RICORDI DI NAJA 2 |
Settembre 1999 |
La castrazione. Caserma Cantore,
Tolmezzo. Nel 1974 vi erano ospitati due Gruppi di artiglieria: l’Udine (3°
Art. Mont.) ed il Pinerolo (1° Art. Mont.). Si, nella Cantore c’era un
gruppo della Taurinense. Cosa ci facessero i Piemontesi in terra friulana
nessuno lo sapeva. Si parlava di una vecchia punizione per ammutinamenti e per
un capitano gettato dalla finestra. La fama del Pinerolo era quella che era ma
le pessime cose che si dicevano sul Gruppo lasciavano tutti nella più totale
indifferenza (qualcuno ne andava anche fiero). La convivenza con l’Udine,
poi, non faceva che amplificare a dismisura le “sbracature” degli
artiglieri del Pinerolo. Il Gruppo Udine, le cui batterie erano guidate da
capitani che facevano sputare sangue, era una macchina perfetta, perennemente
protesa alla ricerca della perfezione formale e operativa. A tale regime si
erano adattati anche i muli che erano stati addestrati a rispondere ai comandi
di “attenti” e “riposo”.
Il Pinerolo era dunque la
vergogna della Julia. In compenso il motto del 1^ Art. Mont. in fatto di
originalità era una chicca: “Mai niun davant!”. E poi lo scudetto della
Taurinense non aveva nulla da invidiare a quello della Julia: se
l’aggressività dell’aquila nera si poteva abbinare ad un superbo gesto di
eleganza, lo slancio del toro della Brigata piemontese, rappresentato nel
pieno della veemenza offensiva mentre si inalbera sulle zampe posteriori, dava
una sensazione di smisurata forza ed incontenibile
potenza.
Ma, ahimè, una operazione
di microchirurgia eseguita con un sapiente netto taglio di lametta, l’aveva
privato dei suoi fondamentali attributi. E così nell’espressione dei tori
che gli artiglieri del Pinerolo si portavano a spasso nello scudetto cucito
sulla divisa c’era qualcosa di triste, represso e mortificante....
Luciana.
I muli, maledette bestiacce per alcuni, curiosi quadrupedi per altri, amati ed
odiati, coccolati e vezzeggiati o ignobilmente vilipesi, e qualche volta fatti
oggetto di indicibili violenze. Erano loro i protagonisti della vita in
caserma, perché attorno ad essi ruotava tutta l’attività del giorno e
della notte. Ed era vita dura. Ed ho sempre pensato (ma mi son sempre guardato
bene dal dirlo) che chi non era dell’Artiglieria da Montagna non sa cos’è
la naia. Ve n’erano di docilissimi, altri mal sopportavano i frequenti cambi
di conducenti. Tra questi c’era un torinese, certo avvocato Cavanna, che
quando lo vedevi portare il suo mulo, Quarto, ti veniva in mente il finale
della settimana santa. Sbandierando la laurea in legge, Cavanna sognava la
sedia della fureria, diceva che era quello il suo posto. Ma in fureria c’era
un infermiere che supplicava giorno e notte che lo mettessero in infermeria.
In infermeria c’era uno stalliere che ci stava da Dio e non chiedeva nulla a
nessuno. Era il bello della naia.
Luciana era una mula
gigantesca, un culo alto così, atteggiamento da prima donna, sguardo che
metteva paura. Imbastarla era una operazione che solo pochi artiglieri
sapevano fare: l’operazione richiedeva tempo, pazienza e grande abilità. Ma
quando, dopo tentativi estenuanti, si sentiva calare il basto sulla schiena,
la Luciana diventava un animale docile e mansueto. Vi furono lotte e liti tra
gli artiglieri per contendersela: gestire la Luciana significava essere il mejo...
La spuntò un padovano, testardo peggio di un mulo.
Spesso di notte i
quadrupedi scappavano dalla scuderia (naturalmente quelli del Pinerolo). Gli
zoccoli, sull’asfalto del cortile, erano un surreale concerto notturno di
xilofoni. Era un’interminabile impresa, la mattina, riportali nella
scuderia. L’operazione più importante della giornata era
l’abbeverata-muli, cui partecipavano tutti, compresi i furieri e gli
imboscati. Era un’operazione difficile e rischiosa. I muli dell’Udine
andavano all’abbeveratoio a comando, bevevano a comando, rientravano a
comando. Quelli del Pinerolo, appena ne scappava uno scappavano tutti.
Manubrio.
La 7^ Batteria del Pinerolo era formata da piemontesi, abruzzesi, friulani,
pochi veneti, qualche bresciano ed un genovese, che, se la memoria non mi
inganna, si chiamava Grillo. Un vero genovese. Un giorno, forse per aver
smarrita la sua identità dopo una bevuta abbondante, Grillo diede una
sigaretta ad un alpino che gliela aveva chiesta. Il gesto fu considerato
miracoloso e la sigaretta finì in bella mostra in una soada
nella camerata, con tanto di motivazione, a perenne memoria.
Non gli andava mai bene
niente, al genovese, ma col tempo finì per affezionarsi ad Antenore. Quando,
durante una marcia, la povera bestia si sfracellò precipitando in un
crepaccio, il Grillo lo vidi piangere. Ma non seppi mai se era per la perdita
dell’animale o per le probabili conseguenze.
Il mio sergente, Angeli,
friulano doc, era famoso per i baffi spioventi e minuziosamente curati che gli
avevano procurato il nome d’arte “Manubrio”. Manubrio durante le marce
portava regolarmente al collo la macchina fotografica come un normale turista,
scattando istantanee a decine. Era un continuo mettersi in posa, con o senza
mulo, con o senza fucile, soli o in gruppo, aggrappati all’obice o
addirittura in sella al mulo...
Nessuno ebbe mai
l’occasione di vedere una foto di Manubrio.
Tra i tanti personaggi
della 7^ ricordo particolarmente i Di Prinzio, due abruzzesi che non parlavano
mai. Bassi di statura, erano loro a contendersi la vittoria in quella gara
demenziale che consisteva nel fare il giro del cortile della caserma di corsa
reggendo la bocca da fuoco dell’obice (98 kg).
Il Picolit. Il tenente veterinario,
Piscedda, non so da dove veniva. Era uno di quei personaggi che Dio li fa e
poi non sa dove collocarli. Figura unica, indefinibile, commediante ora
boccaccesco ora pirandelliano, fonte di involontaria comicità e di
paradossali ed inesauribile trovate,
si definiva esperto di muli, donne e vino. Un giorno Deodato per uno
screzio fatto a Luciana si ritrovò con un brutto sbrego sulla pancia.
L’operazione chirurgica di sutura della ferita venne seguita da tutta la
caserma. Piscedda non si accontentava di affondare l’ago nelle carni della
povera bestia: esaltato dalla presenza della vasta schiera di osservatori,
tenne una lezione sull’anatomia dei muli, disquisendo sulla tecnica di alta
chirurgia da lui usata per rimarginare la ferita. Lo sguardo di Deodato,
disteso sulla nuda terra, era di quelli che implorano pietà: sembrava dire
che essere capitato sotto i ferri del tenente Piscedda era una sciagura ben
maggiore dello scempio che si ritrovava nella pancia.
Visto com’era coi muli,
capimmo come sarebbe stato con le donne. Restava il problema del vino. Un
giorno Piscedda decise che era arrivato il momento di offrire due bottiglie
del tanto decantato picolit al
circolo ufficiali.
Riempimmo due bottiglie
del vino della mensa truppa, che di vino non aveva nemmeno il colore e, una
volta tappate, le lasciammo per due giorni tra la paglia della scuderia per
nobilitarle, attraverso la polvere, della patina del tempo. Tramite un
artigliere friulano, il “picolit” arrivò poi a Piscedda.
Dopo aver tenuto a
capitani, maggiori e colonnelli del circolo ufficiali una lezione sulla
cultura del picolit ed averne decantato ancora una volta le qualità, Piscedda
procedette al rituale della stura e della mescita nei bicchieri del
“prezioso” liquido.
Fu un capitano a rompere
per primo il silenzio, con una frase che è rimasta negli annali della storia
della caserma Cantore: “Mai bevuto un picolit così al circolo
ufficiali!”.
Mandi, mandi. Dunque, si diceva, della loro
fama gli artiglieri del Pinerolo andavano fieri e non perdevano occasione di
perpetuarla nel tempo. Ma proprio per questo il Gruppo era nel mirino di
colonnelli e generali che non perdevano occasione per distribuire quella che,
in gergo, allora come ora, si chiamava “carne”. Durante le marce di
trasferimento qualche penna bianca sbucava improvvisa da una radura, o ti
arrivava silenziosa da dietro o te la trovavi ad aspettarti dietro il
tornante. E, constatato che uomini e muli non erano in ordine, era ogni volta
regolarmente “carne”. Ricordo
una tappa di un campo estivo tra i boschi che sovrastano Paularo. Comparve
dietro, improvvisa, una gip. Un frenetico sussulto percorse tutta la
batteria, una voce “Generale, general, il generale, lè riva al general, è qui il generale!!” partì dalla coda ed in un baleno raggiunse
il comandante in testa. In pochi secondi il “branco” prese altra forma (ed
in questo quelli del Pinerolo erano molto esperti): si armonizzarono le
distanze tra mulo e mulo e tra squadra e squadra, si controllarono i basti e
l’assetto dei pezzi, si ridistribuirono le pressioni delle cinghie... Quando
il generale fu sulla colonna (si trattava di Parisio, comandante della Julia)
il capitano fermò la batteria, gli corse incontro con fare marziale e...
“Batteriaaaa atttt-ntiiii!!!”. Comandante della 7^ era il capitano
Pergamo, abruzzese, alpino doc. Quando il capitano Pergamo dava l’attenti,
sembrava che venissero giù le montagne. Nel silenzio improvviso in cui era
piombato attonito il bosco, gli echi di quel comando si rincorrevano sulle
volte dei dirupi.
Passava in quel preciso
istante vicino ai due ufficiali una anziana donna carnica, col tipico
fazzoletto in testa. Avanzava stancamente portandosi una vacchetta che
procedeva sul ciglio della strada ciondolando
la testa. Veniva da chissà dove e andava chissà dove, ma, tutti concentrati
sul generale ed ammutoliti sull’attenti, nessuno si era accorto di lei. Non
se l’aspettava, la vecchietta, non le era mai successo che un’intera
batteria di militari e muli si bloccasse così di schianto al suo passaggio.
Sorpresa e nello tempo molto onorata, non ritenne però fosse il caso di
fermarsi e continuò la sua strada felice quanto mai: «i’ su ringrâzi,
i’ su ringrâzi trop trop, ma no servive nuje, no coventave nuje... mandi
mandi».
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