LA 69a ADUNATA NAZIONALE SI E' SVOLTA AD UDINE TRA UN TRIPUDIO DI FOLLA


Giugno 1996

L’ORGOGLIO DI ESSERE ALPINI

VERSO UDINE
Sabato 18 maggio ore 16. Percorro la Pontebbana alla volta di Udine.
Da due giorni ormai questa arteria sta sopportando il traffico intenso e chiassoso degli alpini che si recano nel capoluogo friulano per la loro annuale adunata.
Ora il flusso sembra essersi esaurito, il sole picchia forte sull'asfalto e, dopo gli intasamenti di ieri e di questa mattina, regna una calma quasi irreale.
La Pontebbana occupa una parte importante nella storia della nostra Italia; indugiando con lo sguardo sul paesaggio circostante inevitabilmente le immagini finiscono per innescare tutta una catena di pensieri conseguenti.
Penso così a ciò che questo paese è stato e continua ad essere, a quanto è costato questo presente, questo benessere; penso alla ricchezza della terra, al tesoro del lavoro, al bene della pace.
Percorrendo a ritroso la sequenza fotografica delle immagini che ne hanno segnato le trasformazioni nel tempo, avverto il brusio di voci e suoni, immagini sfumate di generazioni lontane. Sbiadite, ma non meno ferme, le immagini tristissime della miseria e del dolore, del pianto e della devastazione provocata dalla tragedia della guerra.
Rivedo la via percorsa in senso inverso da orde di disperati in disordinata fuga verso il Piave, quel lontano novembre del 1917, con il fiato del nemico addosso, quando bisognava camminare nei campi acquitrinosi e nei fossati, dal momento che sulla strada non si poteva, tanti erano i soldati e i civili.
Il ponte sul Tagliamento sembrava dovesse crollare da un momento all'altro sotto il peso della folla di sbandati, e dall'altra parte c'era un generale che urlava vigliacchi e vermi ai soldati che non avevano il fucile, perso magari giù per i pendii di Caporetto, pieni di fango e di cadaveri, prima di metterli in riga davanti al plotone di esecuzione.
Proprio dopo il Tagliamento, ad intervalli regolari noto sul bordo della carreggiata i segni inequivocabili del passaggio dei muli del gruppo di Cappella Maggiore. Sono partiti tre giorni fa pur sapendo che non potranno sfilare.
Animali buoni, umili, mansueti, utili ed intelligenti, questi quadrupedi sono stati silenziosi testimoni delle pagine più tragiche scritte dagli alpini. Forse però il motivo vero del grande affetto per i muli è un altro: si tratta di animali forti, resistenti, di poca spesa ma, soprattutto, ostinato. Come gli alpini.
Incontro la “colonna muli” a Pasian di Prato. La loro presenza incuriosisce ed entusiasma e così il traffico si paralizza completamente: è solo il primo segnale della grande baraonda.
Sarà l'impatto con Viale Venezia a darmi l'immediata sensazione di quanto sia imponente la festa.

LA FESTA
La città è letteralmente assediata dalle Penne nere, ogni piazza è una immensa tendopoli, ogni angolo di verde è stato trasformato in accampamento.
Non si contano le tavolate con annessa cucina, cantina e dispensa, soluzioni originalissime frutto di un intraprendente spirito organizzativo che colpisce, sia per la fantasiosa approssimazione, che per l'ordinata capacità tecnica.
Si tratta di una festa unica che dona alla città un aspetto surreale, fra i bivacchi che ti risucchiano, osterie dove l'attività di mescita è frenetica e che oggi sono regno incontrastato delle Penne nere. Clacson, brindisi, canti, musiche. Passano le pattuglie di polizia che osservano e perdonano e fanno fatica a non venire inghiottite dalla festa; damigiane sui camper e bottiglie sui tavoli, già a quest'ora, “paurosamente” vuote.
Non si contano i chioschi e le bancarelle di ogni genere, in un turbinio di cori, fanfare improvvisate, brindisi continui, mani che si tendono per offrirti il bicchiere; alpini che si incontrano e fraternizzano come se si conoscessero da una vita.
Oggi Udine è una città occupata da coloro che portano la penna e non si discute: lo sa benissimo quel tassista bloccato tra la folla che aspetta paziente. Un alpino lo soccorre con un taiut, in segno di amicizia.

LA STAZIONE
Ufficialmente questa è la quarta volta di Udine, ufficiosamente ce n'è una in più da mettere in conto: quella non organizzata, ma spontanea, di 20 anni fa, quando gli alpini arrivarono mentre la terra ancora tremava. Allora i friulani ebbero occasione di toccare con mano cosa rappresenti per un popolo lo spirito alpino.
Le scosse del terremoto avevano seppellito affetti e beni ma dalle macerie era spuntato il fiore delle fratellanza.
Qualcuno ha detto che questo fiore era una penna, fissata sul verde cappello, che tagliava la spessa coltre del dolore e alimentava la speranza della rinascita che sembrava perduta.
Furono le Penne nere, infatti, a rimboccarsi le maniche quando ancora il pericolo restava incombente, quando la gente cercava i propri cari, quando nessuno sapeva come sarebbe finita e gli occhi non avevano più lacrime. Furono loro a piantare i primi cantieri ed avviare a tempo di record la ricostruzione.
Fu una delle pagine più belle tra quelle scritte dagli alpini, una delle più edificanti della recente storia d'Italia.
Ed ancora una volta la storia degli alpini si era intrecciata alle vicende di questa città. Il capoluogo friulano, oltre ad avere salde radici alpine, era il più importante punto di transito per le tristi tradotte che partivano per il fronte.
Un capitolo a parte andrebbe riservato alla stazione: da qui si mossero, infatti, gli oltre duecento convogli che portavano gli alpini della Julia in Russia e qui si fermarono i diciassette (bastarono) che li riportavano a casa.
Oggi la stazione è uno dei punti nevralgici dell’adunata. Lo scalo ferroviario è un grande accampamento.
In un binario morto è parcheggiata una interminabile fila di vagoni che ospitano gruppi del Piemonte e della Lombardia. E' noto che Lino Tonon (in arte “Binario”) sa sfruttare intelligentemente le sue conoscenze all'interno della dirigenza delle Ferrovie dello Stato.
E così anche quest'anno gli alpini di San Fior sono accampati a ridosso dei binari e dispongono di servizi igienici e docce. Si sono rapidamente gemellati con i gruppi vicini (Modena, Viareggio, L'Aquila, Pescara) ed a questi offrono il supporto logistico della cucina.
In attesa che le cameriere servano in tavola (numerose le penne rosa al seguito) è tutto un amarcord dei tempi mitici della naia, delle marce in mezzo alla neve, di quella volta che erano scappati i muli, di quella simmia assieme al capitano, delle abbuffate di gruppo, di quella avventura dagli esiti scontati durante il campo estivo. Poi è la volta degli episodi memorabili delle ultime adunate ed è sconcertante la disinvoltura con cui si passa dalle discussioni sul lavoro a quelle sulle donne.
Tutto il resto qui sembra tabù, compresa la politica, alla faccia di quanto scrivono i giornali che vorrebbero questa l'adunata della “secessione sì -secessione no”.
Qui la vexata quaestio non è la Padania ma un'altra: “E' più fragrante il frizzante verduzzo del Palù, il prosecco dall'aroma gentile delle generose colline di Castello Roganzuolo od il verdicchio carico di colore offerto dagli amici abruzzesi?”
La discussione coinvolge anche i militari della Polfer, graditi ospiti del nostra gruppo.
Oggi anche loro si sentono alpini e da bravi alpini non si tirano indietro davanti al bicchiere.

TRENTATRE’
Sabato sera, piazza Primo maggio: chi non c'è non può né potrà mai capire.
Nonostante la sua vastità la piazza non riesce a contenere il mare di folla che si muove a onde.
Tutto prende forma d'alpino e nemmeno i personaggi dei monumenti si salvano: Mazzini, Garibaldi, un bronzeo monsignore benemerito illustre, ma a noi sconosciuto, nei giardini davanti al Vescovado, anche lui, come tutti, col suo bel cappello piumato in testa.
In piazza Libertà per conquistarsi una visuale oltre la selva di cappelli e poter osservare gli alpini che hanno fatto parte della fanfara della Julia, impegnati in un mega concerto, c'è l'assalto alla loggia del Lionello, alla fontana (con conseguente bagno rituale) e perfino ad un mezzo dei vigili del fuoco.
L'impresa non è poi così difficile per chi ha fatto il corso roccia. Le note del “Trentatré” sono la colonna sonora di tutta la festa: ripetute in maniera quasi ossessiva, si ricorrono di strada in strada, di piazza in piazza, di fanfara in fanfara, suonate con tutti gli strumenti, compresi vibrafoni, labiofoni, armoniche, fisarmoniche, lente, marziali, martellanti ma anche struggenti ed a volte strappalacrime (a tutto può resistere un alpino, ma non a quelle). “Trentatré” sembra oggi l'unico numero certo in questa grande festa popolare, tutti gli altri numeri possono solo essere immaginati per difetto.
Per ascoltare qualcosa di diverso entro in una delle tante chiesa dove si stanno esibendo cori alpini.
E' il turno del coro “Col di Lana” di Vittorio Veneto che si cimenta in un brano armonizzato dal compianto Efrem Casagrande: “Trentatré” (!). Curiosamente i passaggi vengono cadenzati dalle possenti percussioni del tamburo della fanfara che nella piazza antistante sta eseguendo lo stesso brano.
A mezzanotte uno spettacolo pirotecnico, suggestivo e di rara bellezza, illumina il cielo con fasci di luci multicolore e bagliori intermittenti, che avvolgono con straordinarie coreografie l'angelo del castello. I colpi finali mettono a dura prova le coronarie, ma non riescono a turbare il sonno profondo di due alpini che stanno dormendo ai bordi dell'aiuola e per cuscino dispongono di un marciapiede.
Vorrei poter attribuire tale impassibilità alla smisurata capacità di adattamento ambientale delle Penne nere, ma le narici sono colpite dall'odore mescolato di vino, fritto, griglia, salsicce... Si sa che questa interminabile notte è consacrata dagli alpini al dio Bacco.
Ed in questa piazza, come nelle altre, ed in tutta Udine, questa notte, vino e birra scorrono a fiumi.
Nell'ospedale da campo di piazza Primo maggio si susseguono frenetici gli arrivi e le partenze delle ambulanze ed assisto ad una febbrile attività per “rianimare” boce e veci la cui sete era eccessiva: è il prezzo che qualche alpino deve pagare per rinnovare il patto di appartenenza. C'è da dire però che l'importante non sono i litri di vino, ma essere in ordine con l'equilibrio domani, al momento della partenza.

LA SFILATA
E' un fiume tra due immense sponde umane inebetite ora dalla gioia ora dalla commozione che spesso riga le facce di lacrime.
Sfila un grande esercito di pace, simbolo della solidarietà e oltre le transenne c'è tutto il Friuli ad applaudire e ringraziare per l'impegno che ogni giorno gli alpini testimoniano per il mantenimento della serena convivenza tra i popoli e per quello che fecero 20 anni fa.
Particolarmente ricche di significati umani e morali le scritte sugli striscioni che sono la forma scelta dagli alpini per dialogare con la gente. Le parole sono poche e quindi pesate e dense di significato.
Uno dei temi dominanti è il ridimensionamento in atto dei reparti alpini.
C'è protesta, ma anche tutta l'ironia e l'arguzia delle Penne nere dietro allo striscione di Biella: “Chiediamo l'abolizione degli alpini: l'Italia non se li merita”. In un altro la rima è tirata per i capelli, ma l'effetto è comunque garantito: “Anche se lassù qualcuno non ci ama siamo sempre pronti se l'Italia ci chiama”.
Semplice e profondamente alpino l'invito di quelli di Bergamo: “Ricordiamo quelli che non sono più tra noi”. Il pensiero corre agli amici che il tempo si è inesorabilmente portati via, ma va anche alle migliaia e migliaia di penne mozze rimaste sui fronte e seppellite in qualche campo di girasoli dalla pietà delle donne russe o tra i boschi delle montagne greche.
I numerosissimi scambi di ringraziamenti e di attestati di fraternità tra friulani e gente di altre regioni, a loro volta beneficate, hanno fatto di quella di Udine l'adunata della solidarietà. C'è l'epopea della Protezione civile, con gli alpini in primo piano, il gruppi ANA di donatori di organi, di midollo osseo e di sangue.
Sfila per nove ore un esercito imponente di veci e bocia, diviso in sette settori.
Tenaci combattenti anche contro le avversità della vita, tanti alpini hanno sfilato in carrozzina. Passano su un mezzo militare alcune delle portatrici comiche, gloriose protagoniste della vittoria del 15/18 (erano mille, sono rimaste una decina). Anche loro sono “penne nere”, quegli occhi e quelle rughe sono lo specchio di fatti terribili e di ferite che il tempo, dopo ottant'anni, non ha ancora rimarginato.

E'il momento degli alpini di Conegliano: una colonna interminabile.
Il servizio d'ordine è assegnato al gruppo San Fior, l'onore di aprire la sfilata tocca a Mirco Da Rui che con passo marziale precede il Vessillo, portato da Bruno Danieli, scortato dal neo presidente Paolo Gai; seguivano i vice presidenti, il direttivo con alcuni sindaci dei Comuni in cui sono insediati i nostri Gruppi, lo striscione “CONEGLIANO CULLA DEL 70°”, i gagliardetti, la fanfara e quindi i 1.300 soci della sezione coneglianese.
Applauditissimo il nostro striscione: “ALPINI, STILE DI VITA”. E' la risposta a chi ha cercato di rovinare questa festa: le Penne nere sono al di sopra di certe polemiche, convinte che i furbi e le persone per bene stanno al nord come al sud. In fondo essere alpini è qualcosa di molto di più forte e diverso di una fatto di latitudine; è una modo di interpretare l'esistenza e la realtà che ci circonda.
Bello lo striscione degli alpini di San Vendemiano che hanno testimoniato il loro impegno nella solidarietà ricordando don Gnocchi.

IL RITORNO
Il rientro è una lenta sequenza di code chilometriche. Per ingannare l'attesa qualche comitiva si sistema ai bordi della strada, ricompaiono i tavoli e le griglie riprendono a fumare. E così la festa ricomincia. Nel saluto delle gente, lungo la strada, avverto qualcosa di triste. Nel pensare che questa è stata l'adunata più grande mi viene malinconia: dalla prossima tutte saranno via via più piccole, perché le reclute alpine saranno sempre meno. E cosi quei battaglioni che non riuscirono ad annientare austriaci e russi, saranno sciolti con un tratto di penna del ministro di turno.
Udine è stata un'altra cosa. L'anno scorso avevo impiegato meno tempo a rientrare da Asti. A qualcuno non sono state sufficienti cinque ore, qualcuno, causa tappe ristoro, ne ha impiegate addirittura sei. Qualcuno è tornato il giorno dopo, per non interrompere troppo bruscamente l'idillio della festa. Da bravi alpini!.

Gianfranco Dal Mas