ENRICO REGINATO |
Giugno 1990 |
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Discreto, riservato, affabile e distinto. Questo era il generale Enrico Reginato, l’uomo che alpini e non alpini continueranno a ricordare.
Allo stesso modo, cui si aggiungono la generosità e l’abnegazione, sono più di una motivazione d'onorificenza, che ne perpetuerà la memoria del valoroso combattente, ben degno della medaglia d’oro su cui è scritto tutto il dramma dei dodici anni di prigionia in Russia. Egli ci ha lasciati all’età di 77 anni.
Le esequie funebri sono state celebrate nella chiesa di S. Nicolò di Treviso, dopo che la bara posta sull’affusto di un cannone, avvolta dal tricolore, accompagnata dagli alpini della Brigata “Tridentina” e da una folla silenziosa, ha attraversato il centro della Città. Nessuno ha voluto mancare. Dalle autorità civili, con in testa il sindaco di Treviso Vittorio Pavan, a quelle militari, con la folta rappresentanza di generali, — tra cui i generali Pizzo, comandante il 4. Corpo d’Annata Alpino, Spinelli, Bolchi, Bettin, Tonel, e numerosi Alpini che condivisero la durissima esperienza di Russia; le infermiere volontarie della Cri; inoltre il labaro nazionale dell’A.N.A., quello dell’associazione “Nastro Azzurro”, uno stuolo di bandiere, vessilli, gagliardetti. Un degno estremo saluto portato da quasi tremila persone che hanno reso omaggio all’àntropo, al medico, al Reduce di Russia.
La semplice e commovente cerimonia religiosa ha avuto il momento più toccante nell’omelia della medaglia d’oro don
Emilio Franzoni. Il cappellano militare, che visse a fianco di Reginato le prove durissime della prigionia, ha tracciato
un ritratto d’epoca umano ed eroico dello scomparso.
E’ ritornato vivo, per qualche istante, il Reginato che operava con una lametta gli arti congelati dei compagni, che
faceva l’impossibile senza medicine per gli italiani, tedeschi, francesi, spagnoli e danesi. “Che non portò mai macchia
alla sua divisa di fronte a provocazioni o lusinghe in dodici anni d’internamento”, ha detto don Franzoni.
“Certo non raccontò mai tutto quel che aveva visto: troppi orrori che genitori e congiunti dei caduti è stato meglio non
abbiano saputo”.
La M.O. Reginato fu insignito anche della Croce al merito da parte della Germania Federale per quanto fece per i
prigionieri tedeschi. Ne esce una personalità in cui umanità ed altruismo costituiscono gli elementi più spiccati.
Noi abbiamo avuto l’onore e la gioia di stare spesso in Sua compagnia, e quanto abbiamo scritto di Lui, non è
assolutamente esagerazione, ma una attestazione doverosa ed affettuosa.
Ne possono andar fieri i familiari.
Arrivederci dottor Enrico, caro amico "!
r.b.
ENRICO REGINATO |
Dicembre 1990 |
L’ALPINO
L’ho visto la prima volta nel lontano 1941 alla Scuola d’Alpinismo di Aosta ove ero giunto per frequentare il Corso
Allievi Ufficiali. Era tenente medico in forza ad uno dei più bei battaglioni alpini acquartierato nella stessa caserma,
formato dalla scrematura di tutti e dieci reggimenti, tutti buoni sciatori, rocciatori, autentici atleti. Dati i tempi,
avevano un equipaggiamento straordinario: scarponi wibran, giubbotto di pelliccia, tuta candida come la neve. Così mi si
parò dinnanzi il tenente Reginato, venuto a salutare, tra i nuovi arrivati i Trevisani. Ciao burgo. Odo a la pena! -
Disse accennando un breve gesto.
Mi restarono impressi i suoi occhi sereni come quelli di un fanciullo e il tono di quelle sue parole per me non ancora
del tutto comprensibili. Ho imparato in seguito che per indicare gli alpini caduti si era soliti chiamarli penne mozze.
Lo rividi un altro paio di volte mentre attraversava il cortile.
Seppi che tra una pausa e l’altra del servizio, se ne andava perle montagne unitamente ad un piccolo gruppo di guide valdostane.
Lo vidi l’ultima volta in coda al battaglione mentre rientrava da un’esercitazione. Avevamo anche noi incominciato a
“pestar neve” e ritengo che ci avessero condotti espressamente da quelle parti per farci capire il divario esistente tra
noi e quegli alpini. Incuranti del peso dello zaino affardellato, del fucile, del mitragliatore, dei vari pezzi della
mitragliatrice pesante e del mortaio, scivolavano lungo il ripido pendio che da Pila scendeva fino all’abitato della
città di Aosta.
Era uno spettacolo straordinario. Nello stupefatto silenzio, si percepiva appena il fruscio degli sci. La lunga fila
indiana si snodava con la morbida sinuosità d’un serpente gigantesco. Al suo posto di ufficiale medico, chiudeva la fila
il ten. Enrico Reginato.
IL MEDICO
Dopo pochi giorni, il battaglione parti per il Fronte Russo e finì disfatto nell’immensa, piatta vastità d’un territorio
privo di echi e di orizzonti.
Cominciava così l’odissea di Reginato e dei suoi Alpini. Fatto prigioniero, ebbe a subire una pesante condanna come
“criminale di guerra”.
Lo si accusava di “aver requisito gli strumenti chirurgici di un ospedale civile russo, aver ordinato lo sgombero d’un
asilo infantile, aver accompagnato un gruppo di civili russi destinati all’esecuzione. Reginato negò gli addebiti che
comunque non sarebbero bastati a qualificarlo criminale. Nonostante le testimonianze positive d’un gruppo di medici di
Kew, fu condannato a vent’anni di lavori forzati.
Eppure aveva fatto semplicemente il suo dovere di medico il cui ruolo primario è quello di assistere, curare, alleviare
la sofferenza del malato. Scarsi
mezzi e moltissimi i malati. E lui, infaticabile in quelle impossibili condizioni, curò il tifo, la dissenteria, la tbc,
operò con mezzi primordiali: lamette forbici, seghe da fabbro.
Le vivaci proteste perché non fosse lasciato in quelle condizioni, sortirono l’effetto opposto fu intimidito,
imprigionato e condannato.
L’UOMO
Fu tentato nei suoi riguardi una specie d’indottrinamento che egli respinse. Fu così che ebbe inizio il suo errare da un
campo di concentramento all’altro all’interno dell’immenso territorio russo. La storia drammatica di questa terribile
esperienza ce l’ha raccontata nel suo libro: “Dodici anni di prigionia in Russia”. La durezza del trattamento
s’accompagnava talora alle insinuazioni della propaganda. Soffriva e teneva duro. Non voleva, non poteva venir meno alla
sua dignità di uomo. Perchè questo, in ultima analisi, era il principio più importante che voleva difendere. Per esso,
si sentì di sacrificare la salute e la libertà fisica.
Finalmente; dopo dodici anni di prigionia, poté far ritorno alla sua Treviso e riabbracciare la sua adorata mamma; Ida
Pietrobon, divenuta il simbolo di tutte le madri che continuavano ad aspettare i figli dei quali poco o nulla sapevano.
Si è spenta nel 1983 a 109 anni. Anche noi pubblichiamo la foto che la vede abbracciata al figlio appena tornato. A
qualcuno sembrerà una desueta espressione patetica. A guardar bene, ripensando alla grande forza d’animo e al coraggio
mai ficcato in quegli interminabili anni, palesato da entrambi, ciascuno dalla sua sponda, essa rivela lo sconfinato
amore, che vicende, tempo e lontananze non sono in grado di distruggere.
Lino T. Gobbato