LETTERE IN REDAZIONE


Dicembre 1992

Caro Direttore,
come prassi giornalistica e cordialità alpina, chiedo ospitalità di questo mio scritto sul vostro bellissimo e interessante giornale sezionale, che vuole essere la risposta all’articolo del giugno scorso a pagina 17 a firma di Antonio Possamai, articolo dal titolo: «Nikolajewka e la riflessione di un Capogruppo».
Ebbene, tra. le altre cose si legge: «Purtroppo alcuni giovani (a quanto mi risulta sono molti) ritengono che le cerimonie e i raduni sappiano ormai di nostalgia e privi di significato, per cui sarebbe meglio dimenticare certi avvenimenti dopo 50 anni».
Si dice che i raduni domenicali si svolgono per ricordare ed onorare i Caduti. Non è certo esaltando gagliardetti e vessilli o esibendo medaglie, che si onorano i Caduti, anche perché tali raduni si concludono con pranzi, canti e balli.
Ora tutto questo non è un controsenso? Ricordare ed onorare i nostri Caduti, vuol dire invece fermarsi davanti ad un Monumento togliersi il cappello e offrire loro una preghiera.
Nell’articolo si legge ancora. «Se simili cerimonie e raduni possono ridestare sentimenti e nostalgia, essi ben vengano con la speranza che possano servire ad una riflessione di tutti coloro che non hanno provato sulla loro pelle le atrocità della guerra».
I giovani d’oggi sono in possesso di una certa cultura ed hanno un’altra mentalità e cioè non condividono la troppa obbedienza, faciloneria dei loro padri (compreso lo scrivente) che sono partiti per Albania, Grecia e Russia senza sapere perché ci andavano e sono morti a migliaia.
Ho letto che negli Stati Uniti d’America (che hanno vinto la guerra) si svolge ogni cinque anni una sfilata dei combattenti, in testa a quella massa di uomini la bandiera stellata e tutti i reduci la seguono in silenzio: ciò a voler significare non esaltazione né nostalgia di quel passato di guerra, ma solamente per onorare i loro Caduti.
Perchè non ci comportiamo anche noi nella stessa maniera?
Cordiali saluti da
Albino Porro A.N.A. di Asti reduce dal fronte di Albania e di Russia


Caro Dott. Antoniazzi,
vorrei ringraziare gli Alpini di Mareno di Piave che sabato 16 e domenica 17 erano accantonati qui a Milano in Piazza Libia.
hanno reso felice il mio Papà, il capitano Alberto Bianchi, della Julia, venendolo a salutare molto affettuosamente sotto la sua finestra. Il Papà ha 81 anni, e ormai da 5 mesi è a letto semiparalizzato, grazie a Voi Alpini ha potuto godere un po’ dell’atmosfera dell'Adunata, a cui non ha potuto partecipare.
Grazie a Voi si è rimesso il cappello, e dal balcone vi ha salutato con grande affetto, ha poi voluto esporre il tricolore. Le parole in questi casi non sono mai sufficienti, ma grazie anche a nome della Mamma, di mia sorella. dei nostri mariti e dei nostri quattro figli.
Grazie ancora
Bona Bianchi Potenza


Alcune volte mi pongo la domanda se noi alpini nei nostri interventi e nella carta stampata pecchiamo di presunzione e di immodestia.
Mi chiedo se è vero che ci riteniamo i migliori assertori ed operatori nel campo socio-umanitario.
Non sempre riesco a convincermi che sia così; anche perché ritengo un dovere di ognuno - tempo e salute permettendo - offrire la propria disponibilità là dove c’è da fare del bene per la comunità, prescindendo dal fatto di essere o non essere alpino.
Poi mi accorgo, che le più belle testimonianze dell’operato degli alpini vengono dalla gente comune, la quale ci riconosce lo straordinario spirito di aggregazione e di solidarietà.
Quindi, pur convenendo che siamo uomini come tutti, effettivamente prevale quell’ identità, quell’ idealità che sono parte integrale di un “modus vitae” degli alpini.
Anche la riportata lettera della signora Bianchi di Milano, indirizzata al capogruppo di Mareno di Piave dott. Ferdinando Antoniazzi, è un semplice esempio, è un piccolo tassello posto sul mosaico della disponibilità alpina e questo incoraggia.
Il Direttore