ALPINI, POPOLO DI “MONE |
Aprile 1998 |
Nell’annuale assemblea della Sezione, esaurite le relazioni del presidente e dei responsabili dei vari settori di attività, è il momento di alcuni appassionati interventi su un tema che da tempo angoscia le Penne Nere: la drastica riduzione dei reparti alpini potrebbe, nel tempo, segnare la fine della nostra Associazione. Si deve prendere coscienza della situazione, discuterne, sensibilizzare, promuovere dibattiti ed iniziative. Non dobbiamo accettare passivamente che un patrimonio di valori e di tradizioni venga dimenticato modificando la caratteristica peculiare dei reparti alpini con l’istituzione di unità formate da professionisti.
La situazione è drammatica, avverte l’ex consigliere nazionale Chies, e forse gli alpini, forti ancora della consapevolezza di essere un grande numero e distolti dalle loro tradizionali iniziative, stentano a prendere coscienza delle reali dimensioni del fenomeno. Il problema non riguarda solo la riduzione delle Brigate Alpine ma anche il drastico ridimensionamento delle truppe all’interno delle stesse. Oggi arrivano ai reparti di montagna solo coloro che non sono obiettori o non hanno messo in moto strategie per accedere a centri di reclutamento dove la vita militare è meno difficile. In pratica al duro addestramento dei reparti alpini sembra che arrivino solo ... i “mone”.
Il problema si presta inevitabilmente a riproporre la mai risolta questione Alpini-Isitituzioni e cioè la capacità che questi avrebbero, in virtù del loro peso, di condizionare le scelte politiche, perlomeno quelle che riguardano più direttamente la loro esistenza; in definitiva il loro atteggiamento nei confronti della politica, atteggiamento che, come in ogni democrazia, spesso si concretizza attraverso la protesta.
Personalmente penso che, in questo senso, le Penne Nere siano ancora alla ricerca di una precisa identità. Nel vocabolario alpino la parola “politica” sembra infatti tabù. Innanzitutto la politica divide, ed uno dei valori sacri del vangelo dell’alpinità è la fratellanza. Inoltre per l’alpino, che non è capace di sottili differenze, politica e politici stessa cosa sono: come conciliare allora la sua schiettezza con l’ambiguità o incomprensibilità su cui si regge spesso il linguaggio dei politici? E come giustificare la burocrazia stupida, figlia della politica, che tutto paralizza, così lontana dal senso pratico dell’alpino pronto a rimboccarsi le maniche in ogni occasione ed a rispondere con i fatti ai bla bla da cui siamo sommersi? E cosa può pensare chi si ispira a valori antichi, quali la parsimonia e il rispetto dell’ambiente, di chi, sperperando e scialacquando, ha portato questo paese a tale stato di degrado?
Che i rapporti tra alpini e politici sono tutt’altro che idilliaci non lo scopro certo io: ricordate le ultime adunate? Appena qualcuno metteva piede a terra scendendo da un’auto blu erano salve di fischi: capo dello Stato, presidente del Consiglio, ministri e sottosegretari: non si è salvato nessuno.
La protesta. In un mondo in cui tutti contestano e si lamentano all’alpino risulta difficile protestare; non è nella sua indole, abituato com’è ad esprimersi sempre con i fatti. Se poi protestare significa scendere in piazza allora siamo su un altro pianeta. Se hanno qualcosa da dire a qualcuno gli alpini lo fanno in maniera civile ed in silenzio, con lo stile conciso e secco delle scritte che compaiono sugli striscioni in occasione della adunata.
L’unica protesta che si ricordi è stata tentata l’anno scorso a Reggio Emilia e tutti sanno come è andata a finire. Ci fu una spaccatura negli alpini: qualcuno diceva che portare il cappello sul cuore era un segno di protesta per la riduzione dei reparti di montagna; altri sostenevano invece (guai a nominare la parola “protesta”) che portando il cappello al cuore, che è il loro scrigno, gli alpini intendevano conservare tutto quello in cui hanno sempre creduto, credono e continueranno a credere. E mai, per tutta la durata delle sfilata, è stata nominata una sola volta dallo speaker ufficiale la parola “protesta”. Quando poi la bandiera è stata ripiegata è successo il finimondo. Come dicevo, se il rapporto Alpini-Istituzioni deve avere una fisionomia questa è tutta da reinventare.
Alpino-mona. Il binomio non è poi tanto nuovo. Sembra la traduzione letterale di uno stereotipo che l’alpino da sempre ha cucito sul groppone: ”tasi e tira”.
Alpino mona perché pulisce l’alveo del torrente e gli mettono la multa; perché riesce ancora a commuoversi ad un’alza bandiera; perché non si rassegna a staccare la sua immagine da quella di quell’animale chiamato mulo, che si ostina ancora a far sfilare alle adunate; perché testardamente legato a valori, tradizioni e coreografie semplici che, in un mondo che cambia così vorticosamente, sembrano fuori moda; perché nemmeno il giorno della adunata, nonostante i grandi numeri, riesce a fare audience; perché continua a chiamare patria quella che tutti chiamano paese; perché non chiede mai nulla; perché quando in segno di amore l’ha ripiegata è stato accusato di vilipendio alla bandiera. Alpino mona perché non sa nemmeno vendere la propria immagine: gli alpini infatti sono uomini che dedicano il proprio tempo libero ad opere di solidarietà, a raccogliere fondi per questa o quella azione od ente benefico; impegnati in opere di restauro o di difesa dell’ambiente; organizzatori instancabili di feste per tener vive la cultura e le tradizioni popolari; uomini che si distinguono per il loro senso civico, che danno vita a luoghi di aggregazione sociale espressione di quel volontariato civile che rappresenta uno degli aspetti più nobili e generosi della nostra vita nazionale; gente pronta a correre dove l’emergenza chiama, anche fuori del territorio nazionale, incurante delle barriere geografiche e culturali. Eppure la loro immagine sembra buona solo per reclamizzare il lancio di qualche vino da supermercato. E, per giunta, ignobilmente confezionato in cartone...
Gianfranco Dal Mas