BOSCO PENNE MOZZE


Dicembre 1994

Un monito ad un maggior rispetto


Le bellissime stele.


L’omelia del gen. mons. Balliana.


Il gen. Italico Cauteruccio pronuncia il discorso ufficiale.

Un pallido sole fa breccia nella frizzante aria settembrina ed un bailamme di gente vociante si riversa sul piazzale e sui prati circostanti dissacrando la quiete del Sacrario alle molte Penne Mozze.
Da circa vent’ anni mi reco di buon mattino al “Bosco” per espletare le mie mansioni che consistono nell’ elencare i nomi dei Vessilli, dei Labari e dei Gagliardetti dei vari gruppi alpini e delle rappresentanze d’Arma. Erano presenti alla cerimonia sei vessilli sezionali, 93 gagliardetti e 33 bandiere e labari delle varie rappresentanze d’arma e combattentistiche. Quest’anno il mio “capo”, assente, m’ha incaricato di stendere la cronaca della giornata; cosa che ho accettato a malincuore, anche per i reiterati motivi espressi una decina d’anni or sono al compianto presidente e realizzatore del Bosco, nonché allora direttore responsabile di questo periodico: dott. Mario Altarui.
Mi rifarò, come mia abitudine, a riportare quanto espresso nell’omelia da Mons. Agostino Balliana e al discorso dell’oratore ufficiale, gen. Italico Cauteruccio, e questo perché quanti hanno disatteso le parole dette dedicando il loro tempo ad un irriverente cicaleccio od a sonore libagioni.
Mi rendo conto che questo mio dire potrò sembrare ai molti brutalmente provocatorio, ma se un “pellegrinaggio al Bosco” è ritenuto una “festa sagraiola” non lo è di certo il luogo e il modo così di comportarsi. Puntuale alle 10 lo squillo di tromba fa scendere un velo di religioso silenzio (solo allora)
nell’intera vallata e la delegazione può deporre la corona al cippo delle Penne Mozze. Ha inizio così la cerimonia ufficiale con la presentazione da parte del dott. Daniele del nuovo presidente del Bosco: Claudio Trampetti che ha accettato l’incarico del comitato in sostituzione dell’indimenticabile Marino Dal Moro.
All’amico Claudio ha rivolto un ringraziamento di tutti gli alpini della Sezione per aver accettato l’incarico, rinnovando a lui la promessa della fattiva collaborazione da parte di tutti, formulandogli l’augurio più fervido e sincero di buon lavoro, certo che con le sue capacità, con la loro collaborazione e con l’aiuto del Signore saprà continuare, nel ricordo di Marino, l’opera intrapresa tanti anni fa dal suo predecessore.
Coglie infine l’occasione per salutare tutti gli intervenuti e per ringraziare della loro presenza le autorità civili, le autorità militari ed i rappresentanti presidenti soprattutto delle Ass. Combattentistiche d’Arma, delle crocerossine ed in particolare saluta il geom. Lino Chies nella veste particolare di vice presidente vicario dell’Ass. Nazionale Alpini; come dire il n° 2 dei 350.000 iscritti all’A.N.A.; il gen. di C. d’A. Italico Cauteruccio, già comandante della Brig. Cadore, oggi tra noi come oratore ufficiale del raduno. Saluta e rin grazia il gen. mons. Agostino Balliana che si è offerto di celebrare oggi la S. Messa in suffragio delle nostre Penne Mozze; ringrazia tutti e si scusa con coloro che non ha nominato, comunque se il loro nome non è uscito dalla sua bocca è rimasto però nel suo cuore.
Il neo presidente Claudio, nella sua veste di presidente del Bosco delle Penne Mozze, porge anch’egli un saluto a tutti gli intervenuti a questo incontro nel luogo a loro tanto caro. L’incarico affidatogli tre mesi or sono, se da un lato è motivo di orgoglio per il prestigio e l’opera svolta dai suoi predecessori nello stesso tempo lo preoccupa per l’impegno che ne deriva affinché tutto proceda nell’intendimento di coloro che hanno pensato e realizzato questo memoriale ai Caduti alpini della provincia di Treviso.
Per fortuna l’opera è pressoché completata ed ora a loro rimane il compito di continuare nel mantenimento di questa realizzazione, oltre che nell’aspetto materiale anche nel ricordo di coloro che qui sono degnamente onorati. La figura di Marino Dal Moro è ancora viva in tutti noi e ci è difficile accettare la sua mancanza, ma la realtà ci ricorda che da un anno non è più fisicamente tra noi; mentre è certo della sua presenza spirituale che li aiuta nel difficile impegno per quest’opera per la quale ha dato tante giornate di energia del suo tempo libero. Termina nell’augurare a tutti una serena giornata dando a tutti noi un arrivederci al prossimo anno.
Nell’omelia don Agostino Balliana s’immagina che Dio possa dare la parola a quanti sono ricordati in questo Bosco. Le Penne Mozze non hanno più voce, sono morti, non hanno più lingua però possono parlare a noi, alle nostre coscienze; e chi non dà questa possibilità a questi morti, che immagina parlino a noi del loro sacrificio per la nostra Patria, sembra ci dicano: e voi che cosa ne fate di questa Patria? Tutti coloro che ne approfittano, imbrogliano, che fanno disastri in giro, sono sordi alle parole che vengono da questi morti a cui Dio, oggi attraverso noi, attraverso questa cerimonia religiosa dà forza, dà voce, dà coraggio per parlare a noi dicendoci che non vogliono essere morti invano, ma perchè la nostra sia una nazione sana, giusta, dove ogni uomo abbia un posto dove ci sia libertà e dignità per tutti.
Dio ha dato loro la voce perchè possano parlare attraverso la nostra coscienza, sta dunque a noi divulgare la loro voce nei nostri posti di lavoro, nei nostri posti di responsabilità, nelle nostre case; innanzi tutto attraverso la nostra vita onesta facendo valere le loro ragioni, le ragioni di coloro che non possono più parlare.
Al termine della cerimonia religiosa è seguita l’orazione ufficiale tenuta dal gen. Italico Cauteruccio che così si è espresso: “Erano gli anni 70 quando gli alpini celebrarono il loro centenario e nacque questo bosco dedicato alle Penne Mozze.
Erano anni di diverse ideologie e di contestazioni, ed ecco che in questo clima di contesto qualcuno volle andare controcorrente con un’ espressione di altissima civiltà: gli alpini che, come si sa non seguono la moda ma solo la loro coscienza e la fedeltà ai loro ideali decisero di ricordare con una stele, con un simbolo, gli uomini caduti compiendo, da alpini, il loro dovere in guerra.
Questo bene profondo nello sposare il ricordo di una vita spenta perché dedicata alla Patria con una nuova vita, quella di una stele o di una giovane pianta a significare la continuità degli esseri del creato ed il vincolo di amore e l’attaccamento alla propria terra simboleggiati dalle radici di un albero.
Semplice e validissima la concezione e l’insegnamento con un’iniziativa a testimonianza dei sacrifici patiti dai nostri soldati e dalla nostra gente. Ed era giusto che agli alpini fosse dedicato qualche cosa di particolare, perchè particolare è sempre stola la loro esistenza, il loro servizio di soldati, specie nella prima metà di questo nostro secolo. Infatti gran parte degli uomini che qui onoriamo sono stati chiamati a vivere ed a morire nel periodo piè difficile della nostra Patria. Sono stati chiamati a servire in un corpo dell’esercito che ha dato in proporzione il maggior numero di perdite, di morti, feriti e dispersi, rispetto a tutte le forze armate. Ed hanno servito in questi reparti alpini in cui, anche in pace, la vita è aspra e dura ed il rischio è immane, portando oltre al peso dello zaino dietro di sé il peso piè grave struggente di tante ansie, di tanti valori oggi scomparsi, di tante speranze per le loro giovani vite, compiendo il loro dovere di cittadini e soldati tenendo sempre alto il nome della loro piccola grande Patria e soprattutto la loro dignità di uomini.
Sono stati protagonisti di avvenimenti tremendi che non avrebbero voluto vivere e che li hanno coinvolti in una immane tragedia impensabile alla luce delle nostre attuali concezioni di vita. E rivediamo con l’occhio del ricordo e della nostalgia questi alpini per le molte vicende che spesso chiedevano sacrifici inauditi solo e semplicemente per sopravvivere. Voglio qui ricordare le parole che si trovano incise sulla roccia alla base delle Tofane dedicate ai caduti della 1a guerra mondiale, ma che valgano per tutti i caduti di ogni luogo e di ogni tempo. Dicono “Tutti avevano la faccia del Cristo nella livida aureola dell’elmetto, tutti portavano l’insegna del supplizio nella croce della baionetta e nelle tasche il pane dell’ultima cena e nella gola il pianto dell’ultimo addio”. Il tempo cancella sulla terra le tracce tremende della guerra, ma ancor più velocemente la memoria degli uomini allontana il ricordo di chi non è più, per quel senso di superamento e di emozione del dolore, che è innato nell’animo umano, perché quasi tutti devono vivere la loro vita, il loro presente; ed è così che la perdita di una persona cara, di un commilitone o di un amico, viene sopita inesorabilmente sempre più sino ad esistere o resistere nel cuore dei parenti, della madre, della sposa, degli orfani, finché la vita li soccorre.
Quando poi si tratta di soldati caduti, la memoria collettiva rimane solo nell’onore della bandiera dei reggimenti e negli annali dei reparti. Viene anche affidata alle lapidi ed ai monumenti nelle città e nei paesi, anche se troppo spesso servono a ricordare l’usura del tempo piè che la memoria degli uomini. Invece quando l’oblio e l’incuria vengono da chi ha la responsabilità pubblica di ricordare, quando questa non cade, diventa costume o pratica generalizzato anche se interrotta da formali ed interiori circostanze.
Quando la convenienza politica, dico convenienza non convinzione politica, impone di ignorare, se non irridere, al sacrificio e al ricordo dei soldati comunque caduti, allora per carità di patria adottano un comportamento inqualificabile, allora è come se quei giovani, quei soldati, fossero caduti due volte perchè non è lecito lasciar cadere nella dimenticanza l’ardua sorte che ha colpito l’esistenza di chi ci ha preceduto, ed altrettanto non è da uomini civili e liberi l’ignorare il prezzo pagato da altri per renderci liberi; perché un popolo è tale se ha memoria di sé, se ha convinzione della sua storia quindi della sua identità.
Se non ha questo è come se volesse staccare dalle nostre radici i nostri valori piè preziosi e piè cari. Vi chiederete perchè ho detto tutto questo qui al Bosco delle Penne Mozze, l’ho detto proprio per mettere in evidenza il merito, il valore di testimonianza di fede, di amore e riconoscenza di chi ha iniziato e continua questa tradizione, questa realtà che si impone come esempio e monito.
Qui si respira spiritualità, rispetto del passato che conta soprattutto la certezza che il dolore ed il sacrificio di tanti non è stato vano. Piuttosto noi dovremo chiederci, noi sopravvissuti, se siamo stati degni del loro sacrificio.
Concludendo mi rendo conto che le mie parole brutalmente provocatorie possono aver disturbato il raccoglimento di qualcuno dei presenti, se così è stato ve ne chiedo scusa; ma se sono valse ad aggiungere alla pietà che vi ha condotto qui un credito di sdegno, un evento di giustizia alla mentalità che ho indicato, allora avremo dato assieme, come diceva mons. Balliana durante l’omelia, parola e voce non solo agli alpini caduti che qui onoriamo ma a tutti i soldati figli d’Italia caduti e ancor dimenticati. Grazie”.

Steno Bellotto