I TRE FRATELLI |
Febbraio 1965 |
Da un’isba esce un alpino: è alto tarchiato. Sul pastrano
porta un telo di casermaggio tenuto fermo sui collo da un pezzo di fil di ferro. Con passo stanco va verso una slitta
priva di mulo e di cavallo.
E’ uno slittino modesto con basse sponde di legno. L’alpino si inginocchia e scopre il volto dei due uomini distesi. Al
primo sorregge il capo e versa adagio in bocca un liquido nerastro che dovrebbe essere caffé, al secondo consegna una
patata cotta sul fuoco.
M’inginocchio anch’ io dall’altro fianco della slitta. Chiedo: «di che battaglione siete?»
— Del Tirano — risponde il giovanotto che sta mangiando la patata quasi religiosamente a piccoli bocconi inghiottendo
tutto, pelle, polpa, cenere, pezzetti di carbone.
L’alpino di fronte, inginocchiato come me, mi guarda con infinito dolore. Alla luce della luna mi pare di vedere due
occhi pieni di lacrime. Non piange ma una disperata tristezza rende tesi i lineamenti del volto. Parla adagio come se
volesse risparmiare anche la voce: — Sono miei fratelli — dice — uno è ferito e l’altro congelato ai piedi. Non li ho
voluti abbandonare nelle isbe. Li porto via con me.
— Chi trascina la slitta?
— Io.
— Ce la fai?
— Ogni tanto, sulle salite, qualcuno mi dà una mano. E’ duro ma ce la farò. Nostra madre ci aspetta a casa.
Il ferito emette un sospiro, un breve lamento. Tiene gli occhi chiusi, è molto pallido. Gli prendo il polso: mi pare
gravissimo, sento i battiti del cuore. Sulla giubba brilla l’oro dei gradi di sergente. Non ne avrà per molto, la morte
sta arrivando al galoppo. Il congelato continua a mangiare la patata, il fratello inginocchiato di fronte sembra
interrogarmi con gli occhi.
— Come lo trova?
— Non c’è male.
— Credo che riuscirà a resistere sino fuori della sacca?
— Può darsi che tra poco stia meglio.
— Gli ho fatto prendere il caffé. L’ho riscaldato nell’isba. Mi preoccupa la ferita dello stomaco. Ma è robusto, è
sempre stato il più robusto di tutti e anche il più intelligente.
Non oso dire la verità, l’eroismo tragico del giovane alpino mi sbalordisce. Con mano leggera ricopre il volto del
fratello «più intelligente» e mi viene accanto.
Ripete la frase di prima: — Come lo trova?
Lo vorrei abbracciare, nobile ragazzo dal cuore meraviglioso, cuore di alpino, di fratello dolcissimo. Lo vorrei tanto
consolare e anche illuderlo con il dirgli: — Guarda che sta meglio, che guarirà — Sento le mie labbra ripetere due volte
monotone la cupa frase: — E’ grave, è grave.
Il giovane abbassa il capo. Lo stringo a me: — Hai mangiato? Hai preso qualche cosa? Devi essere coraggioso.
— Perchè?
— Per tornare a casa.
Se non vengono loro con me... — non finisce la frase, ha la gola chiusa in un singhiozzo represso. Rientra nell’isba ed
esce poco dopo con lo zaino sulle spalle. S’aggiusta alcune corde e due tiranti di stoffa attorno alla vita. I due
fratelli giacciono nella slitta sotto le coperte dal colore indefinibile. L’alpino lega i tiranti alla slitta, prova a
smuoverla. E’ pesante, ma riesce con facilità.
Si volta verso di me e si tocca il cappello in un saluto quasi cameratesco: — Arrivederci, cappellano. Ogni segno di
commozione è scomparso dal suo volto. Ha una grinta dura, quella degli alpini che vanno all’attacco.
Da «Scritto sulla neve»
del Cappellano Alpino
don Carlo Chiavazza