MEDITAZIONI SUL CINQUANTENARIO |
Dicembre 1968 |
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Da giugno a novembre si sono susseguite in Italia le manifestazioni del Cinquantenario della Vittoria; particolarmente
addensate nella nostra provincia - depositaria di gran parte dei decisivi avvenimenti accaduti nell’ultimo anno di
guerra - le cerimonie son valse indubbiamente a ridestare un po’ di amor patrio e un sincero sentimento di riconoscenza
verso gli artefici del conclusivo nostro Risorgimento.
La ricorrenza ha dato motivo a numerose e lodevoli realizzazioni di utilità pubblica sia morale che funzionale;
monumenti, mostre celebrative, fontane ornamentali, nuove sedi associative, asili, borse di studio, nuovi padiglioni
ospedalieri, strade; e poi tanti discorsi, anche da parte di gente - e per questo furono troppi - che solo in questa
circostanza si è ricordata del sacrificio del Soldato italiano: gente che ieri fingeva di non ricordare, che in
quest’anno è stato per essa utile palesare, che domani dimenticherà e vorrà far scordare anche agli altri.
Io sono stato assente da tutte le cerimonie del Cinquantenario.
Accetto il rimprovero che mi par di udire dai lettori, ma avanzo qualche timida scusa. Io non fui contrario al
Cinquantenario, ed anzi approvo che esso sia durato dal 1965 ad oggi in quanto ogni battaglia, e tutte le vittorie come
anche le poche sconfitte, meritavano di venire ricordate e - nei due casi - festeggiate o ripensate.
Era giusto che ciò avvenisse, ma ho il timore che - specialmente con le celebrazioni di quest’anno - si sia intimamente
voluto liquidare il 4 Novembre e pertanto relegare nell’antiquariato della storia i sacrifici e gli ideali della guerra
combattuta dall’Italia dal 1915 al 1918.
In quest’anno cinquantenario vi è stata esuberanza di belle cose: pensioni, medaglie e cavalierati per i combattenti
superstiti, solenni affermazioni dell’intangibilità dei confini, richiamo ai principi costituzionali con ripetute
sottolineature che «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», ovunque corone e riti per i Caduti, evviva
all’Italia, profusione di presentat’arm, taglio di inaugurali nastri tricolori, alzabandiera un po’ dappertutto; e
ristampe di vecchi libri, e pubblicazioni di nuove testimonianze, e articoli rievocativi su quasi tutti
giornali.
Già dissi che son belle cose: ma domani?
Il prossimo anno (a molti suonerà già male parlare di «51°» della Vittoria), tra cinque e sei anni e così di seguito,
chi si ricorderà di suffragare i Caduti, chi sentirà doveroso onorare i superstiti, chi ammetterà ancora la doverosità
di difendere la Patria? Tra tutti coloro che in questo Cinquantenario han scritto e parlato chi resterà a ripetere che
la Patria è sempre la madre di tutti, che l’unità fraterna dei comuni ideali va proclamata al di sopra di ogni egoismo
di categoria o di fazione? Sostanzialmente chi sentirà ancora operante l’insegnamento che ci giunge dai campi di
battaglia che videro morire i nostri Soldati, dai cieli ove bruciarono i nostri Aviatori, dai mari che racchiusero i
nostri Marinai?
Non è che io voglia attirare il lettore a facili
commozioni: è al concreto che desidero giungere, vale a dire all’esempio che i che i nostri Soldati ci offrirono nella
guerra del 1915-1918, dimostrandoci che quando la Patria è in pericolo bisogna lottare tutti e fino in fondo, senza
misurare i sacrifici.
La riconoscenza non va identificata esclusivamente nell’ampiezza territoriale resa possibile dalla Vittoria. Ce l’hanno
in gran parte sottratta quella conquista, ma il patrimonio morale deve rimanere intangibile; paesi e città si perdono
contro voglia mentre la coscienza nazionale si riduce o si perde per colpa di ognuno di noi.
A nulla sarà valso il Cinquantenario se sotto l’esteriore solennità non sarà migliorata questa coscienza nazionale, che
qualcuno di noi chiama amor patrio e che deve informare ogni atto della nostra vita comunitaria.
*
Le ricorrenze vengono per i vittoriosi ma anche per i
vinti: a tutti capita di perdere qualche volta nella vita.
Ricordo un mio viaggio in Ungheria, poco tempo dopo il tentativo insurrezionale del 1956.
Con un gruppo di altri partecipanti andai in un ristorante tipico alla periferia di Budapest; dalla capitale siamo stati
seguiti (sebbene con discrezione) da un «estraneo».
Tra noi si conversava in veneto e qualcuno ebbe modo di parlare ad alta voce (per superare il suono dell’orchestra) di
Conejan, di Sernaja, di Oderzo. E’ stato allora che un anziano violinista dell’orchestra è sceso tra noi: aveva
combattuto proprio sul Piave, e con un italiano abbastanza comprensibile (nelle scuole ungheresi si studia la nostra
lingua oltre al latino) frammisto a qualche parola veneta ci parlò diffusamente con precisi riferimenti di date e di
luoghi. Dovette ritardare per risalire all’orchestra perché lo trattenemmo a bere e a raccontare; e si ricordi che se
eravamo controllati noi, lui era sicuramente sorvegliato e lo sapeva. Ciononostante il simpatico vecchietto non aveva
esitato a dimostrarci la sua cordialità e, mentre poi continuava a suonare il suo violino, ci guardava costantemente
sorridendo come ad amici ritrovati.
Di monumenti dedicati ai Caduti della prima guerra mondiale, ne ho visti parecchi in Ungheria, anche nei piccoli
villaggi; semplici o maestosi, sono sempre curati con visibile interessamento malgrado le dure vicende, anche attuali,
del popolo magiaro. Sulla base di uno che raffigura un soldato ungherese in assalto alla baionetta con ai piedi un
commilitone morente - sono elencati i luoghi ove caddero 69 combattenti di un paesino situato nei pressi dell’immenso
lago di Balaton: sono luoghi a noi ben noti (che ho trascritto ma che non trovo tra le mie carte, per poterli elencare
tutti) tra i quali ricordo Vidor, Bigolino, Colbertaldo, Mosnigo.
*
Ho prima detto che non ho partecipato ad alcuna
manifestazione; ad una però ho presenziato, ed è stato a Crocetta del Montello dove - con tutta probabilità unico in
Italia - è stato inaugurato un monumento dedicato «alla Madre dei Caduti».
Poi, in una grigia giornata di novembre, ho iniziato con un gruppo di amici la visita ad ossari e a campi di battaglia,
a salutare i miei zii sepolti a Fagarè e a Redipuglia, alla mutilata città di Gorizia alle cui porte mio padre venne
ferito.
Nel Vallone di Doberdò, a cento metri dalla linea di demarcazione, ebbi il privilegio di assistere durante il pranzo -
all’incontro tra un mio compagno di viaggio (già combattente sul Carso e caduto prigioniero) e un ex ufficiale austriaco
che comandava il campo in cui il nostro ufficiale venne rinchiuso, e che rischiosamente gli favorì la fuga fornendolo
(come ad altri) di divisa austriaca e persino di armi.
L’ufficiale austriaco, nato a Pola e di sentimenti sinceramente italiani, si trovò nella ineluttabile circostanza di
dover prestare servizio nell’esercito contrapposto all’Italia, ma servì l’Italia rendendo pesante il meno possibile la
prigionia dei nostri soldati caduti in mano nemica. Erano vent’anni che non si incontravano, ed è stato un avvenimento
che ha commosso più noi che loro: tra loro sembravano commilitoni, fratelli.
Quando gli feci omaggio di due pubblicazioni riguardanti il nostro monte Grappa e le battaglie che portarono alla
vittoria delle nostre armi, l’Italiano che il destino volle vestito da nemico mi ringraziò con le lacrime agli occhi, e
fu allora che io mi resi maggiormente conto del dramma di questo italiano vero: nato irredento, involontariamente armato
contro quella che sentiva essere la sua Patria, e con la terra natìa che continua a rimanere irredenta. Ho sentito che
il perdurante sacrificio di questo «italianissimo nemico» non va disgiunto da quello di Sauro e di Battisti; questi ed
altri han potuto combattere tra le nostre file, ma non a tutti - anche volendo - fu consentito di operare per la Patria
che avevano nel cuore.
*
I ricordi dell’una e dell’altra parte conducono quindi al comune denominatore della fratellanza, nel riconoscimento dei
rispettivi sacrifici e del valore di ognuno. Poiché, in definitiva, gli uomini non vogliono odiarsi tra loro; peccato
che, il più delle volte, ci si accorga solo dopo esserci vicendevolmente sbranati.
M. ALTARUI