L'ALTRO CAPPELLO |
Giugno 2002 |
La giornata del 6 aprile la passo per vias et aquas con Toni
Sarti ed Angelo Greppi in giro per i
cantieri. Sono arrivati in mattinata da Milano per assistere, in qualità di
responsabili della Protezione Civile ANA, ai vari interventi. I due sono
favorevolmente impressionati dalla logistica del campo base e
dall’organizzazione complessiva nei cantieri, ma, girando per i nostri
paesi, rimangono anche ammagliati dalla bellezza delle nostre colline, dal
paesaggio che circonda l’imponente castello di San Salvatore, da quel
suggestivo ed unico quadretto che è il Mulinet
de la croda e, non ultimo, dall’atmosfera tipicamente alpina di alcune
sedi.
E’ anche un continuo abbraccio tra vecchi amici che
si ritrovano, alpini che appartengono a Sezioni diverse e molto lontane ma che
sembrano conoscersi da sempre, a riprova di una lunga militanza nelle fila
della PC.
L’ultimo cantiere cui facciamo visita è quello di
San Vendemiano, che ha visto 180 alpini della Sezione Treviso impegnati nella
pulizia della scarpata a ridosso della Pontebbana. Conoscendo la zona e la
situazione precedente, mi rendo subito conto che si è trattato di una grossa
ed impegnativa operazione di bonifica. La squadra si sta preparando a
rientrare al campo base, ma la nostra macchina viene bloccata dai volontari.
L’invito è perentorio: o si scende per un bicchiere assieme o non si
riparte. Poi assieme al bicchiere saltano fuori anche il pane, il formaggio e
il salame...
Sarti non è mai stato da queste parti, Greppi invece
dice di aver vissuto un breve periodo a Vittorio Veneto tanti anni fa. Il
discorso finisce così per andare alle vicende della sua giovinezza. «Vedi -
confessa poi mostrandomi il cappello - questo non è quello originale, ma il
sostituto. Quello originale è a casa, gelosamente custodito come una reliquia
».
La cosa naturalmente mi incuriosisce. E così Angelo mi
spiega che nella “reliquia” sono impresse le sofferenze di 26 mesi di dura
prigionia in un lager tedesco.
Mi risulta che tutti gli IMI (Internati Militari
Italiani) pagarono la loro scelta con 20 mesi di prigionia: la cosa esige
quindi spiegazioni.
Come tante altre storie partorite dall’irrazionalità
della guerra, anche quella di Angelo Greppi ha dell’inverosimile.
Greppi, dopo l’8 settembre era finito prigioniero in
un campo di lavoro in Polonia.
Un giorno di aprile del 1945, dopo aver notato che dal
campo erano spariti tutti i Tedeschi, qualcuno aveva scorto un cavallo cosacco
al di là della rete. La festa degli internati era stata incontenibile: era
arrivata la fine della prigionia. I più felici erano i prigionieri russi che
vivevano il privilegio di essere liberati dai propri compagni.
La festa però durò poco perché questi furono messi
al muro e fucilati dagli stessi compatrioti il giorno dopo. L’accusa era di
collaborazionismo per aver accettato di lavorare per i Tedeschi (se si pensa
che chi non lavorava non mangiava…). Come se non bastasse i 30 soldati
italiani del campo, prima prigionieri dei Tedeschi, furono dichiarati
prigionieri dai Russi. E fu prigionia dura, molto più dura di prima. Se con i
Tedeschi si mangiava poco, ora si mangiava ogni tanto, e cioè quelle rare
volte in cui i Russi ricordavano che anche i prigionieri avevano uno stomaco.
I 30 sventurati, inoltre, vivevano la loro prigionia perennemente rinchiusi in
una fetida baracca, con una sola ora di aria al giorno.
All’arrivo degli Americani, dopo altri sei mesi, i
prigionieri italiani poterono finalmente spegnere i morsi della fame. Ma era
una fame lunga, troppo lunga e repressa, che doveva essere saziata
gradualmente. E così, la mattina dopo, sette di loro erano freddi cadaveri.
Angelo se la cavò dopo aver patito dolori che squarciavano le viscere.
Una storia come tante altre vissute dagli alpini,
raccontata con un distacco impressionante, quasi tutto fosse rimosso o
dimenticato.
Il cappello accomuna gli alpini, ne uniforma lo stile
ed il sentire, li fa “uguali”, veci e bocia. Ma i cappelli alpini non sono
tutti “uguali”, perché alcuni possono essere trasformati dal sacrificio
in preziose reliquie. L’ho capito per la prima volta il 6 aprile 2002,
andando con Angelo Greppi per vias et
aquas.
Gianfranco Dal Mas