IL LAPIDATORE DEL PATERNO


Agosto 1965


La 268° compagnia del «Val Piave» a Lavaredo; l’alpino Pietro De Luca
di Follina è quello di centro, con la pertica in mano.


Il Monte Paterno: la direzione della freccia indica
il canalone dal quale salirono gli Austriaci guidati da Innerkofler.

Cinquant’anni addietro il 4 luglio 1915 — la 26° Compagnia del «Val Piave» era a guardia della zona di Lavaredo, suddivisa in piccoli gruppi dislocati sulle vece dei due versanti molte delle quali non erano state sino ad allora scalate.
Gli alpini avevano trasportato sulla Cima Grande di Lavaredo (quota 2999) un cannone da montagna e poi un riflettore che si dimostrò in seguito utilissimo nell’impresa che portò le Penne Nere ad occupare il Tobligher e il Sexten Stein.
malgrado le estreme difficoltà alpinistiche che rendevano oltremodo preoccupante anche il rifornimento dei nostri piccoli presidi, quelle crode venivano quasi giornalmente aggredite da abilissimi arrampicatori nemici per cui gli alpini dovevano stare bene in guardia.
Alla cima del Paterno la 268° aveva dislocato sei alpini con un caporale, e venivano riforniti mediante un lungo filo di ferro tra la cima e una sottostante forcelletta; all’ora consueta una voce gridava dal basso:  Uhii, campaner, tira su» e il «campanaro» di turno si tirava su la marmitta fumante a forza di muscoli.
Tra quegli uomini comandati dal caporale Da Rin c’era l’alpino Pietro De Luca da Valmareno di Follina, quindi da casa nostra; era un alpinone gigantesco cui piaceva mangiare e menar cazzotti. Il suo comandante di compagnia, il capitano Alberto Neri che nel corso della guerra tenne anche il comando del battaglione per tre duri periodi, ce lo descrive così: «Aveva due braccia come due cosce di uomo ordinario e due mani ciascuna delle quali, quand’era aperta, poteva sostituire uno dei moderni ombrellini da signora».
La notte che De Luca era di vedetta successe qualcosa che lui stesso così ebbe poi a descrivere:
«Ogni tanto vardavo so da basso come i me gaveva ordinà de far. No ghe gera anima viva! Za, no se poi dir, perchè gera un scuro de l’ostrega. Gavevo apena vardà e me gero tirà drio la roccia, come gaveva ordinà Da Rin, perchè scomenziava a spuntar l’alba, quando me vedo comparir ‘na ombra.
« “Che sia el diavolo?” digo tra de mi, Oh si, altro che diavolo! el gera ‘n òmo e che òmo! L’ombra me voltava la schena e se moveva come se tirasse su un secio da un poso. Go capio, dopo, che i so movimenti i géra par giutar altre persone a rampegarse.
«Maria Vergine benedeta! quelo nol pol esser che un nemigo» go dito tra mi e ghe son saltà dosso».
«Ostrega, el gera forte come ‘n demonio; ma ciò! anca mi no gero certo de manco de lu! Ghe go dà un stramuson roverso e mentre lu trabalava, go ciapà ‘na piera e ghe go fracassà el sgrugno. El xe andà so pel canalon, senza dir nianca “amen”.
«Me son sporzuo per veder el so’ tombolon e... Osteria, cossa che go visto! Proprio soto de mi a pochi metri ghe gera ‘na trentena de quei mamaluchi che i se rampegava come formighe.
«“Da Rin, Da Rin e’ monta » go gridà. Ma no podeva perderme in ciacole e spettar Da Rin; e go ciapà piere drio piere e, zò e dai, e lòri rodolava tirando parlasse che mi no ghe capino ‘n assidente.
«El caporal Da Rin ze vegnuo sul più bel e xe stada ‘ne fortuna parchè i ga scomincià ‘na sparatoria de canon più fissa de le piere che mi butavo zò.
«Tuto ‘n te un momento sento ‘na paca ‘nte la testa compagnada da un balon de fogo, vado per tera e digo: “Gesù Maria son morto!”. No gò capio più gnente. Peraltro go sentìo che Da Rin me giutava a levarme in piè; quando che son stà dritto in piè, go dito: Manco mal Da Rin che son vivo!
«“Maria Vergine, De Luca come i t’à consà” ga dito Da Rin; ma mi go risposto: Cossa votu che sia? No te vedi che stago ‘n piè?».
E a piedi andò a farsi medicare la non lieve ferita dall’ufficiale medico il quale, nonostante le proteste di De Luca, lo fece ricoverare all’ospedale da campo di Auronzo.
Dopo pochi giorni il Capitano Neri stava esaminando con un sergente la parete attraverso la quale gli austriaci erano arditamente saliti fino al Paterno e che suggeriva la possibilità di avanzare ulteriormente: «Se si potesse calare per questo canalone... ».
«Mi digo de si; parchè, come xe vegnui su lori podemo andar noaltri»; a rispondere era stato l’alpino De Luca il quale, con la testa tutta fasciata era scappato dall’ospedale da campo.
— Cosa fai qua? Perchè ti han fatto uscire in questo stato? — chiese il capitano; e De Luca rispose: — Miga i me ga fatto vegnir fòra lori! son vegnùo da mi. Cossa vorlo! I me tegniva sempre a «digieta» par el mal a la testa. Cossa ghe entra, tò, la testa co la pansa mi no lo capisso! E, allora, mi gò ciapà el dò de cope e son vegnùo quassù coi me compagni dove no se conosce la digieta.
Il capitano Neri discese in seguito per quelle rocce con alcuni dei suoi alpini piombando sulla posizione nemica ed annientandola.
Qualcosa bisogna però aggiungere alla modesta descrizione dell’episodio fatta da De Luca (decorato di medaglia di bronzo per quell’impresa) mediante le parole che il tenente medico dott. Antonio Berti — alpino ed accademico del C.A.I., autore di numerose pubblicazioni mediche, alpinistiche e di storia della guerra sulle Dolomiti potè scrivere avendo seguito lo svolgersi della leggendaria avventura dalla sottostante Forcella di Lavaredo:
Il 14 luglio 1915, ai primi albori, un Uomo fu visto lentamente ascendere la cresta terminale del Paterno (Cresta NNW). Quando fu a pochi metri dalla cima, i cannoni tacquero: in un silenzio assoluto, solenne, di aspettazione, fu visto l’Uomo lanciare una prima bomba su verso la cima, e una seconda ed una terza. Si vide sorgere sulla cima, d’improvviso, dritta, sola, una figura di soldato alpino, campeggiante nel tersissimo cielo, alte le mani armate di un masso: scagliò con le due mani il masso; l’uomo cadde riverso; fu visto precipitare e arrestarsi in un camino.
Chi era questo Uomo che Berti - ottimo conoscitore di gente della montagna - indica con l’iniziale maiuscola? Doveva essere un grand’uomo davvero per dimostrare tanto coraggio da affrontare per primo gli alpini come capo di una cordata impegnata in un’impresa titanica.
La stessa curiosa ammirazione animava i nostri alpini e Angelo Loschi, durante la notte successiva, si calò volontariamente fin dentro al camino, fra raffiche di fucilate austriache, e — raccolto il corpo del nemico ucciso — lo legò ad una corda issandolo in alto e, salito con lui, lo depose in vetta.


La tessera trovata indosso aII’lnnerkofler,
il cui corpo venne onoratamente sepolto dagli Alpini

La tessera di riconoscimento (che qui riproduciamo) rivelò che l’eroico caduto nemico era Josef (Sepp) Innerkofler, la famosa guida di Sesto, celebre per le sue ascensioni su tutte le più difficili cime; Angelo Manaresi — altro onesto conoscitore di uomini così ebbe a descriverlo:

Sepp Innerklofler, la leggendaria guida di Sesto, si aggira, cauto e silenzioso come un gatto, audace come una belva, fra i colossi di pietra, in mezzo ai quali è nato, soldato dell’Imperatore ma, soprattutto, delle sue montagne, le vede minacciate dalle prodezze epiche della nostra schiatta alpina: vuole emulare coloro che stanno per strappargliene segreto e dominio.
Ed eccolo, volontario cinquantenne, nel primo mese di guerra, sei volte scalare, per vie segrete, anche da solo, anche sotto il fuoco, anche aprendosi il varco per un versante inviolato, le Crode della sua Val Fiscalina, e di lassù, come un falco, scrutare nella valle, nei passi, tra le rocce, gli appartamenti dei nostri: 2 giugno, Cima Undici - 7 giugno, Monte Popera - 14 giugno, Cima Una - 18 giugno, ancora Cima Undici - 25 giugno, Creste Zsigmondy - 30 giugno, Croda Rossa.
Negli intervalli, quattro volte Paterno, tre volte Monte Novale.,. e Cima Ovest di Lavaredo e Torre Toblin e Gobba di Popera e cresta del Quaternà con un ginocchio malato...
Quante ascensioni, tanti eroismi. Due medaglie d’argento, una promozione sul campo: 29 giugno la Confessione e Comunione a S. Candido; cinque giorni dopo, la disperata impresa sul Paterno, la morte eroica: grande medaglia d’oro.

Dice ancora Manaresi:
Gli alpini accolgono il morto coll’onore delle armi: gli scavano, nella roccia, una nicchia, lo seppelliscono lassù, ne incidono nella pietra il nome e la gloria, coprono la fossa di fiori dell’alpe, formano colla sua corda di guida, una croce.
Il nemico, abbattuto, riposa, fra gli alpini, il sonno eterno, sulla cima amata e contesa: la fraternità della montagna avvolge al cospetto della morte, una sola razza di montanari che dovrà, dopo la vittoria, ritrovarsi.

Quando gli austriaci ripresero le posizioni la salma di Innerkofler venne portata a valle e sepolta nel piccolo cimitero di Sesto con intorno alla tomba i ricordi della sua ultima impresa. Suo figlio divenne guida del Club Alpino Italiano e custode del nostro rifugio alla testata della VaI Fiscalina.
L’alpino Pietro De Luca, il «lapidatore del Paterno» come venne chiamato tornò a casa a guerra finita e poi andò a lavorare «in Merica»; non si sa se è tornato alla sua casa di Valmareno di Follina, se vive o se è morto nella lontana terra d’oltremare. Ma, anche se morto lontano — a differenza dei vivi che ancora non sanno ritrovarsi — egli si sarà ritrovato a stringere la mano a Sepp Innerkofler sulla vetta del Paterno che cinquant’anni addietro si sono valorosamente contesa.