ENEA GUARNERI |
Dicembre 1968 |
Quando scoppiò la guerra Enea Guarneri (nativo di
Passirano di Brescia) era studente della facoltà di agraria all’Università di Pisa; volontario all’8° Alpini, meritò la
promozione a sergente e dopo un accelerato corso di istruzione venne nominato sottotenente e destinato al battaglione
Val Stura del 2° reggimento. Combattente in Cadore, sul Monte Rosso, sul Rombon e sull’Ortigara, tre volte ferito e con
altrettante proposte di decorazione al valore, Guarneri venne promosso capitano per merito di guerra con assegnazione al
comando della 214° compagnia del Val Stura della quale io pure facevo parte.
In precedenza io ero stato ufficiale istruttore alla Scuola militare di Caserta e, raggiunta la compagnia ad Arsiero, mi
venne affidato il delicato compito di comandante della sezione mitragliatrici Maxim, ed ebbi a combattere a Punta Corbin,
sulla sinistra dell’Astico.
Col 7° Gruppo alpino, comprendente il Val Stura, ci si trovava a Caltrano per un breve periodo di riposo quando arrivò
l’ordine di raggiungere il Monte Nero; passai per Conegliano il 24 ottobre 1917, quando gli austro-tedeschi sferrarono
la grande offensiva che riuscì a rompere il nostro fronte.
Quando arrivammo a Cividale il comandante ci chiamò per
informarci dei tragici avvenimenti ormai in corso; ricevemmo l’ordine di lasciare immediatamente Cividale e, in camion,
fummo trasportati a Taipana nella notte sul 26 ottobre; all’alba eravamo di fronte al monte Maggiore e, poco dopo le
sei, tre battaglioni erano già in ordine di combattimento sulle testate del Cornappo e del Natisone a sud e sul passo
della valle Uccea a nord. In cresta si dispose la nostra 214° compagnia col capitano Guarneri.
L’ordine per tutti era di resistere sul posto fino all’ultimo!
Ci portammo verso Monte Cavalo, già occupato dal nemico, attendendo lo scontro. Da una linea di cespugli apparvero, dopo
due ore di attesa, le avanguardie della 5° divisione austriaca; un sergente del mio plotone se ne accorse ed informò
immediatamente il capitano Guarneri, venendo poi quasi subito colpito.
Anche gli austriaci cominciarono a cadere sotto il tiro di tutte le armi di cui eravamo dotati; poco dopo arrivarono la
12° divisione Slesiana e le forti truppe germaniche da montagna.
Per tutto il 26 ottobre combattemmo disperatamente in rapporto di uno contro venti; poi la pressione nemica si allentò
per dare un po’ di tregua ai propri reparti decimati dall’impeto delle penne nere.
Alle due della notte Cadorna diede l’inevitabile ordine di ritirata generale in quanto gli avversari avevano sfondato
ovunque; la disposizione non poté giungere a noi, ormai accerchiati sul Monte Cavallo, ma che resistevamo con ogni
forza, fedeli alla consegna ricevuta.
Il generale Stein inviò altri rinforzi alla 12° divisione Slesiana con l’ordine di annientare «quei testardi di alpini»;
nel frattempo, le truppe germaniche da montagna riuscirono a raggiungere una posizione boscosa dominante le nostre
posizioni e, con le mitragliatrici piazzate sugli alberi, iniziarono a sparare incessantemente sugli alpini che comunque
ancora non cedevano.
A mezzogiorno del 27 ottobre, dei novecento alpini che costituivano il gruppo ne erano stati uccisi o gravemente feriti
più di seicento. Un’ora dopo gli alpini che erano alla testata del Cornappo esaurirono le munizioni; dieci minuti più
tardi cessarono il fuoco anche quelli attestati sul Natisone.
La nostra 214° compagnia continuò a combattere senza
tregua fino all’una e mezza; rimasero vivi il capitano Guarneri, io e un altro ufficiale, costretti a gettare le pistole
ormai inutilizzabili.
Il capitano austriaco riconobbe il nostro eroismo. ma al sincero elogio del nemico seguirono le dolorose umiliazioni
della prigionia.
Io e i resti del battaglione fummo avviati in Germania;
il capitano Guarneri - che cercava di aiutare li magg. Remondino che era ammalato, venne inviato in Austria al campo di
Sigmundsherberg dove iniziò subito a progettare la fuga.
Tentativi ne erano già stati attuati ma erano quasi tutti falliti; ciononostante Guarneri ne parlò con Lamberti, altro
capitano del battaglione Val Stura scampato alla strage del Monte Cavallo; occorreva d’altronde un adeguato
equipaggiamento (carte topografiche, scarpe, una bussola, viveri e denaro) in quanto il campo di Sigmundsherberg si
trovava a settecento chilometri dalla frontiera svizzera. La vigilanza si fece poi assai più severa quando tredici
ufficiali riuscirono ad evadere attraverso un cunicolo scavato sotto le baracche.
Quando seppero della possibilità di venire trasferiti al campo di Aschach (distante «solo» quattrocento chilometri dalla
neutrale Svizzera) fecero il possibile per venirvi assegnati unitamente ad alcuni altri ufficiali già esperti in
preparativi di evasione; vennero fatti partire 18 febbraio e il giorno successivo raggiunsero la nuova destinazione.
Sul sacrificio di Enea Guarneri Padre Giulio Bevilacqua (il futuro cardinale alpino deceduto pochi anni fa, e che a quel
tempo era prigioniero nel lager di Hert, di Horovice, dove commentava ai compagni di sventura i tempi dei prologo del
Vangelo di S. Giovanni «luce nelle tenebre») scrisse l’ormai introvabile libro «Eroismi senz’ali»; ne parlò diffusamente
anche il prof. Piero Pieri, pur egli ad Aschach, nella sua pubblicazione «Un episodio di prigionia» (edizione ANA 1924).
Ampi dettagli si trovano anche nel libro «Prigionia» del dott. Stefano Chianea - altro ufficiale alpino rinchiuso nel
lager - che così descrive l’aspetto del campo:
Il campo degli ufficiali italiani prigionieri in Aschach sorgeva a poca distanza dal paese omonimo, che è posto sulla
sponda destra del Danubio ad una quarantina di chilometri a monte della città di Linz, in una pianura tagliata ad
oriente ed a settentrione dal corso del fiume e chiusa ad occidente da collinette boscose.
Era stato già abitato da prigionieri serbi, ma dopo un’epidemia di tifo petecchiale, che aveva fatto strage tra i
prigionieri stessi e molte vittime anche tra i medici austriaci, era stato sgombrato; poi, disinfettato e rimesso in
ordine, venne destinato agli italiani e ricominciò appunto a funzionare col nostro arrivo.
Poco lontano da esso v’erano un altro campo destinato a militari di truppa italiani, un campo di prigionieri serbi, i
magazzini e l’ospedale.
Il campo ufficiali era di forma poligonale e costituito di
cinque baracche di legno; lungo di esse, dal lato interno del campo, correva una passerella in legname, sopraelevata al
suolo, che consentiva di passeggiare all’aperto senza calpestare la neve ed il fango. In mezzo al campo, emblema
dell’Austria, era eretta la forca; appena fuori del cancello d’ingresso un’officina da falegname e da fabbro, servita da
prigionieri serbi adibiti ai lavori di manutenzione ma più ancora a fabbricare casse da morto, quelle tali casse che
facevano così bella mostre all’entrata
Il libro accenna pure all’arrivo del gruppo comprendente il capitano Guarneri:
«Verso la metà di febbraio giunse poi un numeroso gruppo di ufficiali provenienti dal campo di Sigmundsherberg; un altro
gruppo ne giunse da quello di Martrenk, e così il numero degli ufficiali prigionieri ad Aschach salì a circa trecento.
Ciò rese necessaria una nuova e più complessa organizzazione del campo e dei suoi servizi.
Assunse il comando del campo il colonnello Taddeini della
brigata «Pesaro» come il più anziano dei colonnelli presenti. Gli ufficiali furono ripartiti in quattro delle cinque
baracche del campo; ogni baracca ebbe un ufficiale superiore per comandante, coadiuvato da un aiutante maggiore, ed una
mensa a sé. Nella quinta baracca furono allogati i servizi, cioè il magazzino viveri, la sartoria, la calzoleria, la
cassa, il barbiere, serviti da soldati italiani prigionieri, e, nella baracca stessa, presero alloggio due capitani,
entrambi degli alpini, Enea Guarneri, nativo di Passirano in provincia di Brescia e Lamberti nativo di Codogno, che
erano preposti alla direzione di alcuni dei servizi medesimi; del gruppo proveniente da Sigmundsherberg faceva parte il
sottotenente degli alpini Prospero Gianferrari, trentino, ma cittadino italiano che, per la sua conoscenza del tedesco e
degli usi austriaci, fu aggiunto al sottotenente Bronzino nell’incarico di recarsi fuori del campo a fare acquisti e
commissioni per i prigionieri.
Nella fase preparatoria per la fuga, continua a raccontare il Pieri, «Bronzino, che, necessariamente, mettemmo a parte
del nostro disegno, andando giornalmente per commissioni fuori del campo, era riuscito ad entrare in relazione con una
signorina trentina internata ad Aschach, la quale, esponendosi a rischio gravissimo e dando prova di mirabile
patriottismo e di grande accortezza, poté acquistare per noi, a Linz, una carta geografica dell’Austria superiore, fino
alla frontiera svizzera, una bussola e tre pugnali. Questa roba, per mezzo di Bronzino, pervenne a noi, e la nascondemmo
accuratamente in modo che sfuggisse alle perquisizioni che, ogni tanto, i nostri custodi tacevano nelle stanza dei
prigionieri; difatti non fu mai trovata».
Il dott. Chianea così descrive il tragico tatto che causò la morte di Guarneri:
La sera del 25 giugno verso le 19, era l’ora della mensa, una grave notizia si diffuse in un baleno nelle varie
baracche: il capitano degli alpini Enea Guarneri era rimasto sotto una frana di terra cadutagli addosso in una galleria
d’evasione, e correva pericolo di morte. Ci precipitammo tutti fuori delle baracche; tutto il campo era in allarme, un
drappello di prigionieri serbi, muniti di zappe e di badili, passava di corsa diretto al luogo della disgrazia. cioè
verso la baracca dei servizi dove pure accorrevano da tutte le direzioni, coll’affanno, con l’angoscia. con lo stupore
dipinti sul volto gl’italiani e anch’essi stupiti ma cupi, accigliati, allarmati gli austriaci addetti alla nostra
custodia. La triste notizia, mentre suscitava in tutti la più viva emozione, rivelava nei medesimo tempo agli italiani e
agli austriaci l’esistenza di un tentativo d’evasione e dei lavori ad esso relativi, di cui nulla era fino allora
trapelato.
Che cosa era dunque accaduto?
Ho già detto come tra gli ufficiali giunti al nostro campo da quello di Sigmundsherberg, si notasse un gruppo di gente
assai in gamba, omogenea, affiatata e pratica del funzionamento dei servizi; gruppo così detto dei «cannibali» e
prevalentemente composto di alpini, tra i quali il capitano Guarneri; come questi, insieme col suo collega Lamberti,
avesse assunto la direzione di alcuni dei più importanti servizi del campo e fosse perciò andato con lui ad alloggiare
nella baracca adibita ai servizi stessi,
orbene, come si seppe di poi, questo gruppo di ufficiali aveva ottenuto il trasferimento dal campo di Sigmundsherberg al
nostro col deliberato proposito di organizzarvi la propria evasione, che essi ritenevano avrebbe quivi avuto maggiori
possibilità di riuscita, sia per essere Aschach un campo nuovo, vergine di simili tentativi di fuga, e dove quindi la
vigilanza nemica, non ammaestrata da precedenti del genere, doveva esser meno intensa ed accorta, sia per essere meno
lontano di Sigmundsherberg dalla frontiera svizzera.
Giunti ad Aschach, dopo essersi ben orientati, avevano progettato di scavare una galleria che, partendo di sotto il
pavimento di una delle baracche e passando sotto il fossato che delimitava il campo, andasse a riuscire fuori del
reticolato di cinta; e scelsero proprio la baracca dei servizi che, per la sua felice posizione - essa guardava infatti
sull’aperta campagna - e non essendo abitata, era quella che, ritenevano, meglio si prestasse al loro scopo. L’aver poi
preso dimora in questa baracca, col legittimo e ben verosimile motivo di meglio sorvegliare e dirigere l’andamento dei
servizi, avrebbe agevolato in singolar modo al Guarneri ed al suo collega la vigilanza continua di giorno e di notte
sull’imbocco della galleria.
Dei rimanenti del gruppo, la maggior parte, cioè gli altri ufficiali alpini, riuscirono abilmente ad ottenere dal
Comando austriaco, accampando il loro spirito di corpo, l’affetto che li legava reciprocamente, dopo tanti mesi di
prigionia, di alloggiare tutti insieme in un solo locale ricavato togliendo i tramezzi che separavano tre stanza
contigue; e gli altri due, cioè il Vinci ed il Fadigati, si allogarono in due camerette vicinissime a questo locale, in
modo da poter essere continuamente in rapporto coi loro amici alpini coi quali, difatti, facevano, si può dire, vita
comune. Tale disposizione di alloggio era naturalmente fatta con uno scopo; essa consentiva ai componenti del gruppo di
trovarsi insieme, di scambiare vedute, pensieri ed oggetti, di prestarsi in ogni evenienza appoggio ed aiuto con la più
grande naturalezza e semplicità, mentre se fossero stati sparpagliati tra le varie baracche, il loro riunirsi a convegno
avrebbe finito con lo svegliare sospetti; inoltre il vivere riuniti in otto e nove, faceva sì che la temporanea assenza
dall’alloggio, per qualche ora del giorno, di uno o due ufficiali - quelli che per turno lavoravano allo scavo della
galleria - potesse passare inosservata ad amici e nemici.
Tutto ben concertato, essi avevano cominciato coll’aprire nel pavimento della stanza abitata dal Guarneri una botola,
segando il tavolato esattamente intorno al perimetro della lastra di ferro su cui poggiava la stufa, in modo che
l’apertura restasse completamente coperta dalla lastra; poi alla metà di marzo, iniziarono lo scavo del terreno; e si
pensi quale improba fatica, quale tenacissimo sforzo dovette costare questo lavoro.
Tra il pavimento della baracca ed il suolo v’era uno spazio d’aria perchè non marcissero le tavole del pavimento stesso,
spazio che di soli venti centimetri d’altezza fino ad un terzo circa della lunghezza della baracca, andava gradatamente
aumentando, essendo il terreno in leggero declivio, fino a raggiungere i sessanta centimetri all’estremità opposta della
baracca.
Da questo lato, di quando in quando, qualche soldato austriaco s’insinuava tra il suolo e il pavimento per riscontrare
se questo fosse in qualche punto manomesso dai prigionieri; ma nella sua ispezione era obbligato ad arrestarsi dove il
suolo, salendo, non distava dal pavimento più di una ventina di centimetri.
Ed appunto nel tratto di suolo che non poteva essere ispezionato, fu intrapreso lo scavo. Fu dapprima scavato un
camminamento lungo l’asse longitudinale della baracca, e la terra estratta fu abilmente distesa sul terreno ai lati
dello scavo; giunti quasi al punto dove lo spazio tra il suolo ed il pavimento cominciava ad aumentare, i «cannibali»
scavarono un altro tratto di camminamento disposto relativamente al primo come la testa di un T rispetto alla sua gamba,
e quindi due altri tratti paralleli al primo, di modo che, sotto il pavimento, correva un camminamento di figura
rettangolare, destinato a ricevere la terra di scavo proveniente dalla vera e propria galleria, che fu cominciata non
appena finito il camminamento. Questo lavoro, che pure aveva richiesto fatica penosissima, accorgimento e tenacia non
comuni, specie all’inizio, quando chi lavorava aveva dovuto procedere allo scavo quasi al buio, disteso bocconi,
schiacciato tra il pavimento ed il suolo e chiuso nella strettoia del solco che doveva allargare ed approfondire, fu ben
lieve in confronto di quello che richiese la galleria.
Questa era stata così progettata: un tronco orizzontale
che, partendo dal camminamento, e correndo alla profondità di un metro sotto terra doveva giungere fin presso il fossato
di cinta; quindi un pozzo di discesa di tre metri di profondità per poter poi passare sotto il fossato mediante un altro
tronco orizzontale a circa un metro sotto di esso; ed infine un pozzo di ascesa con lo sbocco nel campo di segale oltre
il reticolato, segale che, al tempo previsto per l’evasione, cioè nel giugno, avrebbe raggiunto la sua massima altezza -
più di un metro - ed avrebbe quindi facilitato di molto l’occultamento dello sbocco e la fuga dei prigionieri.
Orbene, mentre il terreno in cui era stato scavato il camminamento, profondo circa 80 centimetri, era solido e compatto,
il terreno, invece, in cui fu scavata la galleria, passato il primo metro di profondità, apparve composto di ghiaia e
sabbia e franoso quanto mai, sicché fu necessario armare con tavole e telai le pareti della galleria stessa, il che rese
il lavoro oltremodo lento e difficile. Ma ogni difficoltà fu vinta dalla previdenza, dall’abilità, dalla ferrea volontà,
dalla sovrumana costanza di quei valorosi. Essi, come ho accennato, lavoravano per turni di squadre composte di due
uomini ciascuna e indossavano durante il lavoro appositi indumenti, che poi, finito il turno lasciavano nascosti sotto
il pavimento della baracca.
Direttore tecnico dei lavori fu il sottotenente Gianferrari studente del quinto anno d’ingegneria; anima dell’impresa,
insuperabile esempio di dedizione alla causa comune, di senso pratico, di continua padronanza di sé nelle più svariate
circostanze, d’incrollabile fede e perseveranza fu il Guarneri. Egli, che era il direttore di alcuni dei più importanti
servizi del campo, poté, avvalendosi appunto di questa sua qualità, provvedere tutto il materiale occorrente, tavole,
murali, filo di ferro, chiodi, seghe e martelli; il tenente Fadigati, abilissimo nel lavorare il legno, costruì due
carretti, muniti di rulli al posto delle ruote, che servirono a trasportare la terra di scavo. All’illuminazione
elettrica della galleria si provvide, per la massima parte, mediante filo abilmente trafugato nelle baracche e con
lampadine acquistate.
Ad un certo punto, però, venne a mancare la direzione del Gianferrari, Questi aveva progettato, da tempo, di fuggire
travestito, in treno, insieme col capitano Marzoli e, pur avendo assunto così notevole parte nel lavoro della galleria,
s’era riservato di tentare la fuga nel modo anzidetto, salvo, in caso d’insuccesso, a rinnovare il tentativo servendosi
della galleria.
Partito poi il Marzoli, che aveva ottenuto di rimpatriare come invalido, non aveva rinunciato al suo progetto e lo aveva
portato a fine con molta abilità, durante una passeggiata. Erano infatti usciti in non più di quindici o sedici
prigionieri sotto la scorta di sette od otto angeli custodi, tra ufficiali e soldati, eppure, ad un certo punto, il
Gianferrari era riuscito a svignarsela nascondendosi, per il momento, in un boschetto e gli austriaci non s’accorsero
della sua fuga che il giorno dopo.
E la presenza del Gianferrari venne meno proprio quando più sarebbe state necessaria; quando cioè, avrebbe molto giovato
a diminuire i gravi inconvenienti derivati da alcuni errori commessi nella costruzione della galleria, a causa dei quali
il termine del tronco, passante sotto il fossato, e così pure l’inizio del pozzo d’ascesa, anziché alle profondità di
tre metri (quella cioè raggiunta col pozzo di discesa) risultarono alla profondità di cinque metri, ed il tronco stesso
rimase più stretto del pozzo, così da essere, più che una galleria, un vero e proprio cunicolo in pendenza lungo il
quale era malagevole procedere e trasportare il materiale di scavo.
Da tale profondità sboccare alla superficie richiedeva ancora un tempo più lungo di quello preventivato, mentre i
congiurati, e in specie il Guarneri, avevano fretta di finire il loro lavoro, sia perchè temevano che la probabile
scoperta di un’altra galleria - di cui dirò poi, iniziata nella mia baracca da un piccolo nucleo di ufficiali e poi
abbandonata - portasse alla scoperta della loro galleria, sia perchè Guarneri, in seguito ad un vivace incidente tra lui
e il comandante austriaco del campo, temeva, da un giorno all’altro, di essere trasferito per punizione insieme con un
altro ufficiale in altro campo di prigionia, ed allora addio fuga!
Il Guarneri dunque che, fuggito il Gianferrari, era
diventato il direttore anche tecnico dell’impresa, decise di affrettarne il compimento scavando un pozzo quasi verticale
di ascesa, poi una traversa orizzontale lunga circa un metro ed infine un altro pozzo per sboccare alla luce del sole.
Il lavoro fu infatti continuato con fervida lena da tutti i congiurati, cui s’erano aggiunti tre ufficiali dei
bersaglieri, Ruspa, Spagnolo e Rizzo, già appartenenti al nucleo che aveva tentato lo scavo dell’altra galleria, i quali
avevano dapprima invitato il Guarneri a dirigere la loro impresa, al che egli aveva opposto un deciso rifiuto non avendo
fede nel risultato di essa, o poi, abbandonata l’impresa stessa, gli avevano domandato di essere associati a qualsiasi
tentativo di fuga che egli, per avventura, in avvenire avesse diretto, o stesse già dirigendo; ed erano stati allora
ammessi nella compagnia dei cannibali
Fu in breve raggiunta, nello scavo del primo pozzo d’ascesa, l’altezza di un uomo; ma, per la febbre di far presto, il
lavoro non era stato più condotto con la consueta prudenza, in specie quel che riguardava l’armamento delle pareti. Né
una piccola frana, caduta due giorni prima della disgrazia, d’improvviso, sulla testa del Guarneri e che se non gli fece
un gran male, non gli fece certo bene, fu monito sufficiente, almeno per lui, a riprendere l’osservanza delle
precauzioni fino allora usate, atte a diminuire il pericolo. Invano i compagni proposero che almeno si procedesse nello
scavo con lo schermo di un graticcio al di sopra del capo per impedire che, in caso d’una nuova frana, colui che scavava
fosse investito di colpo da una gran massa di terra; il Guarneri, al quale, data l’urgenza di portare a termine il
lavoro ogni indugio pareva gravissima colpa, rispose ai colleghi che a lui bastava il riparo di un elmetto da
combattimento; che, se invece di essere in prigionia, fossero stati in guerra, quel lavoro sarebbe stato ordinato ad un
soldato qualunque senza tanti riguardi; ora quel che si poteva ordinare ad un soldato, poteva ben essere fatto da lui,
capitano; e, senz’altro, s’era rimesso al lavoro col consueto sprezzo del pericolo. E nel suo fervore, non volle nemmeno
in quel giorno funesto, prima di riprendere lo scavo, che fosse esportata una certa quantità di terra rimasta accumulata
in fondo al pozzo e che, in parte, ne ostruiva l’accesso. E ad un tratto, purtroppo, mentre con la paletta scavava
l’infido terreno, assistito dal Vinci, disteso a terra dietro di lui con la testa e le spalle in fondo al pozzo ed il
resto del corpo nel cunicolo, una grossa frana staccatesi dalla volta l’investì; il Vinci fece appena in tempo a
ritirarsi col capo nel cunicolo, mentre lui rimase sepolto della cintola in giù, nell’impossibilità di fare qualsiasi
movimento. Sperarono i suoi compagni, per un momento, di poterlo trarre fuori, e forse se non vi fosse già stata in
fondo al pozzo quella maledetta terra che proprio lui non aveva voluto fosse portata via, la cosa non sarebbe stata
impossibile. Ma quella terra, restringendo il già scarso spazio disponibile, e aggiungendosi l’altro gravissimo danno
dell’oscurità (la frana aveva infatti spento la luce elettrica e non fu possibile riaccenderla) non consentiva la
libertà di movimento che sarebbe stata indispensabile per sgomberare, per mezzo del carretto, il materiale franato, da
cui uscivano soltanto i piedi nudi dell’infelice capitano. Sicché, dopo i primi febbrili tentativi di salvataggio, in
cui si provarono successivamente i compagni più idonei, l’impresa di trarlo in salvo dal cunicolo apparve subito
disperata, e fu deciso di richiedere l’intervento degli austriaci per tentare di liberarlo dal di fuori scavando la
terra al di sopra del punto in cui egli era sepolto.
Frattanto il Guarneri, pur nella terribile condizione in cui si trovava, con la minaccia sospesa sul capo d’essere
investito, da un momento all’altro, da qualche nuova frana, manteneva il più assoluto dominio di sé, e con mirabile
sangue freddo raccomandava ai compagni di non affannarsi, di sgombrare con calma la sabbia e soprattutto di non dar
l’allarme in modo che il nemico non scoprisse la galleria. Ed i compagni, per non amareggiargli oltre l’animo, non gli
comunicarono di aver chiesto il soccorso degli austriaci se non quando questi erano già giunti sopra di lui, ed allora
solo si rassegnò al fatto compiuto.
Ma gli austriaci lavoravano fiaccamente, ed allora a gara i più robusti fra i prigionieri accorsi sul luogo afferrarono
zappe e badili e si diedero a scavare; il lavoro, però, come purtroppo suole accadere in simili circostanze, e mancando
un vero tecnico capace di dirigerlo e di disciplinano, procedeva confuso e disordinato; ben presto poi, scavato il primo
metro, apparve il funesto terreno di ghiaia e sabbia che cominciò a franare riempiendo il fondo della buca. Così si
continuò per qualche ora; era calata la notte; la luce fumosa delle torce illuminava sinistramente la triste, ardua
fatica dei lavoratori affannati ad approfondire la buca che, invece, per lo slittamento delle pareti, sempre più
s’allargava; tutto intorno il cerchio dei prigionieri dai volti dolorosi, cupi, accigliati; ordini, contrordini,
consigli, suggerimenti, espressioni di sconforto e di speranza s’incrociavano nell’aria.
Si temeva soprattutto che nell’interno del pozzo avvenisse qualche altra frana, nel qual caso sarebbe stata finita per
il povero capitano, si ascoltavano perciò ansiosamente le notizie, che, di minuto in minuto, venivano dalla galleria
dove i suoi compagni seguitavano a tenersi in comunicazione con lui, che, fidente, aspettava continuando a raccomandare
di non angustiarsi troppo perché si sentiva di resistere ancore.
Ad un certo punto però corse voce che qualche altro
piccolo slittamento di sabbia fosse avvenuto lungo le pareti del pozzo e che, crescendo l’altezza della sabbia, l’aria
cominciasse a mancare all’infelice Guarneri di cui si sentiva il respiro diventare affannoso.
Ed i timori di molti, purtroppo, s’avverarono ché, poco dopo, un’altra grossa frana si produsse nella buca che si stava
scavando ed un’altra, forse per contraccolpo, piombò nel triste pozzo addosso al Guarneri che fu sentito, per alcuni
momenti, rantolare e poi non diede più segno di vita.
Era, purtroppo, la fine: ma il cuore, ma il pensiero di tutti noi si ribellavano a credere che ogni speranza fosse
perduta; che il sublime valore, l’eroica tenacia del nostro caro compagno dovessero concludersi con una morte, certo
gloriosa, ma ahimé! così miseranda.
Ci lusingavamo perciò che egli fosse soltanto tramortito, che, svenuto, potesse ancora durare fino al momento delle
liberazione; e un briciole di speranza ancora ci arrise quando sentimmo dire che un medico, sceso nel cunicolo e fargli
un’iniezione di canfora nei piedi, li sentiva ancor caldi.
Gli austriaci frattanto visitavano con curiosità mista in alcuni a sincera ammirazione, in altri ad ironia e mal celata
rabbia, l’opera che era costata ai nostri tanti sacrifici, in cui essi avevano riposto tante speranze; il tenente
colonnello Salomon von Friedberg, alla vista di quell’opere, prova palese del valore, dell’intelligenza, della tenacia
italiana, non poté tenersi dall’esclamare commosso: «Helden ! Helden !» (Eroi!).
Tutta la notte e buona parte del giorno seguente durò il lavoro di scavo: nessuno avrebbe creduto che fosse necessario
tanto tempo per giungere a rinvenire il Guarneri.
Finalmente, verso le diciassette, il suo corpo apparve allo sguardo commosso dei più vicini; chi lo vide racconta che fu
trovato in piedi, con le braccia congiunte ad arco al disopra del capo a suprema difesa contro il rovinio della terra
che l’aveva finito, con l’occhio ancora semiaperto e calmo; l’atteggiamento del suo corpo erculeo rivelava, ancora una
volta, la meravigliosa padronanza di sé, che pure nell’estremo momento non l’aveva abbandonato.
Ah! non in un’oscura fossa, prigioniero, in terra nemica, egli avrebbe dovuto morire; ma sul campo, alla luce del sole,
davanti ai suoi alpini, che tante volte, con leggendario valore, aveva guidato alla vittoria ed ella gloria!
Fu subito adagiata la salma su di una barella, vi fu stesa sopra una coperta; poi, sollevata dai cari compagni, essa
apparve alla vista degli astanti, fra un mormorio di compianto e d’ammirazione; anche i numerosi soldati austriaci e i
borghesi venuti da Aschach e curiosare, e che stavano assiepati dietro il reticolato, dimostrarono, in generale, col
loro atteggiamento, sensi, per lo meno di rispetto, verso il valoroso caduto; solo io vidi una donna ed un soldato,
vicini, ridere bestialmente al passaggio della salma e allora, con quanta voce avevo in gola, gridai loro sul muso: «Schweinel»
(Porci)
Scortata da tutti coloro che avevano partecipato all’impresa e da qualche altro ufficiale, la salma fu trasportata fuori
del campo nella camera mortuaria dell’ospedale; all’uscita dal campo la guardia austriaca, schierata, presentò le armi.
L’autopsia dimostrò che la morte era avvenuta per soffocamento.
Due giorni dopo furono fatti i funerali, che riuscirono una solenne, commovente dimostrazione dei sentimenti di
cordoglio e d’ammirazione che la tragica ma eroica fine dello scomparso, insieme con la conoscenza del suo glorioso
passato di combattente, avevano suscitato in ogni cuore. E non solo gli italiani ma anche i nemici vollero
cavallerescamente rendere omaggio allo sfortunato valore del caduto.
Insieme col Comando italiano del campo partecipò infatti alla mesta cerimonia tutto il Comando nemico, ed un’intera
compagnia austriaca, completamente rimessa a nuovo per la triste occasione, rese gli onori salutando con tre salve di
fucileria le salma mentre veniva calata nella fossa; il colonnello austriaco comandante del raggruppamento di Aschach
volle gettare la prima pelata di terra sulla cassa, poi lo seguirono nell’operazione pietosa gli altri ufficiali
austriaci e quindi il colonnello italiano Taddeini comandante del campo e gli altri ufficiali italiani.
Prima di lasciare il triste luogo il colonnello Taddeini rivolse alla salma gloriosa quest’ultimo saluto: «Addio,
valoroso compagno, eroe d’Italia, riposa in pace!»
Il conferimento della medaglia d’oro al valore militare riassume, con la seguente motivazione, la breve ed eroica
esistenza di questo Alpino la cui figura incancellabile è pure stata di recente rievocata dal settimanale Epoca in uno
dei suoi ottimi servizi dedicati ai più rilevanti episodi della prima guerra mondiale:
«Giovane ufficiale di rare virtù militari e del più puro patriottismo, animatore dei suoi dipendenti che seppe
predisporre ad ardite imprese, sempre primo dove era un pericolo da affrontare ed ultimo a lasciare il campo di
battaglia, condusse sempre brillantemente il proprio reparto, sia in cruenti assalti come in difese disperate. In
diverse azioni ferito, ed alcune volte gravemente, non abbandonò mai il posto di combattimento, ma sereno calmo. attivo
e pieno di slancio, persistette sempre nella lotta, sia che vi arridesse la vittoria, come se la fortuna non arridesse
al valore suo e del suo reparto. In un combattimento di retroguardia, dopo tre assalti, ferito e circondato dal nemico
per aver protetto fino all’estremo del possibile la ritirata del battaglione, prima di cadere prigioniero fece
presentare le armi dei pochi superstiti ai numerosi compagni d’arma che nel suo esempio avevano in condizioni
difficilissime trovata la forza di morire sul posto del dovere e del sacrificio. Infine in prigionia, conservando alto
lo spirito e col pensiero rivolto alla patria. anelante di affrontare per lei nuovi cimenti organizzò un ardito
tentativo di fuga, durante la quale sprofondatasi la galleria per la quale doveva avvenire l’evasione, e rimasto quasi
completamente sepolto, non volle essere soccorso per non dare l’allarme e compromettere così la progettata fuga dei
compagni, e fra gravi sofferenze sopportate con vero stoicismo moriva eroicamente, suggellando la vita con un atto
fulgido di valore per cui il nemico, ammirandolo, ebbe ad onorario degnamente e per cui la forte Brescia lo ha elevato a
simbolo di sua gente».
*
Nel ricordo di Enea Guarneri, dopo cinquant’anni di indelebile memoria, mi sarebbe di grande conforto incontrarmi con i
commilitoni del Val Stura, due volte superstiti: prima sopravvissuti a quella guerra (e per me ed altri anche alla
guerra più recente) e superstiti infine del mezzo secolo che ci separa da quegli avvenimenti. Certo è che in ben pochi
siamo ormai rimasti.
G. CURTO