SACERDOTI CON LA PENNA NERA


Febbraio 1965

E’ una gran bella cosa che le disposizioni ecclesiastiche non vietino ai sacerdoti di portare il cappello alpino assieme al saio o alla tonaca; e ciò è d’altronde giustificato dal fatto che il cappello alpino è un copricapo da portare quasi religiosamente per le immense memorie che custodisce ed inoltre perchè un sacerdote alpino non solo non può dimenticare la naja scarpona che s’è fatta, ma mantiene — anche nella sua azione sacerdotale — le caratteristiche proprie degli alpini.
Sono preti divenuti alpini o alpini diventati preti, e in essi si sono accumulata le sofferenze del sacerdote e del soldato. Solo tra i primi (cioè tra i cappellani alpini) ci furono cento decorati al valore nella guerra 1915-18 e cinquanta nell’ultimo conflitto; per uno di essi, don Secondo Pollo del «Val Chisone» decorato di medaglia di argento e morto nell’adempimento del suo dovere a Pian di Zagari il 26 dicembre 1941, è in corso da tempo il processo di beatificazione presso la Curia vescovile di Vercelli.
Quando chiesero a Padre Carlo Marangoni, il monumentale cappellano della Sezione consorella di Treviso e reduce di quattro guerre, se aveva vissuto più in convento o più tra gli alpini, egli rispose di essere un alpino che una volta tanto torna a fare il frate.
Lungo sarebbe ricordare quanti alpini, spiritualmente affinati dalla guerra, divennero degli ottimi sacerdoti. E’ stato uno di questi che ha benedetto il mio matrimonio: Don Paolo Chiavacci, bravo, dotto ed umilissimo, ufficiale alpino combattente, sul quale ci sarebbe già da scrivere un libro; ma se parlo (magari rivelando che l’han fatto anche monsignore) quello mi fa fare una « cunicéra » lunga da Crespano a Madonna di Covolo quando mi agguanta.
Per non parlare dell’Alpino divenuto Sacerdote che abbiamo in sezione, del Ragazzo del ’99 dell’Exilles, il quale mi prenderebbe per un orecchio; orecchio che una volta o l’altra arrischierò!
Io però volevo solo accennare a due Alpini di Dio che hanno soffermato la mia attenzione negli ultimi giorni: due sacerdoti della Congregazione dei Filippini che hanno indirizzato diversamente (ma in modo squisitamente complementare) la loro missione. Uno fa il cardinale e uno il muratore, in modo però tutto speciale per l’uno e per l’altro.
E’ infatti di questi giorni la nomina a cardinale di Padre Giulio Bevilacqua, nato a Isola della Scala (Verona) nel 1880, laureato in scienze politiche all’Università di Lovanio e consacrato sacerdote nel 1907 dopo aver indossato l’uniforme alpina. Dedicatosi dapprima all’assistenza spirituale degli studenti, partecipò come ufficiale alpino combattente alla guerra 1915-1918, decorato di una medaglia di bronzo, cadde prigioniero degli austriaci subendo diversi mesi di prigionia.
Durante l’ultima guerra Padre Bevilacqua fece il cappellano in marina, volendo forse evitare di ritrovare gli amici ufficiali di un tempo che ora guidavano i battaglioni mentre a lui non sarebbe stato concesso; vecchio ormai di sessant’anni si comportò ugualmente con valore da meritarsi una seconda medaglia di bronzo.
Prima della guerra aveva dovuto rifugiarsi per cinque anni presso Mons. Montini — l’attuale Pontefice del quale fu maestro e confessore — per la sua ferma opposizione al regime di allora; dopo la guerra ritornò all’assistenza e — tutt’altro che arrivista malgrado la profondissima cultura (tenne anche molte conferenze alla TV) e
le sue dotte pubblicazioni — fece il parroco alla periferia di Brescia fino all’imposizione del galero cardinalizio. Egli desidera anzi rimanere nell’umile parrocchia fuori città per continuare ad assistere i suoi fedeli con la sua presenza e la sua parola.
Altrettanto umile come il cardinale alpino è Padre Ottorino Marcolini, amico di gioventù di Papa Paolo VI col quale cenò anche alla vigilia della sua partenza per il Conclave che lo elesse Pontefice.
Padre Marcolini è di Brescia ed ha 67 anni; laureato in ingegneria al Politecnico di Milano a soli ventitrè anni, divenne Direttore delle officine del gas; a ventisette anni si laureò in matematica all’Università di Padova ed entrò poi nella Congregazione dei Filippini.
Cappellano degli Alpini, poi dell’Aviazione, poi ancora con gli Alpini in Russia, Padre Marcolini venne catturato dai tedeschi l’8 settembre; rinunciò a vivere tra gli ufficiali come gli spettava e rimase con i suoi alpini della «Tridentina», dimostrando in ogni circostanza un coraggio non comune; rischiò la fucilazione e giunse tra l’altro a ottenere aiuti da inglesi e francesi prigionieri a favore di settecento nostri soldati ammalati.
Ritornato dal lager Padre Marcolini studiò il gravissimo problema degli alloggi per i lavoratori e la sua elevata preparazione tecnica — sorretta da una profonda fede cristiana e dal suo coraggio alpino — gli consentì di predisporre un vastissimo piano che iniziò ad attuare nel 1953 con sole duemila lire in tasca.
Padre Marcolini ha realizzato, a mezzo di cooperative, una quarantina di villaggi formati tutti da villette modeste ma con giardino e orto, nella periferia di Brescia, dal lago di Garda alla Val Trompia, da Orzinovi a Concesio, da Rovato a Verolanuova, dando alloggio a seimila famiglie.
Lui vive in una modestissima stanzetta dell’Oratorio Pace di Brescia, con la tonaca consumata e schizzata di calcina come un muratore, pago del gran bene che elargisce a tante famiglie di lavoratori.

M. A.