BRIGATA JULIA


Giugno 1967

Escursioni invernali 1967 della Brigata Alpina «Julia»

Lo stato d’animo caratteristico della recluta è la paura, non una paura fisica vera e propria ma un timore vago indefinibile che assale l’individuo al pensiero delle prime escursioni. Davanti agli occhi danzano lunghe teorie di uomini e di quadrupedi che camminano nelle ore antelucane su mulattiere difficili ed insidiose gravati da zaini e carichi pesanti, in condizioni atmosferiche che, nei bollettini meteo, vengono definite avverse. Rappresentazioni fantasiose che eccitano il senso dell’eroico ma che annientano anzitempo le energie fisiche. Come se ciò non bastasse si aggiungono molto spesso le parole degli «anziani» a rendere queste visioni e queste sensazioni più crude. Penso che anche i giovani Ufficiali non siano immuni da questi stati d’animo.
Il campo invernale è incominciato; speravo nella saggezza del proverbio «il diavolo non è mai così brutto come lo si dipinge» ma questa volta quanto avevo immaginato si è realizzato ed io mi ci trovavo in mezzo. Solo la buona volontà e, perchè no, l’orgoglio mi fanno superare le difficoltà ed i disagi che ora, giorno per giorno, mi si presentano. Siamo prossimi ad affrontare «l’impresa ardita», come viene definita dai programmi l’esercitazione più impegnativa delle escursioni invernali e già il bilancio è in attivo, se così si può definire il fatto che non si dorme quasi o quanto meno troppo poco e si sono superate lunghissime marce e tanti dislivelli in mezzo alla neve e con il freddo che gela anche i pensieri.
Le partenze del mattino sono un incubo; immusoniti ancora dal sonno e con le membra e le mani ghiacciate dover affardellare gli zaini e caricare i muli all’incerta luce di qualche lampada elettrica con la sola rosea visione di bere il caffè-latte caldo ed il panino vero nettare per i nostri giovani stomaci. Questo non è che l’inizio, perchè dopo il trasferimento o lo scavalcamento, quando più si vorrebbe di riposare, incomincia la manutenzione dei pezzi, il governo dei quadrupedi, il riordino dei materiali, e questa è ancora per i fortunati perchè altra strada, il lavoro di spalatura od il rifacimento di qualche tratto di mulattiera attendono i disponibili zappatori di batteria.
La libera uscita è ormai divenuta un caro ricordo, una cosa d’altri tempi, un pensiero che neanche ci sfiora in questi giorni di campo. Io desidero soltanto stendermi sul materassino pneumatico per fare un sonno senza sogni, per non faticare. Mi affiora alla mente la massima di Pascal: «L’abitudine è una seconda natura che annulla la prima». E’ una fortuna per gli uomini che ciò sia vero.
Siamo a Cave del Predil, un paese di minatori al confine con l’Austria e la Jugoslavia, situato al centro di un anfiteatro di alte montagne brulle e rocciose che incidono il cielo con le loro cime aguzze. Le dolci pendici sono ricoperte di pinete, che profumano l’aria con il loro caratteristico odore di resina, fa un certo effetto montare di guardia al campo. Ho visto le stelle impallidire a poco a poco; all’incerto chiarore lunare ho ammirato le montagne che rassomigliavano stranamente alle guglie di una cattedrale distrutta. Le prime luci dell’alba rischiarano un suggestivo paesaggio. Le Dolomiti Giulie assumono un colore tutto particolare, mutevole: violaceo chiazzato qua e là da macchie di un azzurro cupo e di bruno ferro, poi di un bel colore rosso che si stagliava nitido nel cielo. Mi sento parte della natura, anima di questo corpo. Ma ciò che mi rende ancor più vicino a queste montagne è il ricordo dell’epopea alla quale sono state testimoni, il ricordo del sangue che le ha bagnate, delle sofferenze che hanno raccolto, il rispetto che si sente incutere per un sacrario. Qui hanno combattuto i nostri padri, i nostri parenti, gente della nostra gente. Qui hanno saputo morire, senza preoccuparsi di chiedere il perchè, gli alpini che ci hanno preceduto nel tempo.
Non so come, mi trovo a trainare una slitta «Akja», che accoglie nel suo capace ventre la culla inferiore dell’obice, mi sembra quasi d’essermi ridestato alla cadenza del capo-tiro che ci incita allo sforzo ritmato. Invece siamo alzati dalle due di notte ed ora il versante occidentale innevato della Portella, dalla forcelletta in giù, è segnato da file di uomini che tirano le slitte. Proviamo fatica, stanchezza? Non so, la mente cerca di rifuggire dalla fatica che ci incatena ad ogni passo sempre di più, mentre il petto ansima per accogliere in maggiore quantità possibile l’ossigeno; essa cerca di rincorrere episodi piacevoli del periodo vissuto, visioni che dovrebbero divenire dolce realtà.., domani. Tutto il resto non esiste, né deve esistere. Lo so, l’ho capito, per sopportare tutto ciò non c’è che un mezzo: estraniarsi dalla realtà pena il crollo e l’insuccesso. Stringere i denti, farsi coraggio e non pensare a quel che si fa.
L’ambiente, i compagni non si vedono né si devono vedere, l’unico contatto con la realtà è il freddo rigido che taglia il viso e le mani e il rado nevischio portato dal vento che cade sul collo scoperto, il mulinello di soffici fiocchi che cadono diagonalmente sul terreno, su di noi. Sono in Forcella, alzo per la prima volta il capo e vedo il Monte Ursic di Raibl, Punta dei Camosci ed il Mangart. Ora finalmente inizia la discesa, pericolosa, nel canalino, ma meno faticosa. Il cuore mi si allarga, so che ho vinto me stesso ed un senso di gioia mi invade, nonostante tutto, e sento il desiderio di bere un sorso di vino; me lo sono meritato. Nella gola riarsa, ma non scende niente; sento solo un rumore di ghiaccio dentro la borraccia! E’ finita, abbiamo impiegato dodici ore scandite di fatiche disumane, fra poco, dopo le parole di elogio del signor Generale e dei miei Comandanti ripenserà forse ai momenti di paura, questa volta fisica, ed a ciò che ho superato ma soprattutto provato. Sarà per me vanto e motivo per avere più fiducia in me stesso per affrontare le vicissitudini che la vita mi vorrà... donare. Questa sera il tramonto incendiava le rosse pareti dolomitiche in un tripudio di luci e di colori, uno spettacolo di rara bellezza: di fronte tutto un susseguirsi di cupole, di pinnacoli, di campanili incendiati dal sole morente, fuso in un insieme armonico come in una cattedrale gotica.
Questa sera ho bevuto finalmente un buon bicchiere di vino; un piccolo ometto rinsecchito dal sole e dall’età, ottant’anni forse, forte della sua annosa esperienza ha definito il mondo: «un giardino di pazzi». Domani i giornali locali parleranno dell’impresa della 18° Batteria del Gruppo «Udine»: è consuetudine perchè gli alpini, le montagne e la loro gente sono legati con affetto da sempre.
Questa notte alle quattro partenza, altro trasferimento, per poi compiere un altro scavalcamento ma questa volta someggiato. Coraggio, è la «naja».

Vittorio Leschi