MEDAGLIE D'ORO |
Aprile 1968 |
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La sera del 20 giugno 1918 Boroevie von Bojna telegrafò
al comando supremo austriaco informandolo della necessità di ritirare oltre il Piave la 6° Armata e quella dell’Isonzo;
il 21 e 22 giugno si svolsero frequenti ma non rilevanti azioni isolate tendenti a conquistare piccoli obiettivi locali
maggiormente adattabili a difesa; più consistente, ma ugualmente inefficace, fu un tentativo d’azione operato dagli
austriaci a occidente di Fagarè il giorno 22; la notte tra il 22 e il 23 giugno le truppe tedesche, ungheresi, slave,
rumene e polacche - che avevano lottato con pur ammirabile ed eroico ma sfortunato slancio - iniziarono ad attraversare
il Piave, deluse ed affrante; partivano dal Montello e dalla zona compresa tra Salettuol e Fossalta, dove avevano subito
gravissime perdite e perduta ogni speranza di vittoria.
La sera del 23 giugno, Diaz diramò un bollettino supplementare di poche parole ma sufficienti a risollevare l’animo di
tutti gl’italiani:
« Dal Montello al mare il nemico, sconfitto ed incalzato dalle nostre valorose truppe, ripassa in disordine il Piave».
Gli austriaci rimasero ancorati ad una breve striscia di terreno intorno a Musile, ma il 24 giugno dovettero cedere, e
diciotto ufficiali e 1607 uomini di truppa superstiti chiesero la resa.
Il nemico conservava però notevoli energie e un tentativo del battaglione ciclisti del 12° bersaglieri di costituire,
durante la notte del 26 giugno, una testa di ponte sulla sinistra del fiume a Ponte di Piave, venne respinto con
sensibili perdite a carico dei nostri reparti.
Continuava frattanto accanita la lotta sul basso Piave, in provincia di Venezia, e particolarmente tra Sasson e Caposile:
il XXVIII reparto d’assalto meritò la medaglia d’oro; pure di medaglia d’oro furono decorati l’aiutante di battaglia
Carlo Gardan, il caporale dei bersaglieri Attilio Verdirosi, l’aiutante di battaglia Soccorso Soloni e infine il maggior
generale Umberto Fadini ed altri ancora che la limitatezza delle ricerche non consente di ricordare.
*
Gli eroi del Grappa meriterebbero da soli una lunga e
documentata rievocazione; Monte Pertica, Valderoa, Col d’Echele, Monte Asolone, Col della Berretta, Monte Spinoncia, Col
dell’Orso, Porte di Salton, Col Moschin, Fagheron, Col del Rosso, ecc.: fanno parte del sacro massiccio del Grappa che
con l’altipiano di Asiago ebbe eroi innumerevoli che non possiamo ricordare adeguatamente.
Non risulta che - salvo qualche infiltrazione prontamente respinta
- il nemico sia penetrato in provincia di Treviso attraverso il Grappa la cui cima, che si eleva appunto nel trevigiano
coi suoi 1779 metri, non venne violata dagli attacchi avversari; è quindi assai improbabile che vi siano state delle
medaglie d’oro conferite per atti di valore compiuti in quel settore della nostra provincia.
Per la circoscritta finalità della presente rievocazione dobbiamo limitarci a ricordare che 12.400 nostri Caduti del
Grappa (2.280 riconosciuti e 10.120 caduti ignoti) riposano nel monumentale sacrario inaugurato il 22 settembre 1935 e
che dalla cima del monte guarda gli ossari del Montello e del Piave.
Nel cimitero austro-ungarico trovano i resti dei pur valorosi avversari: 292 Caduti noti e 10.000 ignoti.
*
Dopo la battaglia del Piave (le nostre perdite furono di 92.000 uomini; a 250.000 uomini sono state stimate le perdite
dell’avversario) le forze contrapposte erano ancora equilibrate di entità, anche se sensibilmente diverso lo stato
d’animo tra chi si sentiva vincitore e chi si trovava soccombente e sfiduciato.
Gli austriaci disponevano ancora di 724 battaglioni di fanteria con 24 mitragliatrici per battaglione e 6.300 bocche da
fuoco. Noi avevamo in tutto 57 divisioni (di cui tre inglesi, due francesi e una cecoslovacca) oltre che il 232°
reggimento di fanteria americano; in complesso, erano 704 battaglioni con 18 mitragliatrici per battaglione.
Gli austro-tedeschi tentarono infatti di riprendere
l’iniziativa attaccando, nel pomeriggio del 12 luglio, le pendici sud del Sasso Rosso; il 17 agosto tentarono di
riprendersi l’isolotto a sud-est delle Grave di Papadopoli; in settembre - dopo violenta preparazione d’artiglieria,
prevalentemente con proiettili a gas
- tentarono di riconquistare quota 703 di Dosso Alto che era stata raggiunta il 3 agosto dal 29° reparto d’assalto.
Vennero respinti, e già si profilava l’inizio della nostra controffensiva che venne anzi preceduta da buoni successi
sull’Altipiano di Asiago, nella regione settentrionale del Grappa, nella zona del Tonale, nei pressi dell’Adamello ove
gli alpini strapparono al nemico
monte Stabel (q. 2860) e rioccuparono il Corno del Convento (quota 3400).
L’inizio della controffensiva italiana era stato fissato per il 18 ottobre, ma - a causa del maltempo che aveva
ingrossato le acque del Piave - venne rinviata, rendendo anche possibile l’invio sul Grappa di altri quattrocento pezzi
d’artiglieria.
Il segnale della battaglia venne dato sul Grappa
dall’artiglieria del XXX corpo d’armata alle ore 5 del 24 ottobre e due ore dopo iniziò l’attacco contro le munitissime
difese avversarie; si combatté duramente, tra l’altro, sul Col dell’Orso al confine tra la provincia di Treviso;
l’azione proseguì contro l’Asolone raggiungendo il Col della Berretta, sul Pertica, sul Col del Cuc, Col Caprile, Col
della Martina, sulla linea Solaroli-Valderoa ove il battaglione alpino «Aosta» - ridotto a venticinque uomini - aggiunse
altri meriti a quelli ottenuti sul Vodice nel maggio del precedente anno e meritando il conferimento della medaglia
d’oro
Alterne furono le fortune della lotta sul Grappa, ed
ammirevole il valore e lo spirito sacrificale di entrambi gli eserciti contrapposti.
Stava intanto maturando il piano di forzamento del Piave con azione prevista in più punti; l’impresa si presentava
oltremodo difficile per la persistente piena del fiume e per la sempre pronta reazione dell’artiglieria avversaria.
La notte del 27 ottobre - in località «ponte del Molinetto» - riuscirono a passare tre battaglioni di alpini della 12°
Armata, il 107° reggimento francese e buona parte del XXVII° corpo del generale Di Giorgio; i nostri si portarono,
sebbene contrastati, verso San Vito, Madonna di Caravaggio e Ca’ Settolo, penetrando verso Valdobbiadene le cui colline
vennero attaccate dal 9° gruppo alpino.
Il nemico resisteva con accanimento sulla Montagnola di
Valdobbiadene contro cui si lanciarono il battaglione alpino «Verona» e una compagnia dello «Stelvio» che vennero
prontamente fronteggiati dai difensori. Fu allora che il capitano FRANCESCO TONOLINI guidò due plotoni dello «Stelvio»
che irruppero nel presidio avversario seguiti da tutto il battaglione «Verona»; vennero catturati duecento prigionieri,
quattordici mitragliatrici e altro materiale da guerra. Cadde però anche l’eroico ufficiale al quale venne conferita la
medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione: Ufficiale di conosciutissimo valore e di singolare
ardire, sempre pronto ad ogni aspro cimento, animato da fede indomabile che sapeva trasfondere in ufficiali e truppa, fu
costantemente primo fra i primi di fronte al nemico.
Nel difficile passaggio di un fiume rivendicò per sé il compito più pericoloso. Trascinò imperterrito la compagnia sotto
il fuoco intenso di mitragliatrici per le conquista di una importante posizione, agevolando l’azione dei reparti di un
altro battaglione. Contro l’ostinata resistenza dell’avversario si slanciò intrepido con due plotoni sul margine di un
ben munito costone spazzando definitivamente la tenacia dal nemico e volgendolo in fuga. Trovò eroica morte sul campo.
(Montagnola di Valdobbiadene - Treviso), 28 ottobre 1918.
Tonolini era nato a Breno, in provincia di Brescia, nel
1880 e si era laureato ingegnere al Politecnico di Milano, prestando poi servizio volontario al 5° Alpini. Divenuto
ingegnere comunale del paese natio e promosso sottotenente del 6° Alpini e infine tenente, combatté nel 1916 al Crozzon
di Falgorida (Adamello) con il battaglione «Valtellina». L’anno successivo, promosso capitano e trasferito al
battaglione «Stelvio», partecipò alla battaglia dell’Ortigara dove il mattino del 19 giugno si lanciò sul costone Ponari,
verso quota 2105, conquistandone la vetta e vivendo poi tutte le altre vicissitudini di quel memorabile avvenimento.
Sempre col «Stelvio» Tonolini fu alla difesa di Monte Fior dove, il 20 novembre, meritò la medaglia d’argento per aver
guidato i suoi alpini balzando per primo nelle trincee avversarie e sventando un successivo contrattacco; valoroso
infine nella battaglia su monte Cornone nel gennaio 1918 e in quelle di S. Lucia di Crosara e di Col del Rosso,
Francesco Tonolini rappresenta una delle figure più mirabili della riscossa italiana sul Piave.
*
Il 3° Gruppo d’assalto (con i reparti VIII e XXII) rinforzato dal
XII Gruppo e dalla brigata «Cuneo», iniziò nel contempo ad avanzare verso Moriago e Mosnigo, mentre la 10° Armata
puntava più a sud verso Roncadelle e Borgo Malanotte.
Nella sola giornata del 28 ottobre, malgrado la ferrea resistenza e i decisi contrattacchi avversari, le nostre truppe
fecero oltre novemila prigionieri e catturarono 51 cannoni.
Sulla Piana della Sernaglia rifulse l’eroismo di interi reparti e di soldati di ogni grado. La medaglia d’oro al valor
militare (Falzè di Piave, 27-28 ottobre 1918) venne conferita al Maggior Generale ORESTE DE GASPARI che Comandante di
due gruppi d’assalto rinforzati con elementi di Artiglieria e Genio, li condusse risolutamente al di là del Piave e
raggiunse con precisa manovra gli obiettivi assegnatili. Durante un grave contrattacco nemico spiegò la più grande
energia, manovrando con la più grande opportunità le provate sue truppe.
Nel momento più critico, quando maggiormente ferveva la lotta fu alle sue schiere simbolo di indomito eroismo e di
inflessibile forza di comando. Dominate con fermissimo imperio le sanguinose vicende del combattimento, non appena
possibile riordinò le truppe per la ripresa dell’attacco che condusse a completo compimento. I suoi, arditi, nella gioia
della vittoria, provarono la fierezza più grande alla quale potessero aspirare; quella di veder impersonato nel loro
Comandante il valore insigne e i fulgori di eroismo che la battaglia aveva richiesti.
Una lunga esposizione meriterebbe la figura di questo eroico generale nato a Potenza nel 1864 da genitori genovesi.
Dapprima sottotenente del 53° Fanteria, passò ai Bersaglieri col cui 2° reggimento combatté in Cina contro i boxers
meritandosi un encomio solenne.
All’inizio del conflitto De Gaspari, col grado di tenente colonnello
e al comando di un battaglione del 2° bersaglieri, si spinse fino a Fiera dì Primiero; poco dopo assunse il comando del
138° reggimento fanteria e a Monte Sei Busi, tra il 10 e il 14 novembre 1915, si meritò la medaglia di bronzo al valor
militare. Promosso colonnello, fu alla guida del 14° reggimento bersaglieri tra il 24 maggio e il 6 luglio 1916 -
sull’Altipiano dei Sette Comuni - meritò la medaglia d’argento e rimase gravemente ferito ad una gamba da un colpo di
granata che gli mutilò anche la mano sinistra.
Dopo sedici mesi di ricovero in ospedale, rifiutò la convalescenza
prese il comando della brigata «Como» con la quale combatté sui Solaroli; e quando, approssimandosi la decisiva
battaglia di Vittorio Veneto, venne costituito il Corpo di Armata d’assalto, Oreste De Gaspari - promosso brigadiere
generale - assunse il comando di uno dei suoi Raggruppamenti col quale attraversò il Piave a Falzè, nella notte tra il
26 e il 27 ottobre, aprendo la via della vittoria agli altri reparti. Concluso il conflitto il gen. De Gaspari venne
inviato in Tripolitania, poi ebbe il comando della brigata «Parma» e divenendo infine comandante delle truppe della
Cirenaica.
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L’impeto della 1° divisione d’assalto venne frenato dalle
artiglierie avversarie appostate al Castello di Susegana ed è qui che - il 29 ottobre - rifulse l’eroismo del
sottotenente di fanteria ANGELO PARRILLA, ragazzo del ’99 nativo di Longobuco (Cosenza) e che già nel precedente mese di
giugno aveva condotto i suoi giovani soldati sette volte all’attacco e tre volte al contrattacco. Chiese il
trasferimento nei reparti d’assalto e cadde appunto assaltando al castello di Susegana come chiaramente descrive la
motivazione della medaglia d’oro conferitagli alla memoria: Chiesto ed ottenuto il comando della pattuglia di punta,
composta di cinque arditi, alla testa di essa precedeva il proprio reparto d’assalto. Avuto sentore della presenza di
imprecisate forze nemiche in un fabbricato, dopo averne mandato sollecito avviso al proprio comandante, risolutamente e
per primo si slanciava nel fabbricato stesso affrontandone con insuperabile audacia, a colpi di bombe a mano, i
difensori di gran lunga più numerosi. Alla violenta reazione di questi, impegnava insieme ai suoi una accanita mischia
corpo a corpo, abbattendo un ufficiale avversario. Pugnalato a sua volta continuava disperatamente coi suoi arditi,
nella strenua ed impari lotta mettendo fuori combattimento numerosi nemici finché, crivellato di colpi, gloriosamente
cadde fulgido esempio di eroico valore.
L’opera e il sacrificio di giovani come Parrilla valsero a
facilitare l’azione degli altri reparti del nostro esercito che iniziarono infatti ad avanzare da tutta la riva sinistra
del Piave. Oltre che ad occupare Mosnigo, Vidor, Moriago, Sernaglia, Falzè di Piave, le nostre truppe raggiunsero
sollecitamente Roncadelle, Borgo Malanotte, Tezze, Rai, S. Michele di Piave, Ormelle e S. Lucia di Piave; gli inglesi
avanzarono dalle Grave di Papadopoli, i francesi presero d’assalto il monte Pianar.
Gli arditi dell’XI reparto, seguiti dalla 6° brigata bersaglieri, superarono Ponte di Piave; più a nord la brigata
«Campania» superò il tratto Molino-Settolo, raggiungendo Saccol e Soprapiana, S. Pietro di Barbozza e Fontana.
Aspramente contrastata dalla 43° Schutzen (riserva della loro 6° armata) e dalla 26° Schutzen (riserva della 5°),
l’avanzata su Conegliano si concluse vittoriosamente alla mezzanotte del 29 ottobre con l’ingresso della nostre brigate
«Sassari» e «Bisogno».
A conclusione di questa nostra rievocazione riportiamo la seguente corrispondenza di guerra, scritta da Antonio Bandini
e che fu la prima cronaca su Conegliano liberata:
Quanti giorni è che dura la battaglia? Fino
a qualche ora fa avevo ancora esatta memoria dell’inizio, dello sviluppo, delle fasi della manovra; fino a qualche ora
fa le mie emozioni erano chiare e misurate, vivevo nella successione normale dei timori e delle speranze. Camminavo
colle truppe varcate sulla sinistra del Piave per la strada di Susegana, nella notte scintillante di stelle,
ansiosissimo delle sorti della battaglia. Le notizie ancora discordi di quello che era successo nella sera avevano per
me un puro interesse militare: sentivo che questa notte si sarebbe deciso il successo a seconda della prontezza e della
iniziativa dei comandanti di quelle truppe colle quali mi accompagnavo. La presa di Conegliano apriva indubbiamente la
possibilità di correre subito sopra Vittorio e bloccare la stretta di Serravalle. Era questione di sapere a che punto
l’avversario avesse l’intenzione di impegnare colle sue truppe di retroguardia i nostri pattuglioni di punta lanciati su
tutte le strade. All’ingresso di Conegliano riconobbi le due statue di pietra che fiancheggiano la strada.
Il borgo era muto e deserto. I soldati procedevano in silenzio, pronti alle sorprese. A un tratto, dove cominciano i
portici, abbiamo sentito echeggiare in fondo alla strada delle voci di donne.
*
Ecco che ora non mi rendo più conto di quando la battaglia
è cominciata. Il fatto militare perde qualunque interesse di fronte a questa emozione gelosamente umana, che quelle
dolcissime voci di donna in fondo alla strada hanno suscitato. Parevano uscire di sotterra. Le prime donne erano in un
portoncino illuminato da
una candela, e guardavano estasiate passare i soldati, senza avere il coraggio di farsi sulla strada. Erano varie donne
di varia età. Ci hanno stretto le mani, come si volessero aggrappare a noi. Si sono lasciate guardare nel viso sfiorito
come sorelle che abbiano già tutto perdonato e dimenticato, per la gran gioia di rivedere la faccia del fratello. Ma
quei visi, quelle guancie tutte scavate in una maniera, quegli occhi tutti scavati sotto le tempia in una maniera,
quelle bocche dolenti disabituate al sorriso, e che ora lo ritrovavano puro dopo un anno di spavento! Questa penosa
uguaglianza di vita miserrima, questo ancora timido tripudio fanno sprofondare il cuore dalla pietà e come dal rimorso.
Nelle strette di mano c’è una cara scambievole gratitudine di liberati e di liberatori. Alla semplicità del fatto
compiuto esse non sanno ancora credere. Due belle giovani, con nel viso la stessa immagine e gli stessi segni della
inedia, comuni a tutti, ragazzi e vecchi, per sfogare la gioia che le ha invase, si abbracciano e si
baciano improvvisamente, piangendo.
Erano andati a letto come il solito, con una speranza che
però nessuno osava confessare nemmeno a sé stesso. Lo sgombero delle truppe, la maggior parte accasermate, in campagna,
era stato fatto senza dare nell’occhio per vie traverse della campagna. Tutto il giorno si era fatta sentire la
mitragliatrice nei sobborghi.
Alle 11 di notte ancora era stata vista qualche vedetta. Alle 11.30 sentono nelle strade uno scalpiccio, un brusìo: si
levano dal letto in ascolto: sono voci italiane! ci guardano con un occhio timido e implorante come avessero paura di
vivere in un sogno e di vederci sparire per dare il posto alla realtà della loro dura schiavitù. Non
avrei mai voluto chiedere a questa gente conto della vita che avevano fatto in quest’anno di prigionia, giacché il loro
passato io l’ho subito sentito come qualche cosa che non perdona; ma c’è stato qualcuno che ha cominciato a
interrogarle. Le poverine hanno raccontato docilmente le prepotenze, le angherie, le privazioni, le umiliazioni patite.
Ma il ribrezzo e l’odio che suscitavano in noi quei racconti non occorre rinnovarlo oggi che s’è tradotto in vittoria.
Oggi i fatti rendono giustizia, e domani sarà fatto il pareggio. I giorni che preparavano l’offensiva di giugno questi
tangheri andavano a tormentare il cuore di queste poverine parlando loro della conquista di Treviso. Esse, che non
potevano sapere, che dovevano tenersi alle notizie e ai commenti della
Gazzetta del Veneto, sentivano crescere la loro
mortificazione. Ma che gioia quando si venne a sapere che erano stati tutti ributtati al di qua del Piave! Esse ci sono
grate per Treviso, che hanno un grande desiderio di rivedere. Sulle prime parole nella conversazione c’è come un po’ di
stento
perchè si sente che di certi argomenti, per sentirne meno l’angustia, s’erano dovuto fare quasi un obbligo di
dimenticanza; e non se n’aprivano nemmeno fra conoscenti per non incrudire le pene anche degli altri.
Ma ora al calore della simpatia fraterna che noi sappiamo
dimostrare loro, quel gelo si scioglie, le speranze fioriscono, facciamo balenare alla loro anima scorata la possibilità
di rivedere dentro pochi giorni i fratelli, i mariti che sono in patria. Ed io non vedrò mai più uno spettacolo più
grato e commovente di questa rapida riapparizione del passato a loro più caro, riapparizione che fa d’un subito
ringiovanire questi visi, che ridà un’onda più fluente e confidente ai loro discorsi. Se l’Italia aveva qualche colpa
da espiare, il lungo martirio di questa gente è certamente bastato alla espiazione. Ed essa ci fa regalo in questo
momento con un viso tripudiante di questo suo martirio, dimentica il male, ha l’aria di permettere anche a noi, di
chiedere anche a noi di dimenticare.
E invece noi di tutto ci potremo e vorremo dimenticare, fuori di questo: fuori dei segni lividi della fame su visi così
belli, delle rughe su visi così giovani.
Ogni tanto bussavano al portoncino dietro il quale ci eravamo messi a ragionare seduti familiarmente sui gradini delle
scala, come fossimo veramente fra le nostre sorelle e i nostri cognati: erano soldati che mettevano il viso dentro e
chiedevano: «Ci sono austriaci?». Rispondevamo motteggiando. Ma a ciascun colpo vedevo oscurarsi il viso delle donne. «La
notte, hanno detto, passavano così gli arditi germanici e colla mazza ferrata battevano sulle porte per farsi aprire».
(Servizi di M. Altarui; le precedenti puntate sono state pubblicate nei numeri 1, 2 e 5 dello scorso anno)