NIKOLAJEWKA |
Aprile 1968 |
Un volonteroso collaboratore ha fatto
pervenire alla sezione le notizie relative all’importante raduno svoltosi a Solighetto in occasione del 25° anniversario
dei gloriosi fatti d’arme di Nikolajewka; i dati principali corrispondono a quelli da noi raccolti da altre fonti ma non
eravamo in possesso del testo dell’applaudito discorso tenuto, in tale occasione, dal ten. col. cav. Alberto Piasenti
comandante del Presidio militare di Conegliano e consigliere della nostra sezione.
Ci dispiace quindi di non aver potuto inserire, nella rispettiva cronaca della manifestazione, il testo del discorso del
ten. col. Piasenti e che qui riportiamo ad integrazione di quanto già pubblicato:
Autorità, Signore, Signori, Alpini,
è già il secondo anno che a me compete l’onore di commemorare da questo luogo, le vicende della battaglia di
Nikolajewka. Compito sempre arduo, poiché più profonda, immensa, immane è la tragedia, più le parole sembrano meschine,
fatue, inadeguate, incapaci ad esprimere tanta angoscia, tanto dolore, tanto tormento, tanto spirito e tanta forza.
La battaglia di Nikolajewka è stata il calvario, l’ultima stazione di una umana via crucis, che porta i nomi di: Novo
Kalitwa, Nikitowka, Ivanowka, Krinitschaia, quota 205, quota 166 o quota Cividale, Rossosch, Scoroyeb, Postujali, Opit,
Sceliakino, Waluiki, Nowa Karkowka, ecc; via crucis su cui dominava implacabile la tormenta, il vento del nord, la neve
ed il gelo di 40 gradi sotto zero.
Il Corpo d’ Armata alpino, che aveva sostenuto una lotta impari, tenace e cruenta sulla linea del Don, il giorno 17
gennaio 1943 riceve l’ordine di ritirata, mentre già da giorni i sovietici hanno occupato località che si trovano a
centocinquanta, duecento chilometri sulle sue retrovie trovandosi così completamente aggirato e superato dalle truppe
russe avanzanti e dai mezzi motorizzati sovietici che ormai dilagano irresistibili alle spalle dei nostri soldati.
L’appuntamento per la Tridentina doveva essere e lo fu: Nikolajewka. Per la Cuneense e per i superstiti della Julia,
doveva essere e purtroppo lo fu: Waluiki.
Senza tema di smentita o di esagerare si può ben dire che nessun soldato al mondo sarebbe stato capace non solo di
combattere, avanzare e vincere, ma soltanto di resistere e sopportare le privazioni, i disagi e superare le difficoltà
cui vennero esposti i soldati italiani. L’eterno nemico dell’uomo, il freddo, già alleato dei russi durante la campagna
napoleonica, non mancò certo di agire con tutta la sua inesorabile forza sui nostri soldati. Gli uomini rabbrividiscono
accartocciati su loro stessi per non perdere calore, gli alpini tacciono e stringono i denti, le mani ed i piedi per
resistere al gelo che sembra staccare con infiniti aghi la pelle dal corpo.
Per quante sacche, per quanti ostacoli, per quanti capisaldi avessero costituito i russi per fermare, bloccare,
annullare questa volontà tenace e caparbia dei nostri alpini, la marcia procedeva irresistibile e tutti gli ostacoli
pazientemente preparati dal nemico, venivano frantumati e superati dai nostri alpini che avevano in tal senso
trasformato la loro ritirata, in una avanzata vittoriosa.
Qui l’oratore riporta quanto scrisse Danilo Baietti del 6° Alpini sul giornale «L’Alpino» in merito a questa epica battaglia, ricordando i disperati e ripetuti attacchi contro la città.
E qui si erge alta e sublime la figura del Generale Reverberi che sopra l’ultimo carro armato tedesco, incurante del
fuoco infernale che lo attornia, guida, incita, in testa alla sua Tridentina, con quel grido che è ormai diventato un
grido di leggenda «TRIDENTINA AVANTI».
Non fu lasciato avanzare da solo; i suoi alpini si gettarono avanti seguendo il carro, i battaglioni fecero massa
compatta, il carro sopravanzò trascinando seco il cuore e l’ansito dell’intera divisione.
Quel terrapieno della ferrovia che bisognava a costo di qualsiasi sacrificio superare per procedere all’attacco del
paese ed ove i battaglioni della Tridentina venivano decimati perchè combattevano allo scoperto, divenne l’altare del
loro sacrificio ed il monumento del loro eroismo.
Dopo la battaglia di Nikolajewka, gli alpini rimasti della Tridentina, i pochi superstiti della Julia e della Cuneense,
alcuni reparti tedeschi ed una massa inerme di romeni, ungheresi, poterono con una marcia di altri cinque giorni
raggiungere le nuove linee, e portare verso il tanto sognato ovest, il proprio disperato patire.
Quanti erano? 55.000 circa. Quali le perdite? Tra ufficiali, sottufficiali e soldati; tra morti, feriti, dispersi e
congelati: 43.580 pari all’ 80% circa. Questi sono fatti e numeri che dovrebbero dar da pensare, meditare e riflettere
ai nostri moderni obiettori di coscienza, che avranno tutto, fuorché coscienza e amor di Patria.
Forte fu la delusione di simili eroi al rientro in Patria, delusione che ebbe il suo acme alla fermata del Brennero, ove
mentre molti si inginocchiavano per toccare e baciare con le labbra ancora spaccate dal gelo della steppa, la terra d’
Italia, si videro obbligati a rientrare nei loro scompartimenti incitati da una voce che urlava: «Che Alpini e non
Alpini, non vi accorgete si o no che fate schifo?».
Essi soli, loro solo, umili e prodi alpini, sono riusciti a strappare il grido di ammirazione e il riconoscimento del
Comando Supremo Russo, che nel suo bollettino n. 630, precisava che: «Soltanto il Corpo d’Armata Alpino deve
considerarsi imbattuto sul suolo di Russia».
Alpini, insegnate alle nuove generazioni il rispetto verso chi porta la penna nera, poiché in ciascuno di essi batte un
cuore ed arde una fiamma che è lo stesso cuore e la stessa fiamma che ha sostenuto la fede dei martiri di Russia; fede
che si chiama AMOR DI PATRIA.