ROSSOSCH |
Dicembre 1992 |
Gli alpini hanno in progetto la costruzione di un asilo per ospitare 120 bambini in terra di Russia e precisamente a
Rossosch, a ricordo dei nostri soldati che da quel suolo non sono più tornati.
Faccio domanda per andare ad offrire la mia opera: vengo assegnato ali primo turno, — senza dubbio il più impegnativo -
con altri 34 amici alpini.
Il consigliere nazionale Lino Chies vorrebbe accompagnarmi a Bergamo per la partenza, ma essendo impossibilitato per
impegni di lavoro, mi fa accompagnare dagli amici alpini Giuseppe Bottega (sempre molto disponibile e il futuro «penna
nera» Cristian Battistella (partirà quattro giorni dopo per il CAR di Codroipo), i quali ringrazio.
Alle ore 18 del 5 giugno eravamo al Patronato s. Vincenzo per il pernottamento e per ricevere le istruzioni dei viaggio
e del lavoro da svolgere.
Il mattino del giorno 6 un’autocorriera ci porta all’aeroporto di Orio. Il tempo è pessimo, piove. Radunati nella sala
d’attesa ci presentiamo, ci scambiamo qualche parola; proveniamo dall’Italia settentrionale, soprattutto dalla Lombardia
e dal Veneto. Prima di imbarcarci sull’aereo militare C/130, arriva il presidente nazionale dott. Nardo Caprioli, il
quale, salutandoci e incoraggiandoci, ci ricorda che dobbiamo portare in Russia l’immagine dell’Italia genuina e sana e
non quella che troppo spesso appare sui giornali.
Molti del nostro gruppo non hanno mai volato, e si nota l’emozione: le orecchie sono tappate perché all’interno c’è un
rumore assordante; siamo tutti coperti ed incappucciati. All’interno fa molto freddo, allacciati alle cinture seguiamo
solo con lo sguardo le indicazioni dei piloti.
Arrivati a Mosca, dopo sette ore di volo, il medico del nostro gruppo Ugolini e l’interprete signora Alessandra ci
aiutano molto nelle varie operazioni doganali, le quali si presentano lunghe e noiose (loro avevano fatto esperienza
durante il viaggio in Armenia). Successivamente, saliti in autocorriera, visitiamo per cinque ore la città. informati da
una guida locale. Dopo aver pernottato a Mosca, il mattino seguente ci portiamo all’aeroporto per l’ultimo scalo a
Voronez, quindi in autocorriera ci conducono - dopo un viaggio di 260 km. — a Rossosch; giungiamo in cantiere alle ore
16 di domenica. Il tempo è fortunatamente bello e fa caldo.
Vi troviamo i capi-cantiere: Franchi e Giupponi. Vengono formate le squadre di lavoro; dobbiamo dormire in uno
scantinato non ancora coperto. Ognuno di noi prende la propria brandina e due coperte, e velocemente sistema il proprio
ricovero con tavole e chiodi. L’elettricista provvede all’impianto della corrente, l’idraulico a quello dell’acqua; il
medico ad organizzare il suo ambulatorio; i muratori ci danno dentro a chiudere le fessure, mentre altri provvedono a
sistemare i servizi e i lavabi. Il cuoco con i suoi collaboratori mette in ordine la dispensa e la cucina e alle ore 20
tutto è pronto per il rancio serale.
Il lunedì di buonora la sveglia, alza bandiera, piccola colazione e alle ore 7 tutto si muove: betoniere, le carriole,
senza sosta. Ognuno di noi si sposta senza indugio, portando a termine i compiti assegnatigli con allegria, osservati
curiosamente dai ragazzi dei paese. Sosta di un’ora per consumare il rancio, preparato con maestria dal nostro cuoco
Luigi, il quale sapeva arrangiarsi con quel poco che si poteva reperire. Si lavora fino alle 18, e si osserva con
soddisfazione i tanti mattoni posti uno sopra l’altro. Dopo l’ammaina bandiera, la cena, quindi il sospirato riposo.
Alla sera qualcuno scrive cartoline, altri leggono, altri ancora fanno due passi. Nelle vicinanze non ci sono né bar, né
osterie, né ristoranti, solo pochi ragazzi che ti offrono per qualche dollaro dei ricordi. Il terzo giorno arriva il
presidente Nazionale Nardo Caprioli, accompagnato da alcuni dirigenti, tra cui Bonetti, Sarti, Moroni, Staich, giunti a
Rossosch particolarmente per la cerimonia della posa della prima pietra. Viene interrata una pergamena sigillata il cui
contenuto è immensamente significativo: "Gli Alpini d’Italia nei ricordo delle comuni sofferenze, dedicano ai bambini
di Rossosch, quale illuminante segno di amicizia e di amore, questa casa da cui possa in ogni momento irradiare il
sorriso dell’innocenza, auspicando per tutti i popoli un futuro di serenità e di pace".
Alla presenza del sindaco di Rossosch l.M. Ivanov e del vicesindaco signora T.P. Jakusceva, e il prof. Morozov, Caprioli
si complimenta con tutti noi per la celerità e la perizia nello svolgere l’impegnativo, lavoro.
Ogni giorno riceviamo visite di compatrioti, i quali, a conoscenza della sorgente opera degli Alpini, memori delle
tragiche vicende che hanno coinvolto i nostri soldati cinquant’anni fa, non vogliono dimenticarsi di un incoraggiamento
e di un saluto, a chi offre le sue fatiche in una realizzazione civile ed umana. Spesse volte ci viene a trovare il ten.
col. Aureli, che guida la Commissione Italiana per la ricerca delle salme dei nostri soldati; egli ci racconta come
svolgono il loro lavoro.
La domenica successiva facciamo una visita nelle vicinanze del fiume Don per ricordare i nostri Caduti; anche se il
tempo è brutto e il terreno impervio per l’abbondante fango, chi con gli stivali, chi con gli scarponi, ci avviciniamo
alla sponda del fiume per raccoglierci in silenziosa preghiera e lasciar scorrere nelle torbide acque del fiume una
corona di fiori. Durante il rientro, accompagnati dal prof. Morozov - grande amico degli alpini e prezioso collaboratore
per i contatti con le autorità — visitiamo un Museo, ch’egli con tanto impegno e grandi sentimenti realizzò a ricordo
dell’ultima guerra, specificatamente della campagna di Russia, dove vengono conservate carte topo- grafiche, divise,
armi e ricordi personali di soldati: certamente una grande testimonianza.
Ogni giorno si nota il progresso compiuto nella costruzione. Siamo ormai alla fine del nostro turno, ed in ognuno di noi
si nota un po’ di stanchezza fisica, non certo quella dello spirito. Tanto è vero che alcuni esprimono il desiderio di
rimanere per un’altro turno, altri confidano il proposito di richiedere l’autorizzazione per poter tornare ad offrire la
propria opera. Questi sono sentimenti di Alpini che conoscono il valore della umana solidarietà.
L’ultimo giorno, si fa un po’ d’ordine: pulizie, si spolvera le coperte, per dar modo a chi ci dovrà sostituire di
trovare una buona sistemazione.
Il sottoscritto deve compiere una promessa fatta ad una signora, prima di partire da Bergamo: la consegna di un
“rosario” ad una donna russa; atto di grande fede, di grande amore, messaggio di sincera amicizia e fratellanza, verso
un popolo per tanti anni sconvolto da tristi avvenimenti. Con Andrea mi reco nel vicino sagrato di una chiesa ortodossa;
bussiamo alla porta di una abitazione, si presenta una donna anziana la quale ci accoglie, consegno il “Rosario”, mentre
Andrea spiega in russo da dove proveniamo, il motivo del gesto, il perchè del dono; Andrea, tra la commozione generale,
dice alla donna russa che è il desiderio di una donna italiana per una comune preghiera, affinché fra tutti i popoli del
mondo regni perennemente la pace. E’ sera, la luce del sole si oscura lentamente sull’ultimo giorno della nostra
permanenza, molti si scambiano gli indirizzi, alcuni scattano delle fotografie, si improvvisano dei canti alpini; poi
uno del gruppo mi chiede se ho in tasca la "Preghiera dell’Alpino” —: ",l’ho sempre con me" gli dico; la legge ad alta
voce, poi un profondo silenzio avvolge l'ambiente e le lacrime solcano le guancie: c'è tanta commozione! La domenica
mattina alle ore 5 partenza in pullman per il ritorno. Alle ore 9 siamo a Voronez, attendiamo l'aereo G/222; arriva con
un'ora di ritardo. Incontriamo quelli del 2° Turno: tra loro c'è anche il nostro socio consigliere nazionale geom. Lino
Chies. Ci scambiamo velocemente poche parole in relazione ai lavori in cantiere e per avere notizie sulla situazione
politica italiana, se è stato varato il nuovo Governo. Giunti a Mosca, occupiamo il tempo libero visitando la città ed
acquistando qualche “souvenir” da portare a casa. Il mattino seguente (lunedì) saliamo sull’aereo che ci porta a
Bergamo. A conclusione di questa esperienza, che posso dire? Che è stata semplicemente mirabile, straordinariamente giovevole, perchè ha dato un senso alla mia vita, perchè ha avuto il potere di arricchire lo
spirito dell’umana solidarietà, perchè sarà motivo di gioia e di sorriso per i più piccoli. Ricordo con ammirazione e
simpatia i capi-cantiere Franchi e Giupponi, gli interpreti Andrea e Alessandra per la loro preziosa disponibilità.
Antonino Cais
Prima di esporre brevemente la mia esperienza in seno all’OPERAZIONE SORRISO a Rossosch, credo sia doveroso esprimere
un sentito ringraziamento all’amico Lino Chies il cui incoraggiamento e interessamento hanno fatto sì che io potessi
vivere uno dei momenti significativi della mia vita. A Rossosch, nel cuore della Russia, ho potuto immergermi per due
settimane in una società completamente diversa dalla nostra per usi, mentalità, ritmi e modi di vita, una società
purtroppo oggi travagliata da contrasti nazionali ed etnici, minata da una crisi così profonda che impedisce il decollo
dell’economia liberista e fa vacillare gli slanci propositivi ed innovativi della classe politica post-comunista.
Tutto ciò rattrista poiché la grande anima del popolo russo
non merita ulteriori ferite oltre a quelle dolorosissime del passato.
Io ero inglobato nel 4° turno; siamo partiti da Bergamo il 18 luglio con un G/222 del 42° stormo di Pisa, lo stesso che
in questi giorni svolge le missioni umanitarie in Jugoslavia, e dopo sei ore di volo siamo atterrati a Mosca. Il
pomeriggio è stato trascorso nella visita alla Piazza Rossa e al Cremlino, la sera siano stati alloggiati all’hotel
Kosmos, uno dei migliori di Mosca (organizzazione A.N.A. perfetta, come sempre!). Il mattino seguente con lo stesso
aereo siamo volati a Voronez, 550Km a sud di Mosca, e qui abbiamo incrociato i volontari del 3 °turno che tornavano in
Italia. Il restante tragitto fino a Rossosch, 250 Km, lo abbiamo fatto in pullman abbiamo potuto così ammirare,
stupefatti, l'enormità della pianura russa coltivata a perdita d’occhio a cereali, girasoli, patate. In cantiere le
scansioni della giornata erano dettate da norme e orari precisi a cui tutti si sono adeguati con notevole spirito di
serietà, adattamento e rispetto verso gli altri. Naturalmente momenti di tensione ce ne sono stati, soprattutto quando
il lavoro si faceva delicato e la mancanza di adeguati supporti tecnici e meccanici richiedeva prontezza di spirito e
soluzioni immediate, non sempre condivise da tutti, ma il nervosismo veniva appianato alla sera con una bella cantata e
nel gruppo ritornava la serenità. Ciò e valso anche per me, addetto al settore logistico con mansione di aiuto cuoco e
cameriere: anch’io ho dovuto ingoiare qualche “rospetto”.
L’organizzazione al campo era ben collaudata, essendo già al 4° turno: luce, gas, acqua calda nelle docce, servizi
igienici, infermeria, servizio telefonico, provviste alimentari abbondanti. Il lavoro non ha subito particolari
rallentamenti e spesso anzi si lavorava più delle 10 ore giornaliere previste, anche sotto l’inclemenza del tempo che ci
ha particolarmente bersagliato la prima settimana. Questo periodo trascorso a Rossosch è così impresso nella mia memoria
che potrei raccontarlo attimo per attimo, ma i momenti più significativi e commoventi li ho vissuti il 26 e 27 luglio.
Il 26 luglio, domenica, abbiamo visitato i luoghi di guerra e della tragica ritirata lungo il Don nelle cui acque, dopo
la S. Messa, abbiamo gettato una corona di fiori in ricordo di tutti i Caduti; siamo saliti anche sulla collinetta che
domina il fiume (chiamata dagli alpini QUOTA PISELLO) presidiata dalla Julia, luogo di furiosi combattimenti (ora sulla sua sommità sorge un monumento ai caduti russi) e dove
trovò gloriosa morte la M.O. Bortolotto di Orsago. Il 27, invece, siamo stati invitati dalle autorità russe a
presenziare alla riesumazione delle salme dei Caduti della Tridentina sepolti ad Annovka. Dopo le cerimonie religiose di
rito ortodosso e cattolico, gli onori militari e civili, mentre le urne venivano caricate nel camion dai soldati russi
per essere inviate in Italia, abbiamo intonato “O Signore delle Cime”, ma la commozione era così profonda che avevamo
tutti un groppo in gola e a stento riuscivamo a cantare. Più di uno di noi aveva il viso rigato dalle lacrime, così pure
tra le numerose donne russe che seguivano attente la mesta e solenne cerimonia. Mi risuonano ancora le parole del
rappresentante del Governo Russo, quando, durante il discorso di commiato, disse: “Questo è un gesto di pace tra il
nostro popolo e quello italiano, facciamo in modo che questi tragici fatti non accadano più, operiamo insieme affinché non
risuonino più le voci di morte delle armi: viviamo in pace e in amicizia”! Ecco, in queste parole sta la valenza e il
significato dell’opera che stiamo costruendo a Rossosch quei mattoni sono il segno tangibile di un rapporto nuovo che
deve suggellare l'amicizia tra popoli diversi! A distanza di alcuni mesi da quell’ esperienza, la fatica è dimenticata e
il ricordo dei momenti duri è sopito: ora mi rimane nei cuore solo la gioia di aver contribuito a qualcosa di importante
e duraturo, di aver collocato nei glorioso album della storia alpina un piccolo tassello personale e inoltre la
soddisfazione di aver attaccato sulla bacheca di Rossosch, tra tanti simboli, i distintivi della nostra Sezione e del
Gruppo di Godega-Bibano che ho avuto l’onore e il privilegio di rappresentare.
Giorgio Visentin
A Rossosch per sei giorni
Con questa formula del nostro recente viaggio in Russia ho avuto modo non solo di vedere l'operazione “Sorriso”
nascere via via dalle fondazioni, con l’arrivo dei primi 35 alpini volontari, ma anche di assistere a Golubaja Kriniza
all’esumazione di oltre cento nostri caduti dell'8° Alpini, il mio Reggimento. Cinquant'anni fa a dicembre l’8° Rgt Alpini
della Julia tenne in quel sito per un mese il proprio comando e il cimitero campale. E là presso, verso il Don, già
valicato in più punti dai Russi col cedimento di altre Divisioni italiane e tedesche, aveva preso posizione il “mio”
Btg. Tolmezzo. Per resistere a protezione dello schieramento alpino, proprio in faccia alla quota “Pisello” occupata dai
Russi, la 72a Cp. formava cerniera con il Btg. Saluzzo della Cuneense. Seguivano verso la nostra destra la 12a e la 6a in direzione di quota 176, già nota “Signal” finché fu tenuta e persa dai tedeschi, chiamata poi “Cividale” dopo
che con
reiterati sanguinosi sforzi, persa e riconquistata, venne occupata dal glorioso Btg. “Cividale” dell’8° alpini, il 6
gennaio 1943.
Per decenni sognammo di poterci ritornare in pace.
Sul quel terreno, assurdamente conteso 50 anni fa a suon di katiuscie, assalti e colpi di mano, io ho potuto per la
prima volta rimettere brevemente piede nell’aprile 1990 quando col Presidente Caprioli la I.0.T. organizzò un blitz di
ricognizione fino al Don. Da quota “Pisello” dominante Nova Kalitva e il Don solo allora avevo potuto, a piedi e quasi di corsa, raggiungere
il “mio” campo di battaglia a guardarmi intorno e riscoprire
orizzonti, indovinare profili e pendii ancora ben fissi nella mente, rivedere i siti di dove i russi allora sbucavano
all’attacco. Scoprii così il calanco della 72a dove il 22 dicembre 1942 una bomba di mortaio russo schiantò nel povero
abituro ove, sotto un telo da tenda si riparavano attorno al fuoco, il Ten. medico Coppa, il Mar. Colombo e l’Alp.
furiere Marcuzzi Ovidio, di Vito d’Asio. Solo quest’ ultimo sopravvisse, dopo l'amputazione di una gamba. Ora invece,
avendo più tempo e potendo anche noleggiare auto private, ho potuto percorrere per più ore a piedi tutto il nostro campo
in profondità. Così ho ritrovato anche il calanco ove era sistemata la mia Compagnia, la 114a d'accamp. comandata dal
Ten. Pietro Maset, già allora “Maso” e più tardi Med. d’Oro della Resistenza.
Frugando nei ricordi.
Dalle mie postazioni di mortaio 81, in due notti di febbrile lavoro scavate 200 m. sulla sinistra, proprio sul colmo
del grande pianoro, si accedeva a quel calanco che iniziava lieve presso la “pista dei pali” e sprofondava subito deciso
in direzione del vallone Suchaja Kriniza. Praticamente era come un gran trincerone trasversale che dava comodo
mascheramento e ricovero alla squadra del mio Serg. magg. Angeli e ad altri servizi, ma soprattutto al bunker comando di
Compagnia un ampio e profondo scavo praticato nella sommità dei ciglione verso il “Pisello”, ricoperto abbondantemente
di tronchi, terra e neve. Accessibile dal fondo dei calanco per una specie di rampa incisa a mo’ di scala nella terra e
nel ghiaccio, il bunker si presentava quasi come un ingresso abbozzato, con porta a vetri rapinata da qualche isba di
retrovia. Quel bunker lo lasciai per ultimo all’abbandono del fronte, dopo la frase convenzionale “ciao Ebene” da me
quasi sussurrata a mo' di augurio al caro comandante della 12a che doveva restare di retroguardia, mentre io così lo
avvertivo che mi sganciavo staccando il telefono. lo mi salvai mentre lui con i resti della 12a Cp. venne fatto subito
prigioniero. Ci rivedemmo molti anni dopo e quel “ciao Ebene” ricordammo insieme emozionati e commossi. Più indietro,
oltre il versante opposto del calanco, erano schierati i pezzi da 75/13 del Gruppo “Conegliano” 13a Btr quasi a un tiro
di voce dal bunker.
Dai ricordi alla realtà.
Con questa ricognizione finalmente ho potuto individuare non solo il calanco ma anche il bunker del comando 114’ Cp.,
ora evidentemente sprofondato per il cedimento delle travature, ma anche ben visibile nel perimetro e nella posizione. E
li presso, poco dietro, abbiamo potuto individuare le postazioni in cui i pezzi del “Conegliano” stavano per metà
sprofondati sparando arditi sopra le nostre teste, oltre le nostre linee e su quota 176 “Cividale”.
Ho rivisto in quei momenti tutto come allora i tiri dei nostri mortai da 81 e le tremende salve di “schrapnell” sopra le
masse di russi attaccanti, le volate di “katiuscie” che ci inquadravano in profondità e i colpi di controbatteria e
controcarro russi, uno dei quali il 30 dic. 1942 asportò di netto la ruota di un pezzo uccidendo il Serg. Giovanni
Bortolotto, cugino di Maset.
Sepolto a Golubaja Kriniza, è stato proprio in questi giorni ritrovato ed esumato con molti altri nostri caduti.
Mi guardo incredulo attorno per affrontare la realtà dei ricordi: io con i miei mortai dovevo essere là a sinistra,
oltre il punto in cui il calanco sfuma verso la pista, oggi come allora. Vago un po’ sul terreno nero, seminato di
piccolo mais e pali di linee elettriche, cerco con l’occhio riferimenti, altri scavi o reperti. Trovo un proiettile da
45 o 47 spaccato in due. Laggiù verso Nova Kalitva e il Don si vede il monumento russo sul “Pisello”.
La sagoma inconfondibile della quota, che allora affiorava ben evidente dal piatto profilo dell’enorme dossone su cui noi si stava arroccati,
risulta ora schermata da un lungo filare di alberi. Sulla destra osservo la stessa cosa verso quota 176 “Cividale”.
Allora spiccava come un dolcissimo cono bianconero, come tostato dai nostri e dai loro colpi. Adesso invece sembra meno
pronunciata, mentre tutto è verde e alquanto svisato da macchie folte di vegetazione.
Avrei una grande voglia di star qui a osservare, a pensare, a ricordare, ma non si può oltre: a Golubaja Kriniza ci
attende Ivan con la sua Lada per riportarci a Rossosch. Scendiamo lungo crinali e costoni fino quasi al kolkos presso li
quadrivio per Komaroff e Seleny Jar. Sono di Nova Melniza, un paesino in riva ai Kalitva. “Non siamo russi ma caucasiani”
— tengono a precisare. “Venite a mangiare da noi?”. Ce lo fanno capire anche con gesti eloquenti, proponendo spiedi di
ottima carne, come usano loro.
Incontro ai nostri morti
Decliniamo cortesemente la proposta, offriamo loro qualche sigaretta e biro, scattiamo qualche foto e raggiungiamo in
breve Golubaja Kriniza ove la Delegazione di ONORCADUTI sta terminando gli scavi delle esumazioni in quei cimitero
campale. I militari russi e i giovani volontari dell’«Associazione memoriali militari» si danno tregua mangiando presso le
tende. Scattiamo ancora qualche foto mentre raccogliamo qualche elmetto e scarponceili alpini che i nostri caduti ancora
indossavano...
Una stretta al cuore, una pena infinita suscita in noi la vista delle fosse ancora scoperte. In una lo scheletro di un
caduto non identificato si presenta completo, le ossa ingiallite, ripulite con la spazzola dalla delicata cura degli
operatori.
Le mani e braccia ripiegate a riparo sopra il capo esprimono in modo lacerante tutta la sofferenza, il tenore,
l’angoscia dolorosa di quell’attimo mortale e agghiacciante. Così è restato.
Dopo cinquanta anni sarà rimpatriato da ONORCADUTI a Redipuglia e Cargnacco. Piangeremo ancora, e ancora tanti,
insieme parenti e amici, ricorderemo quelle sofferenze e quei sacrifici, chiedendoci ancora perché. Mentre a Rossosch
dolore e ricordo, lavoro generoso e solidarietà fanno crescere l’asilo per i “nipotini russi”: il nostro migliore
monumento anche per quelli che non tornarono.
Guido Vettorazzo
(già com.te i mortai da 81 della 14’ Cp. a.a. Btg. TOLMEZZO Div. JULIA)