ALPINI SUL MONTE MARRONE |
Giugno 1969 |
Nell’ultimo conflitto quando la V Armata americana e la
VIII Armata britannica furono inchiodate sul territorio italiano dinanzi a Montecassino il Comando alleato riconobbe
l’importanza delle truppe alpine. Operare sulle montagne presentava enormi difficoltà senza l’ausilio di forze idonee ad
affrontare quel particolarissimo tipo di guerra. Si spiega anche così l’alto prezzo di vite umane pagate per espugnare
le posizioni tenute dalla Werhmacht.
All’imponente spiegamento di mezzi aerei, di artiglierie e di carri corazzati non corrisposero adeguati risultati in
quanto doveva toccare all’elemento uomo superare le alte e medie cime per snidare il nemico. Prima dell’occupazione
dell’Italia meridionale gli alleati avevano manovrato sulle pianure libiche-egiziano dove l’aeronautica come pure i
carri armati, punta di diamante del loro immenso e attrezzato schieramento, avevano avuto buon gioco contro le divisioni
nemiche. Ma sulla tormentata orografia appenninica gli «Shermann» e i «Patton» si rivelarono più d’impaccio che
d’utilità ammesso sempre che fossero riusciti in qualche modo ad operare. Quindi le sfortunate fanterie alleate,
nonostante l’appoggio dell’aviazione, si trovarono costrette a superare una situazione per loro del tutto nuova, irta di
enormi difficoltà rese maggiori dall’abilità e capacità militare spiegate dalle armate tedesche dirette da quel fine e
abile stratega che era il feldmaresciallo Albert Kesselring.
Vi lasciamo quindi immaginare che cosa accadde la mattina del 31 marzo 1944 quando sulla cima di Monte Marrone sventolò
la bandiera tricolore issata dal Battaglione alpino Piemonte. Gli alleati rimasero letteralmente di stucco. Non era
possibile che un pugno di «poveretti» in grigioverde, piuttosto male in arnese, fossero riusciti ad impossessarsi d’una
vetta ritenuta imprendibile. Ma più stupefacente ancora era il fatto che quegli uomini non avevano riportato alcuna
perdita dopo aver letteralmente annientato il presidio tedesco.
Tanta fu l’ammirazione e la sorpresa che da quel momento in poi il Comando alleato decise che il «Primo Reggimento
motorizzato», che già aveva preso parte alla battaglia di Montecassino, assumesse il nome di «Corpo italiano di
liberazione».
Meno meravigliati di tutti furono proprio gli alpini che ricordarono ai commilitoni alleati come essi in definitiva non
facessero che ricalcate le tradizioni di quelle «penne nere» che avevano scritto pagine di gloria sul Monte Nero,
sull’Adamello, sulle Tofane, sul monte Fior-Castelgoberto, sull’Ortigara, sull’Amba Aradam, sull’Amba Alagi, sul Mai
Ceu, sui monti della Grecia e nella steppa russa.
E’ inutile inoltre ricordare lo sgomento dei tedeschi che ci tenevano al possesso di Monte Marrone, nell’alto Volturno,
in quanto rappresentava sia un ottimo osservatorio, sia la posizione ideale per minacciare la strada di arroccamento che
in senso equatoriale collega l’Adriatico al Tirreno. Essi erano convinti che nessuno avesse osato attaccarli
frontalmente ritenendo inaccessibile la montagna.
Poi l’altra convinzione errata si basava sul fatto che dei «mercenari» - così consideravano i soldati del Corpo italiano
di liberazione - non si sarebbero esposti al pericolo di un totale annientamento . Ignoravano purtroppo che quei
«mercenari» avevano sul cappello la penna nera e nel cuore tanta audacia e tale sprezzo del pericolo da far impallidire
il più protervo e agguerrito degli avversari.
Alla chetichella, poco per volta, nel silenzio più completo, gli alpini la notte del 30 marzo si portarono ai piedi di
Monte Marrone. E Cominciarono la scalata. All’alba erano già sulla cresta. Risveglio amaro per i difensori: spazzati via
come se su di loro fosse piombata la valanga. Più tardi lanciarono una violenta controffensiva: respinti con gravi
perdite. Altro tentativo il 2, il 3 e il 10 aprile, altra durissima legnata.
Su Monte Marrone garriva ormai la bandiera tricolore: un lembo d’Italia strappato al nemico di sempre, testimonianza di
fedeltà agli ideali di un amor patrio continuamente vivo negli eroici eredi del generale Antonio Cantore.
Ignazio Paternò
(da «Liguria Scarpona»)