6 maggio 1976 - VENZONE TREMO' |
Giugno 1996 |
Ero in licenza premio da due
giorni. Eravamo tornati da Vaiano dopo un mese e mezzo di ininterrotto
servizio di sorveglianza alle gallerie della tratta ferroviaria
Bologna-Firenze (erano gli anni bui del terrorismo e degli attentati ai
treni). Avevamo festeggiato la nostra licenza al ristorante “Udinese”, che
era l'abituale luogo di ritrovo per i nostri incontri fuori caserma.
La sera di quel triste sei
maggio le tremende scosse si fecero sentire anche nel Coneglianese. La mattina
dopo le notizie erano confuse e non era ancora chiaro quale fosse l'entità
del sisma. Si sapeva solo che l'epicentro era la Carnia. Qualcosa mi diceva
che dovevo immediatamente partire e rientrare nella mia caserma di Venzone.
Ci ritrovammo cinque
commilitoni a ripercorrere la stessa strada fatta due giorni prima.
Non era rimasto nulla della
nostra gaia spensieratezza, nessuno parlava in macchina, il coraggio che ci
aveva fatto partire senza esitazione si stemperava ora piano piano in paura:
la paura dell'ignoto. Sacile, Pordenone, Zoppola, Dignano, nulla di
particolare. Solo a Maiano fu netta la dimensione del disastro.
La macchina dei soccorsi non
era ancora stata avviata, il traffico non era intenso e non avemmo difficoltà
a raggiungere la caserma. Man mano però che ci avvicinavamo a Venzone,
diventavano sempre più evidenti i segni della devastazione.
Nella caserma c'era gran
fermento ed un febbrile andirivieni di militari e mezzi di soccorso.
L'edificio era irrimediabilmente segnato, solo la palazzina comando si
presentava intatta.
Davanti si stagliava la sagoma del San Simeone, che aveva perso il suo aspetto familiare. I suoi profili apparivano devastati ed il fatto che proprio dalle sue viscere era partita l'onda distruttrice gli conferiva un aspetto terrificante. Ancora più devastata appariva forcella Forcalevis, lacerata da voragini profonde come se proprio lungo quei pendii l'inferno avesse scelto una via d'uscita.
Ci presentammo subito al
comandante della compagnia, la 72, il capitano Fedri. Il “capitano” era un
uomo duro, un militare irreprensibile, uno che durante l'addestramento faceva
sputare sangue.
Scoprimmo in quell'occasione
che era anche una persona di straordinaria umanità. Il suo aspetto rivelava
tutta la tensione vissuta nella notte precedente nell'organizzare i soccorsi a
favore dei sinistrati. Tra l'altro era rimasto colpito in prima persona dalle
conseguenze del sisma, essendo la sua famiglia rimasta senza tetto.
Il capitano ci ringraziò e per un attimo, sfuggenti, ma inequivocabili, apparvero sul volto i segni di un'intensa commozione. Con altri alpini fui comandato di guardia per impedire episodi di sciaccallaggio e tenere lontane le persone dalle case pericolanti. Entrando nel centro di Venzone ebbi il senso dell'immane tragedia: un paese praticamente raso al suolo, una montagna di detriti. E le travi sporgenti sembravano croci.
La notte fu terribile: buio
spettrale, paura, ed un silenzio lugubre, rotto solo dal sordo rumore di sassi
che, ad ogni nuova scossa, franavano sul greto asciutto della Venzonassa.
Scene di disperazione ma anche
di grande civiltà tra le macerie di quelle case fatte di sassi tenuti assieme
dalla calce bagnata dal sudore di intere generazioni. Un vecchio mi disse che
quei 55 secondi erano riusciti a fare ciò che non era riuscito a secoli di
calamità e devastazioni ed ai tedeschi durante la guerra. Quest'uomo
ringraziava Dio perché la casa era sì distrutta, ma non c'era stata nessuna
vittima.
Vidi la gente rimboccarsi le
maniche e ricominciare di nuovo. E nella caserma inagibile noi alpini eravamo
diventati punto di riferimento per la gente che sembrava contasse su di noi
per superare la disperazione e riprendere coraggio.
In occasione della recente
adunata di Udine mi sono ritrovato con alcuni ex della 72a compagnia.
L'incontro è avvenuto al
ristorante “Udinese” di Venzone, lo stesso in cui 20 anni fa festeggiavamo
la nostra meritata licenza.
Ora Venzone è una cittadina
di rara bellezza, il Duomo è stato mirabilmente ricostruito ed i tristi
cumuli di macerie sono un lontano ricordo.
Abbiamo rievocato la nostra
naia, e quegli avvenimenti che fecero sì che noi, alpini del terremoto,
vivessimo una esperienza unica ed irripetibile.
Abbiamo ricordato la
commozione del capitano Fedri e le canzoni che cantavamo la sera, prima di
addormentarci, nel sacco a pelo sui camion parcheggiati nel cortile della
caserma, per vincere la paura di quella montagna spaccata che ci stava davanti
e che sembrava in attesa di franare da un momento all'altro.
Ci siamo chiesti come potevamo
noi, ventenni inesperti ed inaffidabili, essere punto di riferimento per la
popolazione. Dopo 20 anni penso di aver trovato una risposta: il cappello.
Quel cappello. Quel buffo
cappello: metterlo in testa deve essere un sortilegio che ti segna per sempre.
Magari quando finisci la naia lo scagli lontano, più lontano possibile, poi
un giorno lo riprendi e lo custodisci gelosamente e guai a chi te lo tocca. Lo
metti su ad ogni occasione e non lo rinneghi mai.
Il perché l'ho capito proprio
durante l'ultima adunata, leggendo su uno striscione di non so quale sezione:
“Alpini una volta, alpini sempre”.
G. Tonon