RICORDI DI UN «VECIO» DEL VAL TAGLIAMENTO |
Aprile 1966 |
Arrivò al battaglione, in linea sul Cepin Bolena, una notte sul finire del marzo ’41, al seguito della corvèe, che
portava i quotidiani rifornimenti. Gli era compagno il suo altarino da campo, nuovo, che con molte raccomandazioni aveva
fatto caricare su uno dei muli, insieme a sacchi e cassette e che aveva seguito, trepidamente ad ogni sobbalzo, per due
giornate di marcia, sotto la pioggia e nel fango, prima, nella neve poi.
L’alpino che dormiva nella tenda al riparo di un roccione, si destò brontolando al richiamo, accese il mozzicone di
candela appeso al filo di ferro ed all’incerta luce si fece da un lato per fare posto al nuovo venuto che gli chiedeva
ospitalità. Così, con la semplice presentazione di un ciao pais e di un cognome detto a mezza voce, fece conoscenza col
nuovo cappellano don Carlo Gnocchi.
A brontolare quell’alpino continuò ancora per un bel po’, perchè nonostante gli sforzi concordi di entrambi e le
poderose soffiate, il materassino pneumatico nuovo, che pareva appena uscito dal negozio, non si decideva a gonfiarsi.
Alla fine preferirono lasciar perdere. Evidentemente non era roba da «naia alpina» e quella buona persona che aveva
voluto fare un regalo al Cappellano partente non lo sapeva!
Molti anni sono trascorsi da allora.
Da dieci anni Don Carlo ha chiuso la Sua operosa e feconda giornata terrena, ma continua a vivere nella Sua mirabile
opera, nel cuore degli Alpini, dei mutilatini e dei poliomielitici.
E l’alpino di quella tenda, ormai con i capelli grigi, ricorda e pensa che proprio quella notte il buon don Carlo iniziò
la Sua missione fra i combattenti e - attraverso gli orrori della guerra - dalla quale ritornò quasi miracolosamente,
maturò la decisione di dedicarsi interamente ai piccoli innocenti che più ebbero a soffrire.
Gli alpini sono taciturni e scontrosi per natura; giudicano e valutano i compagni quasi d’istinto; così i piemontesi ed
i friulani del battaglione sentirono subito nel nuovo Cappellano l’amico sincero, modesto e buono come loro: un
fratello. Uno di loro, che portava con sé la grande ricchezza di una Fede integralmente vissuta, di una vasta cultura e
di una profonda preparazione.
Sentì che bisognava andare là dove i fratelli più erano sottoposti alle sofferenze, alle privazioni; là dove la morte
era in agguato, di giorno e di notte. Per comprendere il Suo animo basta rileggere quanto scrisse alcuni anni prima:
« ... Tu che leggi, che cosa hai fatto nella tua vita per conoscere e scovare la miseria che pure alita con noi, accanto
a noi, nelle nostre città splendenti di lusso e di gioia; che cosa hai dato per impedire la bestemmia del padre senza
pane per i figli, per alleviare lo strazio della mamma senza tetto, per dare ai sofferenti una speranza per il domani?».
E l’alpino di allora, nella sua semplicità, ebbe modo di conoscerne il grande animo, lo vide dividere i suoi disagi, lo
sentì vicino nei momenti tristi e lieti, sentì che nel Cappellano vi era un fratello, e tale lo considerò.
Don Carlo scrisse di essersi sentito felice: « ...la notte che mi svegliai di soprassalto ai bordi della strada sassosa
e vidi dilungarsi nella luce fredda e lattiginosa dell’alba la fila dei corpi abbattuti pesantemente nel sonno, come una
lunga catena di cui mi sentivo vivo e piccolo anello e provai accanto a me il tepore umano e il respiro grave e faticato
dei compagni che mi pressavano da ogni parte ».
E questa Sua letizia da poverello d’Assisi lo accompagnò sempre, anche quando, nonostante la ferrea volontà, il fisico
pareva cedere alle fatiche ed ai disagi. Un giorno che, cedendo alla stanchezza ed alle fatiche, salì su un’autocarretta,
durante una marcia, ne discese ben presto per non sentirsi un privilegiato fra gli uomini affaticati. Disse sorridendo
che non voleva essere chiamato il Cappellano motorizzato!
Quante volte gli alpini del «Val Tagliamento» lo videro tra loro, nei posti più improvvisati a celebrare la Messa!
Ricordando quelle delle occasioni più importanti, quando all’elevazione si levava solenne il canto, quasi liturgico, di
«Stelutis Alpinis», come le altre celebrate devotamente per pochi uomini, al ridosso di un costone o ai riparo di un
elemento di trincea.
Il Suo altarino da campo era diventato ben presto veterano e sdruscito per alcuni capitomboli fatti col mulo: uno passi,
diceva, ma due capitomboli in una volta sono troppi! Lo sistemava su quattro sassi e celebrava sereno fra gli alpini
sparsi attorno, fra le pietre, ai sole o sotto la neve.
Che cosa dicesse don Carlo in quei momenti l’alpino non sa ripetere, ricorda soltanto che le Sue parole scendevano nel
profondo del cuore e lo rendevano migliore.
Vide con quanto amore e con quanta commozione compose la salma del primo caduto, ne raccolse i pochi ricordi e volle
sistemato il modesto tumulo.
Lo vide, dopo, nei luoghi dove era appena passata la guerra, ricercare con la stessa cura e con lo stesso animo i suoi
compagni caduti, per dare loro una decorosa sepoltura. Scrisse: «... questi nostri morti dormono sotto la terra appena
smossa che la pietà semplice dei compagni ha ornato di un segno di religione e di una parola di affetto: riposano in
pace. A tendere l’orecchio li sentiresti respirare ancora regolarmente».
Tanto li sentiva ancora vicini al suo animo.
Così l’umile alpino, amico di «naia», conobbe don Carlo. Ma la «naia» è grande, dicono gli alpini. La parola «congedo»
in tempo di guerra non osi pronunciarla, è sparita dal vocabolario. Ma licenza sì, quella la aspetti per mesi e mesi e
non arriva mai; diventa un miraggio.
Per don Carlo invece, che voleva restare al battaglione, la «naia» dispose il rimpatrio, contro la Sua volontà e con suo
grande dolore.
E scrisse all’alpino: « ... ne approfitto per mandarti ancora un affettuoso saluto e per pregarti di una cosa. Di dire
cioè agli alpini della tua compagnia come io stesso fossi completamente all’oscuro del provvedimento. Assicurali del mio
profondo dispiacere e del mio ricordo affettuoso. Cercherò di tornare, stanne certo. Ricordami sempre ai tuoi alpini
della 72°. Assicurali del mio desiderio di tornare presto, non appena la borghesia si deciderà a mollarmi».
E mantenne la parola. Ritornò. Fra altri alpini continuò la Sua opera e conobbe le più dolorose esperienze della
ritirata sul Don.
L’alpino del «Val Tagliamento» non lo rivide più. Ma lo ricorda ancora, come lo vide l’ultima volta, in mezzo alla
strada, senza cappello, com’era sua abitudine, salutare commosso la lunga colonna del battaglione che si trasferiva; fra
il turbinio della prima neve di ottobre agitava le mani in segno di saluto ed aveva gli occhi velati di pianto.
GIUSEPPE RIVA