LIBRI


Giugno 1972

2 + 2. Non è la sintesi numerica di una breve licenza con l’aggiunta del viaggio; sono i ben dedicati due giorni che mi sono riservato per ciascuno dei libri usciti in questa freddolosa primavera, opera di alpini e che riguardano noi alpini.
Il tema non appare nuovo (viene anche detto, nella prefazione del primo, dal Gen. Faldella) ma è pur sempre nuovo perchè attinge da quell’infinita vicenda - insieme gloriosa e sconvolgente - che è stata la guerra di Russia.
Il tempo che ho potuto dedicare alle due pubblicazioni è troppo breve per consentirmi di parlarne con la meritata ampiezza; i ricordi che esse riportano sono tanto avvincenti che la lettura si fa via via affrettata - accavallando conseguentemente taluni pregevolissimi particolari descrittivi che imporrebbero delle pause meditative - e ciò per la fretta istintiva che assale ogni lettore sensibile nel voler accertare il favorevole esita delle susseguenti azioni, il superamento delle riportate difficili circostanze. Quasi sorgesse il dubbio che gli Autori-testimoni, pur vivi, non fossero riusciti a sopravvivere.
Commento incompleto è questo, ma convinto per raccomandare la lettura di questi due libri che io rileggerò, e che pure voi rileggerete più di una volta.

LA «JULIA» MUORE SUL POSTO - di Mario Tognato - Tipografia Euganea di Este.
Il libro - la cui realizzazione, nel Centenario delle Truppe Alpine, è merito lodevolissimo della Sezione di Padova dell’ ANA - prende il titolo dal testo di un telegramma che sarebbe pervenuto alla «Julia» con l’ordine appunto, di morire sullo schieramento del Don. Uno sconsiderato messaggio del genere la Julia lo ha sicuramente ricevuto in Grecia il 19 dicembre 1940, e non stupisce quindi se alla valorosa Divisione è stato chiesto di morire ancora una volta.
Mario Tognato - autore del precedente libro «L’inverno di venti mesi» nella sua nuova opera ha dimostrato che la «Juli», come le altre divisioni alpine, non abbisognava di ordini idioti per sacrificarsi sull’affidata trincea, in quanto il senso del dovere le Penne nere lo apprendono e lo accettano solo dai propri comandanti - che pure rischiano la vita in linea - e semmai lo insegnano a chi si limita e spedire telegrammi.
La narrazione dell’ Avv. Tognato è principalmente riferita al reparto da lui comandato sul Don: il primo plotone della 265a del «Val Cismon»: sono suoi anche i disegni che, facendo scivolare le pagine dal pollice, possono sembrare inespressivi mentre risultano validissimi nel corso della lettura.
La rievocazione si estende dalla partenza, il 15 agosto 1942, da Aidussina fino agli avamposti su Don e la prima continua fase di snervante vigilanza e i frequenti ravvicinati contatti con l’avversano. Viaggio e circostanze sono illustrati con una diligente ed attenta descrizione che porta il lettore a sentirsi intimamente partecipe dei fatti, quasi venisse arruolato - almeno per tutta la durata del libro - in quel primo ardito plotone fucilieri della 265°.
Quando poi gli avvenimenti si fanno più gravi ed incalzanti, la parole di Tognato risultano di una efficacia immediata con un ordine descrittivo meticoloso - pur nella celerità narrativa - che nulla lascia sfuggire del drammatico evolversi di ogni pur minima operazione,
Anche quando l’Autore si sofferma sui superiori (stupende le tre pagine dedicate al capitano Valenti comandante del Val Cismon e che viene anche altrove più volte citato) o sui colleghi e i suoi alpini, le parole sono sempre equilibrate, asciutte, sincere, probanti il valore ancor meglio di motivazioni per ricompense che, chissà, forse nemmeno sono state concesse.
Con semplicità egli parla del valore dei graduati di truppa - Zanella, Girardi, Zavarise, Taverna, per accennare a pochi - come con lineare ed affettuosa naturalezza egli parla di Bepi Toigo - medaglia d’oro della sua compagnia - di Angelo Ziliotto (nostra medaglia d’oro trevigiana, da pochi
deceduto), e degli altri valorosi del Val Cismon che meritarono il medesimo riconoscimento: i Caduti capitano Bertolotti e i sottotenenti Gamba e Cantele; e chi la medaglia d’oro la meritò con oltre dieci anni di durissima prigionia e cioè don Giovanni Brevi, il cappellano del battaglione,
Anche quando rievoca il proprio ferimento e le tormentate fasi per il suo invio a linee più arretrate Tognato non rivela che l’essenziale nell’evidente finalità, assai degnamente conseguita, di
aggiungere una palpitante testimonianza al valore dei suoi alpini, del battaglione della «Julia» morta sul posto per dovere sentito e non imposto.

LA RIVOLTA DI ABELE - di Giulio Bedeschi - Rizzoli Editore, Milano.
Dopo «Centomila gavette di ghiaccio» e «Il peso dello zaino» è ora uscito - di G. Bedeschi - il romanzo «La rivolta di Abele».
Romanzo-verità poiché, anche per quest’opera, l’autore si avvale di tale forma letteraria per costruire liberamente - ma ancorato a verità comprovate - un racconto che di inventato non ha nemmeno i nomi dei protagonisti in quanto egli si limita a lievemente modificarli con l’evidente scopo di far capire che come quelli tanti altri furono gli eroi, che come gli accennati morti molti altri furono spaventosamente stroncati, e le considerazioni sulle sofferenze - trascorse dai superstiti ricordati nel libro - vanno estese a tutti coloro che conobbero il penoso ritorno.
Il racconto concerne principalmente superstiti, sulle condizioni fisiche e morali - spesso condizionanti – che caratterizzano il loro ritorno, sull’evolversi della loro nuova esistenza, sul loro sforzo di offrire, sofferenze trascorse e residue energie, a riedificare un mondo che, in forza dell’esperienza da questi vissuta, dovrebbe essere migliore e che invece rivela sintomi di una precaria stabilità e di preoccupanti lesioni.
Il racconto - che si snoda prendendo lo spunto dalla ricerca di uno sconosciuto alpino al quale un superstite ha voluto riservare una tangibile riconoscenza - offre ripetuti motivi di rievocazioni di fatti e circostanze che vengono presentati con una incisività narrativa che raggiunge gli elevati vertici delle migliori pagine di Centomila gavette di ghiaccio.
Come prima si disse, ai cognomi è stata fatta subire qualche variante, dei protagonisti viene talvolta indicato solo il nome, ma per molti lettori è facile l’identificazione anche perché ne sono note le vicende. Bedeschi fa seguire, attraverso personaggi lipidi, le insorte e talvolta gravi delusioni familiari e professionali prevalentemente derivate dall’imperversante insensibilità nazionale e sociale.
Ed è per questo che la figura di Abele viene dall’autore riscontrata in questi combattenti delusi e nei loro figli; gli uni e gli altri ricondotti alla straziante ed incolpevole situazione della prima vittima umana che la storia biblica ricorda.
Sui giovani è principalmente basata la disamina di Bedeschi - che è medico ed aduso, pertanto, ad intimamente vagliare anche l’animo dell’uomo – ma l’esemplificazione pur ampia degli sconcertanti atteggiamenti giovanili. Individuali e di gruppo, non gli fa pronunciare amare condanne ma esprimere un turbamento non disgiunto da un incoraggiante augurio: turbamento per questa gioventù che si illude di essere libera mentre è invece soggetta a catene ideologiche distruttive; ed auspicio infine che una benefica ribellione - la rivolta di Abele - si abbia a verificare per una costruttiva liberazione dello spirito.
Taluni definiscono la nuova opera di Bedeschi «un libro di morti». E’ invece un libro che parla di un popolo minacciato di morte - non solo fisica - ma che la morte respinge. Ne sono di incoraggiante esempio i diversi citati casi di giovani impegnati nello studio e nel lavoro, spesso nell’uno e nell’altro insieme. E sono giovani cresciuti nella sofferenza come i padri, per la costante fortezza e laboriosità dei padri, con gli uguali basilari ideali - semplici ma fondamentali - che hanno informato la giovinezza, più difficile e sfortunata, dei padri.
L’ultimo capitolo è ambientato nell’adunata nazionale degli alpini a Treviso, e si conclude con sentimenti di speranza. E le nostre adunate non hanno infatti, quale comprimaria con le glorie alpine, la speranza di un miglior divenire ?

M. Altarui