortunati (che son anche i più volonterosi
che stanno dirigendosi al pur dolente appuntamento della Forcella, anche se la Sezione vi è rappresentata e sebbene il
Consigliere nazionale Avv. Benvenuti rappresenti il Presidente Nazionale e quindi tutte le Penne Nere rimaste a casa ma
non dimentiche della ricorrenza tanto amara quanto gloriosa.
Ci sono soprattutto i bocia, i quali presenteranno le armi alla memoria di Cantore al Rifugio che porta il Suo nome,
alla Forcella ove il Generale Andreis scoprirà una targa commemorativa mentre si leveranno le note del «silenzio», ed
infine al cippo del Vallone di Tofana poiché è proprio qui che Cantore cadde e non alla Forcella di Fontananegra come
viene spesso creduto.
Il 20 luglio 1915 la Forcella era in mano austriaca e Cantore venne colpito mentre la osservava dal sottostante vallone
proprio per valutarne la possibilità di conquista.
Tre cordate della Brigata >«Cadore» salgono per difficili vie
le tre Tofane; due compagnie alpine e una batteria di «montagnini» della «Tridentina» vi salgono per le vie normali; un
cappellano alpino celebra in vetta la S. Messa:
il Generale Andreis — in collegamento radio da una delle cime — commemora Cantore parlando ai suoi bravi giovani alpini,
mentre il Generale Ciglieri rende omaggio alla tomba di Cantore all’Ossario di Pocol dopo analoga cerimonia al monumento
in Cortina con una rappresentanza dell’A.N.A. locale.
Avrei voluto essere lassù assieme a coloro che oggi fanno la parte dei «parenti stretti» — perchè lì avevo qualcosa da
apprendere, mentre qui al piano non ho che da dire ad altri il poco che ho in me e ch’è ben misera cosa dopo i molti e
qualificati scritti dedicati a Cantore e che in parte vengono qui di seguito trascritti.
Ne ha parlato — tra i tanti — il grande alpino Manaresi quando, in occasione della ricorrenza di trentacinque anni or
sono, ebbe così a scriver suggerendo più il costruttivo raccoglimento che l’inadeguata parola:
Non turbiamo, con parole inutili, l’intima commozione
dell’ora:
fra gli imponenti torrioni delle Tofane, che scagliano, verso il cielo, la loro mole di pietra, mentre il tramonto
accende di rosso la cerchia dolomitica e le valli cominciano ad affondare nell’ombra, sembra veramente che Antonio
Cantore riviva in mezzo ai suoi alpini.
Non alto, non bello, non elegante, Antonio Cantore sembrava scolpito nel macigno duro, volitivo, quadrato, non conosceva
né debolezza, né esitazione, né paura; uso a volere ed a comandare, pagava sempre di persona.
In Africa, come nella grande guerra, che egli poté combattere per appena due mesi, egli era apparso veramente come
l’uomo della battaglia, la sua presenza bastava a fare, dei reparti ai suoi ordini, travolgenti valanghe di uomini, il
suo disprezzo sdegnoso della morte trascinava i trepidi e creava, attorno al generale, il mito della invulnerabilità.
Gli occhi suoi avevano lampi metallici, dietro le lenti; il gesto era spesso nervoso ed a scatti. Talvolta egli si
raccoglieva nella meditazione e nel silenzio: il cuore suo era grande e buono, come è il cuore di tutti i veri capitani.
Altre considerazioni vanno aggiunte in tale occasione per quanto riguarda l’appellativo di Papà che le Penne Nere han
dato e van ripetendo a Cantore, poiché le paternità spirituali, affettive, sono assai numerose negli Alpini.
— El gèra un vero papà, ebbero spesso a dire gli alpini del
loro comandante di reggimento o di battaglione, e la dolce espressione filiale ricorre tra noi — fortunati — con una
frequenza insolita per gli altri Corpi.
La famiglia alpina — quella che l’indimenticabile Don Piero Zangrando diceva essere «una porca fameja ma una gran bella
fameja» — nata piccolina e quasi clandestina più di novant’anni or sono, ha generato via via reggimenti e battaglioni
che costituiscono altrettante famiglie, pur nell’integrità assoluta dell’insieme, e che ebbero — per esigenze affettive
ed organizzative
un capofamiglia per ogni ciclo generativo troppo spesso coincidente col scoppiare di una guerra.
Riassumendo, vorrei dire che Perrucchetti è il Padre degli Alpini, il capostipite di questo casato ch’è meglio noto come
«naja alpina», e la qualifica comporta il concetto di una paternità quasi fisiologica; il fondatore volle questi figli
scarponi perchè essi difendessero validamente la propria Madre che è appunto l’Italia.
La qualifica di «papà» meglio riassume il concetto di formazione ed allevamento dei figli attraverso la comune vita di
famiglia, ed ecco che Cantore, che ha portato al battesimo di fuoco i reparti alpini cibandoli del suo vibrante e
paterno entusiasmo, è divenuto il Papà degli Alpini.
E’ necessario sapere di avere un papà in seno al battaglione e al reggimento. Quelli che non sono affatto necessari sono
i «patroni»: e qui occorre un po’ di «spiega». C’è S. Colombano ch’è il Patrono delle truppe da montagna di tutto il
mondo; c’è S. Maurizio dichiarato da Papa PIO XII Celeste Patrono dell’Arma italiana degli Alpini, i quali — avidi e
bisognevoli di protezione divina — si son posti soprattutto sotto il manto illuminante della Madonna.
Qualcuno dirà che gli Alpini non ne son troppo degni, ma vorremmo ben sapere chi è veramente meritevole di alzare il
proprio sguardo in quello della Madre di Dio; gli scarponi «brontolano» anche con la soave Vergine (non si creda però
alla balla dei superbestemmiatori) quasi per farLe capire con maggiore celerità i grandi guai che, specie in guerra,
affliggono gli alpini, e per sollecitare la Sua protezione nelle circostanze disumane in cui il porco mondo ladro spesso
mette gli alpini.
Pochi certamente hanno come noi erette tante chiese alla Madre di Dio, anche nelle condizioni più difficili: magari
rubando al Genio tutti i materiali occorrenti — come è avvenuto — tanto da dedicare la chiesetta alla... Madonna del
Furto.
Non sono questi Patroni celesti che gli Alpini respingono, ma quelli che la burocrazia soleva un tempo imporre
chiamandoli Augusti Patroni e che erano i principi della casa regnante già loro troppo abbisognevoli della protezione
dei Santi e degli stessi Alpini.
Ritornando a Cantore, non è inopportuno accennare al «cecchino» che l’ha abbattuto e che pochi anni or sono un nostro
giornale ha definito «rinnegato cortinese».
Non credo di essere il solo a disapprovare questa espressione anche se il cecchino cortinese non può certamente
riscuotere la simpatia degli Alpini!
C’è motivo di credere che si conosca il nome di colui che bersagliò la fronte del Vecio Cantore; e che sia ancor vivo a
Cortina ove quasi certamente vivono i suoi figli nati italiani.
Il punto è proprio questo: egli era nato austriaco e, sentendosi tale egli fece il suo dovere di combattente. Il fatto
ch’egli fosse nato a Cortina — paese di prevalenti sentimenti e di tradizioni italiane — non lo obbligava a sentirsi
italiano.
Sostenere il contrario comporterebbe la deduzione che Cantore venne ucciso da un italiano e provocherebbe soprattutto
l’appiattimento dell’eroismo dimostrato dagli irredenti nati tra Trento e Pola e che passando a vestire il grigio-verde
italiano ebbero a compiere un vero atto eroico spesso pagato con la vita proprio per questo; facendolo, essi
testimoniarono l’italianità delle terre irredente e la prevalente aspirazione delle loro genti che non poteva
comprensibilmente ritenersi unanime.
A questa chiarificazione siamo tenuti specie noi poiché è proprio tra gli Alpini che gli irredenti dimostrarono il loro
ideale di unificazione all’Italia.
Poco dopo la costituzione del Corpo, quando le compagnie erano ancora quindici in tutto, la «tredicesima» di stanza a
Edolo — si recò in esercitazione sull’Adamello in completo assetto di guerra e, giunta al confine, il generale austriaco
Kuhn (che Garibaldi aveva combattuto a Bezzeca), ammirato, volle conoscere il comandante e gli altri ufficiali; erano il
capitano Adami, il tenente De Steffenini e il tenente Armani: trentini e tutti tre renitenti alla leva austriaca! Il
generale austriaco ci rimase tanto male da allontanarsi senza profferir parola.
L’elenco dei trentini e giuliani irredenti che furono tra gli alpini e nelle altre specialità del nostro Esercito,
sarebbe lungo essendo già notevolissimo quello dei loro caduti e delle medaglie d’oro meritate. E’ per giustamente
esaltare questa fede che gl’irredenti non erano tenuti ad avere e a manifestare, che non si deve considerare un
rinnegato il cortinese che fu fatale a Cantore.
In altra parte di questo giornale rievochiamo la fine di un grande avversario: Sepp Innerkofler, travolto dall’irruenza
coraggiosa di un semplice Alpino, come Cantore ebbe mozzata la penna da un semplice soldato dell’altra trincea. E’ la
guerra; e come va riconosciuto il valore del nostro «lapidatore», va riconosciuta l’abilità di un tiratore che mai si
sentì italiano e che agì quindi da austriaco e non da rinnegato.
Ciò nulla toglie alla figura epica del Vecio Toni Cantore al quale piace molto di più che si salga alla Forcella di
Fontananegra con questi sentimenti più aderenti alla realtà e più puliti per ogni italiano; egli è là, a Cortina,
immortalato nel bronzo ai piedi della piramide di roccia sulla quale stanno appollaiate le aquile della Vittoria; e i
suoi occhi ripetuti nel bronzo dominano le Tofane, dominano tutta Cortina ed anche quel «cortinese» di ieri che gli fece
sentire in fronte l’ardente bacio della pallottola cecchina.
Andremo — più numerosi dell’avanguardia di oggi — a trovare Cantore il 12 settembre in occasione del 6° Raduno che le
Sezioni alpine delle Tre Venezie hanno voluto riservare al ricordo del Papà degli Alpini: non un’adunata come le solite,
ma un Pellegrinaggio che esprimerà l’immutato ed immutabile affetto delle Penne Nere per il Vecio Condottiero che mai
ebbe paura di mostrare la sua fronte ai nemico.
Treviso, 20 luglio 1965
M. ALTARUI