DE MARCH E BORDET |
Aprile 1970 |
Il 1969 è stato per me un anno estremamente vigliacco.
E’ l’anno in cui, improvvisamente ed imprevedibilmente, ho perduto la mamma mia. Di lei non mi riesce di scrivere; basti
qui dire che - unitamente a mio padre - mi fu prima maestra di amor patrio insegnandomi, anche nelle prime delusioni che
pure la naja arreca, che l’unica vera gioia è data dall’adempimento del proprio dovere.
Il 1969 s’è portato via altre persone a me care: apprezzati colleghi di lavoro, amici e conoscenti, non poche Penne nere
e tra queste due veci che sempre serberò tra i ricordi più cari: il cav. Angelo De March e il cav. Giovanni Cesare
Bordet.
L’uno e l’altro sono quasi sicuramente sconosciuti ai lettori di Fiamme Verdi. Anch’io li ho incontrati una volta sola
ma è stata una perdurante fortuna.
*
Angelo De March era della classe 1889 e risiedeva a Somma Lombardo: un vecchio stupendo e un alpino meraviglioso.
Lo conobbi in treno nel settembre del 1953, entrambi diretti alla adunata nazionale di Cortina; anzi, lui era col figlio
Guerrino - pure alpino - col quale parlava sulla possibilità di trovare alloggio nell’ormai satura località ampezzana:
eventualità assai improbabile per la quale il buon vecio non dava segno di preoccuparsi troppo, e tranquillizzava il
figlio sulla soluzione di trascorrere la notte anche senza il letto: a 65 anni e con il già notevole freddo che c’è a
Cortina a settembre inoltrato. Affatto preoccupato, era evidentemente felice di passare per il natìo Cadore e di poter
vivere una nuova adunata alpina; ogni sacrificio gli appariva trascurabile.
La nostra amicizia è nata così, con spontaneità e semplicità alpine.
Come spesso avviene, ci scambiammo l’indirizzo e il reciproco augurio di ritrovarci alle adunate nazionali. Quando la
ricorrente data annualmente si approssimava ero certo di ricevere una affettuosa lettera o cartolina del caro De March:
«Spero tanto di incontrarti; io sarò con gli alpini di Varese» e così via, con una dolce insistenza che mi inteneriva.
Lui puntualmente andava all’adunata; io quasi puntualmente non vi andavo: perchè avevo da lavorare o più sinceramente
perchè mi scocciava il viaggio che la sede dell’adunata imponeva e magari per la probabile scomodità dell’alloggiamento.
Le poche volte che fui presente alle adunate nazionali non riuscii ad incontrare il buon vecio De March. Lo vedevo però
quasi sempre alla televisione poiché egli non sfuggiva all’obiettivo dell’operatore; ve l’ho detto prima, senza
esagerare, che era un alpino meraviglioso. Aveva due baffi monumentali che continuavano attraverso le gote come due
bianche ali vaporose; sul petto portava non meno di tre medaglie al valore e l’insegna di una promozione per merito di
guerra, e poi un’altra spanna di croci di guerra e di medaglie; il suo amato cappello con i gradi di aiutante di
battaglia, l’immancabile distintivo dell’Associazione; e soprattutto quel suo sorriso di vecchio buono e saggio, mite e
fiero nello stesso tempo.
Col passare degli anni le sue cartoline e i vaglia di abbonamento che inviava per Fiamme Verdi denotavano la crescente
stanchezza del caro vecio che affettuosamente si firmava «il tuo nonno alpino Angelo De March» e mi scriveva: sono
sempre più vecchio, sono mezzo orbo, le gambe fanno sempre più fatica a portarmi; ma - mi raccomando - vieni alla
prossima adunata perchè temo che per me sia veramente l’ultima.
Di ultime adunate De March ne ebbe ancora qualcuna, ma io non lo potei abbracciare e nemmeno lo vidi alla televisione. A
quelli della Rai non interessava più l’ammirevole vecio sempre presente in testa alla sua Sezione; badavano ad
intervistare qualche alpino balordo (come per l’adunata di Roma; e lo dico anche se c’è sufficiente amicizia tra me e
l’intervistatore televisivo) per farsi dire - soltanto, quasi fosse l’unico motivo di un raduno nazionale - quanti litri
di vino aveva ficcato giù per il gozzo.
Di Angelo De March - mio indimenticabile «nonno alpino» - ritrovo di tanto in tanto, tra le pagine dei libri e le mie
tante carte alpine, una sua cartolina o un biglietto che rileggo con immutata commozione; perchè, sebbene un po’
disordinatamente, nulla ho buttato via di quella cara corrispondenza. Come un po’ negligente è stata in passato questa
mia amicizia che sento però continuata e per me costantemente benefica.
*
Anche il cav. Giovanni Cesare Bordet lo incontrai una sola volta; classe 1891, combattente col Battaglione Aosta, era
direttore sin dalla fondazione de «Lo Scarpone Canavesano» della Sezione di Ivrea. Ci incontrammo a Torino nel dicembre
del 1955, al 1° Convegno della stampa alpina al quale partecipai in qualità di direttore di Fameja Alpina della Sezione
di Treviso.
Non ricordo se, oltre al saluto, ci siamo scambiati qualche parola; Bordet non aveva voluto mancare ma era malandato e
tutto imbacuccato, con gli occhi vivaci e forse febbricitanti che sbucavano al di sopra della sciarpa. Aveva preparato
il suo diligente intervento scritto ma lo dovette leggere l’avv. Petitti.
Quello lì, mi son detto, ci lascia le penne prima del prossimo convegno della stampa.
Invece la penna del cappello di Bordet continuava a farsi vedere alla adunate; e la sua penna col pennino continuava a
riempire le colonne dello «Scarpone Canavesano» il quale continuava a giungere anche in Sezione con puntualità
esemplare.
Ecco cosa mi ha insegnato Giovanni Cesare Bordet: a non mollare fin che c’è fiato; e questo - più che col contenuto dei
suoi articoli, peraltro interessanti e pregevoli - continuava a dirmelo con la prova della sua costante presenza per
oltre vent’anni alla responsabile direzione del suo giornale; fino a che la morte non gli si è parata dinanzi a
fiaccargli la penna del cappello e a spezzargli la penna biro.
*
Ho voluto ricordare De March e Bordet ai lettori perchè non è solo personale merito se la mia opera continua ed ottiene
un risultato (che appare sufficiente, in quanto non mi cacciano via), ma è in buona parte effetto dell’incoraggiamento
che mi è venuto anche da questi due nobilissimi esempi di indefettibile attaccamento all’ Associazione.
M. ALTARUI