TRADIZIONE |
Dicembre 1992 |
Nel 1971, a Firenze, veniva stampato il Dizionario Oli-Devoto della lingua italiana. Si potrebbe dire ieri, non fosse
che le manipolazioni e le brutture sociali, stilistiche e sintattiche abbiano reso negli ultimi vent’ anni quel grosso
volume meno attuale di quello che meriterebbe. Mi ha colpito tuttavia moltissimo la definizione di ‘Tradizione” che vi è
contenuta a pagina 2523: “il complesso delle memorie, notizie e testimonianze trasmesse da una generazione all’altra,
ovvero l’insieme degli usi e costumi che, trasmessi da una generazione all’altra, si costituiscono in regole”.
Difficilmente la tradizione potrebbe essere meglio definita. Ma mentre si legge, se siamo padri come lo sono io, può
anche coglierci un grosso dubbio. Perchè, il fatto è, che tutto ciò che costituisce le memorie, le notizie, le
testimonianze, angoscia i nostri li- gli nel momento stesso in cui cominciamo a parlarne. A volte non è neanche il caso
di provarci: a seconda dell’età, hanno argomentazioni dirette, concise e categoriche per interromperci subito. E allora,
poveri grulli, per parlare della tradizione che ci sta a cuore, ricorriamo a trucchetti coi piccoli a toni un po'
fiabeschi e fantasiosi, coi grandi a qualche ridondanza o esagerazione, che non è mai bugia, ma che dà del colore per
trattenere l’interesse dei nostri figli al nostro raccontare. Che non è sproloquiare. Noi alpini sappiamo a volte
contenere nel non detto il significato più vero della nostra idea. Ma una cosa è certa: non possiamo fare a meno di
parlare ai nostri figli di ciò in cui noi crediamo. Non lo faremmo se non amassimo loro e il loro futuro: se non
avessimo passato notti insonni con fagottini urlanti fra le braccia, o, magari più grandi, ad attenderli al di là dei
ritardi. Vorremmo dire, vorremmo che capissero, che questa benedetta tradizione non è affatto uno sterile racconto, ma
che l’unica tradizione è quella che sa riempire il cuore di gioia, ma non si compra con alcun denaro, parla con voci
antiche per dire ciò che sarebbe bello vivere ancor oggi. Ma attenzione: se non vogliamo annoiarti subito, non dobbiamo
parlare soltanto della naja, della penna sul cappello, di fatica e abnegazione; spieghiamogli piuttosto e subito ciò che
tradizione certamente non è.
Non lo è chi ci rappresenta intascando il denaro pubblico, non lo è che la vita venga bruciata da balordi commercianti
dì droga che ti vogliono far provare l’estasi dei paradisi artificiali: non parliamogli dei cori alpini se prima non
hanno capito che la bruttura dei mass-media che alterano la verità non è tradizione, come non lo sono i morti del sabato
sera, se prima non hanno capito che neanche il denaro è tradizione se viene speso lungo canali precostituiti da qualcuno
che ama solo il proprio tornaconto, Spieghiamogli che la tradizione d’amore non si cerca necessariamente in discoteca,
ma che ce n’è invece tanta nell’amore tra ragazzi e ragazze, nell’amore per lo sport, nell’amore perla nostra Nazione.
Spieghiamo- gli che se la nostra generazione ha partorito individui immorali e senza scrupoli è proprio perché è stata
da quelli rinnegata la tradizione della nostra gente. E pian pianino arriveremo a parlare con loro del volontariato,
quello vero senza colori politici, come quello alpino, quello in cui non si guadagna nulla. Così forse cominceranno ad
ascoltarci e ci affiancheranno nel lavoro. Ma non in cambio di un week-end al mare o di un’autoradio nuova, ma solo per
la curiosità di sapere se davvero si può ancora lavorare insieme ed aiutarci, tra padri e figli, con spirito di
allegria! E allora sarà gia vera tradizione e pian pianino anche loro, cari meravigliosi nostri figli, impareranno a
dire: “E’ho fatto con mio padre, quel vecchio matto che ogni tanto si mette ancora il suo cappello alpino”.
Renzo Frusi