IN RACCOGLIMENTO NEL BOSCO |
Dicembre 1995 |
L'aria è ancora carica di umidità per la
pioggia caduta abbondantemente durante la notte. Le nuvole indugiano sui faggi al limite del bosco quasi a
segnare la volta di questo strano tempio all'aperto.
Il reduce Gino Pagotto
è già lì sul piazzale ad aspettare quelli che lui simpaticamente chiama le
"panze longhe", i suoi amici alpini.
Da 24 anni ormai questa per lui è una giornata molto particolare,
vissuta con intensa commozione: nella disastrosa ritirata, stremato dalla fame
e dalla stanchezza nella tormenta della steppa russa, era sul punto di cedere
e fu salvato da un alpino che lo curò e sostenne durante l'interminabile
marcia.
Accompagno Pietro Minet per i sentieri del bosco.
Si ferma stele per stele a leggere i nomi, le date ed i luoghi del
sacrificio degli alpini, come se fosse la prima volta.
Poi si trattiene in silenzio in un punto ben preciso, ai cippi dei
compagni che, partiti assieme a lui, chiusero malamente la loro giovinezza in
una terra e per una causa sconosciuta.
Mi dice che le sue visite al bosco
sono frequenti. Lassù, con gli
amici commilitoni caduti pur scaricare l'angoscia, che accompagna la vita di
ogni reduce, di non riuscire a raccontare tutto e di non essere creduto.
Ora
è continuo l'andirivieni per i sentieri di questo bosco, dove ogni stele è
un nome, ogni nome una storia di dolore, di ferite e di morte, ma anche un
monito perché gli uomini imparino a convivere in pace.
Accanto ad ogni stele dei caduti di Codognè qualcuno ha deposto un
mazzo di freschissime margherite gialle: un gesto di squisita sensibilità.
Quassù,
vicino alla grande croce, regna una quiete irreale e non si avverte la
concitazione delle centinaia e centinaia di alpini che si stanno predisponendo
attorno all'altare per la cerimonia. Sono
tantissimi i veci e bocia, trasformati nel volto dal cappello che li uniforma
e fa sembrare i veci più giovani e i bocia più vissuti.
Due squilli di
tromba ed è devoto ed improvviso silenzio.
Carlo Giovannini, presidente
della sezione di Vittorio Veneto, dà il benvenuto alle autorità civili e
militari, ai rappresentanti delle associazioni combattentistiche e d'arma ed
agli amici alpini convenuti in questo luogo dedicato alla memoria delle penne
mozze trevigiane, alla memoria di coloro che, fieri della loro penna nera,
hanno servito la Patria con onore e hanno sacrificato la vita con coraggio
senza nulla chiedere o pretendere se non il ricordo di tanto sacrificio.
Ricorda
a tal proposito l'impegno morale assunto dalla nostra Associazione che si
sintetizza nel motto "onoriamo i nostri caduti aiutando i vivi",
impegno che si è concretizzato negli interventi in occasione di calamità
naturali, in Italia ed all'estero.
Ringrazia in particolare gli alpini del
gruppo di Cison che curano la manutenzione e pulizia di questo memoriale e
rivolge un devoto pensiero all'indimenticabile Marino Dal Moro, che di questo
bosco fu uno dei fondatori e realizzatori.
Claudio Trampetti, presidente del
Bosco, annuncia la messa a dimora di una nuova stele: quella di Flamis
Vazzoler di Ponte di Piave, giovane alpino di leva deceduto il 15 gennaio
ultimo scorso a Remanzacco, a seguito di un incidente stradale mentre stava
rientrando, assieme ad altri commilitoni, al reparto di appartenenza dopo un
servizio di vigilanza alla frontiera.
Ringrazia quanti hanno collaborato
alla realizzazione della passerella pedonale, che permette un rapido
collegamento tra il piazzale e la chiesetta di San Daniele e che proprio oggi
viene inaugurata.
Il coro ANA di Vittorio Veneto accompagna i vari momenti
del rito eucaristico, celebrato da mons. Giuseppe Artico, con canti liturgici e brani, non meno sacri,
del repertorio alpino.
Chiude la cerimonia l'orazione ufficiale del dott.
Lorenzo Daniele, Presidente dell'Associazione "Penne Mozze".
«A
nome dell'Associazione Penne Mozze, rivolgo un cordiale saluto ai presenti e
propongo a tutti il ricordo affettuoso degli amici che un giorno furono con
noi e che oggi sono nei nostri cuori con nostalgia e rimpianto:
per tutti
Giulio, Mario, Marino Efrem, Carlo, Enrico.
Riposate in pace, fratelli alpini.
Mi pare oltremodo significativo
che oggi a rivolgere la parola sia il presidente dell'Associazione Penne
Mozze. Quest'anno infatti ricorre
il cinquantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale e
ricordare tale avvenimento specie in questo luogo sacro alle memorie, è
certamente doveroso.
Ho detto ricordare, non celebrare, poiché la
celebrazione di un fatto storico ha sempre qualcosa di elegiaco, con iperboli
glorificativi e non si fa elegia sulla vita di milioni di esseri umani.
Dicevo
che è significativo che oggi sia l'associazione Penne
mozze a proporre il ricordo dei caduti a 50 anni dalla fine di un
massacro che coinvolse milioni di persone in tutti i continenti e a proporre
in particolare il ricordo di migliaia di caduti alpini su tutti i fronti di
guerra. E di dispersi, perché
anch'essi sono ormai da considerare caduti.
Ma io oggi desidero soprattutto
proporre a voi qualcosa di diverso dalla solita interpretazione della
Resistenza, quale in questi anni è stata configurata.
Senza naturalmente nulla togliere a nessuno, ma solo nel rispetto del
dettato bimillenario "dare a Cesare quel che è di Cesare e dare a Cristo
quel che è di Cristo".
E' il ricordo dei primi resistenti, di
centinaia di migliaia di soldati italiani che l'8 settembre 43 furono
rinchiusi nei lager nazisti quali prigionieri di guerra e trattati nella
maniera più bestiale che si possa immaginare.
Fra essi quel povero cristo travestito da eroe che vi sta parlando.
Di
loro poche volte si è parlato. Quasi
mai, quasi per uno strano pudore. Eppure 60.000 prigionieri restarono là, nei
cimiteri di guerra tedeschi, polacchi, austriaci, vittime della ferocia e
della vendetta germanica. Nei
mesi di luglio, agosto, settembre 45 rientrarono in patria i superstiti.
Cinquant'anni, dunque.
Dice
Padre Davide Maria Turoldo nel suo Salmo dei deportati: «Tornavamo dai lager
come torrenti in piena verso la terra del sole. Tutti i volti erano in pianto e il cuore impazziva nella
paura di sentirei liberi. Ed una
lunga scia di cenere avvolgeva vivi e morti in cammino sulle strade d'Europa.
Ma non sapevamo Signore quanto è difficile essere liberi».
E
Giovanni Guareschi, ufficiale prigioniero di guerra in Germania, nel suo
diario clandestino: «Sulle strade ferrate corre silenzioso un treno fantasma:
è il treno che ha girato per tutte le strade ferrate di Germania, di Polonia,
di Russia e Jugoslavia, che ha fatto sosta in tutti i campi di concentramento.
E' un convoglio che non finisce mai perché è il treno che porta le
anime dei morti in prigionia. Ora
corre per le strade ferrate d'Italia e si ferma soltanto quando c'è da
caricare l'anima di un ex-prigioniero. E
quando fra 50, 60 anni avrà caricato le anime di tutti i reduci, prenderà
l'aereo binario che porta dove Dio vuole e nessuno in terra lo vedrà più».
Io
penso spesso ai tempi della prigionia, penso con angoscia a quei momenti di
pena e di dolore cocente, di
umiliazioni intollerabili e rivedo i volti sfumati ma sempre riconoscibili dei
miei compagni morti in quei lager, in quelle baracche tetre circondate da fili
spinato.
E parlo con loro rimasti là, colloquio con don Umberto Lotti, con
Guercia, con Pretto, con Paolillo come fossero presenti.
Con loro commento i
fatti che ci
colpirono allora ma rispondo anche alle loro domande. Essi
dicono:
«Siamo lontani dalle nostre case,
dalle nostre spose, dai nostri
figli, forse qualche volta parleranno di noi: chissà se ricorderanno i nostri
volti. Tu sei tornato, forse li hai visti, forse ancora oggi li vedi: Sono
passati 50 anni e sono invecchiati. Se potessimo ritornare per un attimo alla
vita non li riconosceremmo. Ma ci basta il loro ricordo, il volto buono della
mamma, il volto dolce della moglie, i capelli arruffati dei nostri figli.
Quanto ci piacerebbe rivedere quei piccoli volti ma anche oggi che essi sono
sulla strada della maturità, ci piace il sorriso e lo sguardo di loro per noi
rimasti bambini ... »
Ma io rispondo «Si, amici miei, vidi i vostri cari
quei lontani giorni di 50 anni fa, girai l'Italia, visitai le vostre famiglie,
diedi loro quelle poche cose che avevo potuto recuperare, vidi i volti
innocenti dei vostri figli, i volti pallidi e tristi delle vostre mamme e
delle vostre spose. Piansi con loro e non dimenticherò mai. Tutti disegnavamo
il nostro futuro in un'Italia libera da dittatori e speculatori di ogni genere
e di ogni risma. Vedevamo un paese all'avanguardia della cultura e della
civiltà, all'altezza delle nazioni a lottare per uno scopo preminente: la
pace tra i popoli. Mai più guerre, questa sarà l'ultima e ne eravamo
convinti. No amici miei che siete rimasti là, no, non è andata così: altre
guerre, altri massacri, altre aberrazioni, altri odi di uomini contro uomini.
E non è finita. E qui in questo nostro paese che sognavamo grande, qui
imperano ancora mafia e malavita, ladri travestiti da governanti, malviventi
travestiti da gentiluomini. Così i nostri sacrifici, le nostre illusioni, le
nostre speranze sono rimaste nella mente e nel cuore: non sono divenute realtà.
Ma la speranza è dura a morire, E noi uomini sani di mente e di sentimenti
che siamo la grande maggioranza, noi malgrado tutto speriamo ancora.
In particolare noi Alpini abbiamo ancora fiducia in questa nostra
terra. Noi l'amiamo questa nostra
terra, perché ci siamo nati, l'attaccamento alla terra che ci diede i natali
e per la quale tanti nostri fratelli caddero è insito nella nostra natura
perché tutti i nostri cari vivono qui e formano il nostro mondo, perché in
essa abbiamo amici cari e fedeli che parlano, pensano e sentono come noi.
perché è una terra fra le più belle che Dio abbia creato, è l'Italia,
questa terra che molti chiamano paese e che noi Alpini continuiamo a chiamare
Patria.
Dio protegga sempre questa nostra terra benedetta, la liberi da ogni
parassita, le doni quella dignità e quel prestigio che anni di malgoverno e
ruberie le hanno tolto e la riconduca a testa alta nel consesso dei popoli
civili.
Signore Iddio, grazie».
... questo è il coro dei fratelli
che
non tornano mai più
eran giovani, eran belli
ma rimasero quassù ...
C'è
struggente semplicità in queste note del coro ANA, la stessa struggente
semplicità di tutta la cerimonia in questo tempio sacro, che ha per parete la
roccia che spunta da faggi, abeti e possenti ippocastani, e per cupola il
cielo. Si dice che gli alpini
prediligono il fare più che il dire: sono accomunati dalla tendenza ad
esprimere con immediatezza ogni sentimento e da un intraprendente spirito
organizzativo che colpisce per la fantasiosa approssimazione.
Approssimazione
che spesso toglie spazio a ricercatezze nello stile.
Eppure la regia di
questa cerimonia sembra opera di mani straordinariamente abili.
Una rappresentazione curata dagli alpini che, gelosi come sono delle
loro cose, mal accettano intromissioni dall'esterno.
Alpini sono gli ideatori e realizzatori di questo memoriale, alpini
l'autore e gli interpreti delle melodie, che parlano delle tristissime pagine
scritte dalle penne nere.
E quando alla comunione salgono alte le toccanti
note di "Penne mozze", ci sembra che siano quelle di Efrem le mani
alzate a dirigere il coro, un coro che ora diventa vasta assemblea, come se
dal quel cantuccio di cielo che per noi alpini è il "Paradiso di
Cantore", con il benevolo assenso del Grande Padre, si siano mossi tutti
i veci passati avanti, per unirsi un attimo alle voci dei cantori.
Anche il
vento si è improvvisamente placato, quasi a sottolineare che non c'è brano
più suggestivo per raccontare la tragedia degli Alpini, per onorare la
memoria delle anime di questo bosco che è stato ideato come atto di
riparazione e d'amore per tutti coloro che sono stati abbandonati cadaveri
lungo la pista ghiacciata, senza una croce e senza un fiore.
Poi la volta di
questa cattedrale, prima uniforme, viene rotta da irregolari toppe azzurre.
E' il segno che quelli del "Cantore" se ne sono ritornati
lassù, tra gli infiniti spazi oltre le nuvole.
Gianfranco Dal Mas