ALPINI DI PACE |
Dicembre 2003 |
Ringrazio il sindaco Floriano Zambon e il
Presidente Antonio Daminato per avermi concesso il privilegio di presentare alla
cittadinanza ed agli alpini della Sezione di Conegliano il libro “Alpini di
Pace, mezzo secolo sul fronte della solidarietà”, l’'ultimo impegno
letterario di Giovanni Lugaresi, romagnolo di nascita ma veneto
d’adozione, da molti anni del Gazzettino, scrittore di fama nonché apprezzato collaboratore a riviste e
periodici nazionali.
Spero di essere all’altezza del compito per dame il giusto risalto nel
panorama della letteratura alpina, se lo sarò il merito va anche all’amico
G.Franco Dal Mas, il quale un paio d’anni fa recensì, proprio qui a Palazzo
Sarcinelli, un altro lavoro di Lugaresi “Anarchico il pensier”, per le sue
dritte sull’autore e ottiche di approfondimento.
Alpini di pace, mezzo secolo sul fronte
della solidarietà
Quanta acqua è passata sotto i ponti
della storia in questi decenni.
Abbiamo visto crollare muri e cortine, abbiamo visto sfasciarsi imperi che
sembravano di granito, abbiamo visto sciogliersi ideologie e verità che
sembravano eterne, abbiamo visto cambiare la geopolitica del mondo, abbiamo
visto scoperte tecnologie che sfidano l’impossibile e ricerche scientifiche
che sfiorano ormai il mistero della vita.
Ma gli alpini sono rimasti sempre gli
stessi. Uomini dalla scorza dura e il cuore tenero. E quante cose hanno fatto
nel frattempo, quante!
Dagli imponenti slanci umanitari dopo terremoti ed alluvioni fino alle grandi pulsioni ideali nel nome degli amici
“andati avanti”, passando attraverso quelle che per i più sono cose
straordinarie ma per loro invece sono minuta quotidianità: pensiamo, ad
esempio, al recupero strutturale di beni artistici, minori certo, quali
chiesette, oratori campestri o semplici capitelli votivi, ma pur sempre antichi
testimoni della nostra cultura popolare e contadina, abbandonati colpevolmente
all’ingiuria del tempo; oppure alla salvaguardia dell’ambiente e del
territorio pulendo fiumi, boschi o ripristinando vecchi sentieri; e ancora le
raccolte di fondi e alimenti per azioni benefiche e sostegno materiale ai
disabili; e poi scuole, asili, acquedotti, centri ospedalieri in Italia e
all’estero ovunque ce ne fosse bisogno: Armenia, Madagascar, Kenia, Kossovo,
Bosnia, Albania, Russia, Romania ...
Ma i grandi protagonisti di tutto questo, gli alpini, non ne vogliono parlare e,
se ne sono proprio costretti dalle circostanze, lo fanno quasi scusandosi
sottovoce, con riguardo, perché l’umiltà è direttamente proporzionale alla
forza delle loro mani ed alla nobiltà del loro animo.
E sottolineo l’umiltà, un sentimento insito ed inscindibile negli alpini,
alle adunate loro sono abituati magari a sfoggiare penne guarnite di tanti
orpelli, penne di tutte le misure e di tutte le specie ornitologiche, ma mai, mai,
quella del pavone
Questo non vuol dire, però, che essi disdegnino le gratificazioni, anzi,
soprattutto se vengono da fonti autorevoli e nel contempo super partes
come in questo caso, ecco perché siamo qui in tanti, questa sera a sentire
Giovanni Lugaresi, un non alpino, a parlar bene di noi.
E che bene: le sue parole sono musica per le nostre orecchie, miele per i nostri palati, adrenalina pura per i nostri cuori,
una rabboccata di olio nuovo per i nostri gomiti.
Sì, perché Giovanni Lugaresi, grande e splendida voce degli alpini, cassa di
risonanza di tutta l’alpinità … non è alpino. Che peccato esclamerà
qualcuno, che curioso paradosso dirà qualcun altro, che splendida
contraddizione puntualizzano, invece, coloro che lo conoscono da vicino.
E’ l’autore stesso in Anarchico il pensier a spiegarne il motivo:
"Spesso mi è capitato di incontrare persone le quali mi chiedevano se
avevo svolto il servizio militare nelle truppe alpine. E il perché si spiegava
facilmente: la mia partecipazione in veste di cronista alle annuali adunate
nazionali delle penne nere. Una partecipazione assidua e certamente
appassionata, il che faceva credere, appunto, che anch’io fossi dei loro. Alla
risposta negativa, e che la naja l’avevo fatta nel genio, constatavo una sorta
di delusione nei miei interlocutori Ai quali, peraltro, dovevo spiegare il perché
di questa mia "passione alpina”. E la mia spiegazione era, ed è,
che nella sterminata letteratura cosiddetta di guerra, la componente alpina
rappresenta un elemento tutt’altro che trascurabile, dal momento che alcune
centinaia di testi si riferiscono, appunto, a vicende che hanno come
protagoniste le penne nere. Sono vicende che parlano di gente montanara chiamata
a combattere, prima (cioè nella Grande Guerra) nel proprio habitat, quindi, nei
conflitti che seguiranno, un po' dovunque: dalle sabbie africane ai monti della
Grecia e dell’Albania fino alle sconfinate steppe russe.
Quella letteratura di guerra scarpone si confonde (o meglio, è specchio) con la
vita. Perché le penne nere le abbiamo poi viste all’opera in questi anni di
pace: intervenire volontariamente, generosamente, in ogni calamità naturale e a
portare aiuto alle popolazioni colpite.
Ecco il perché della mia passione per gli alpini: esempio di umiltà e di una
generosità straordinarie, di un valore e di una capacità do sofferenza
rari”.
Questo suo ultimo libro, Alpini di pace è quindi un’ulteriore
dichiarazione d’amore verso gli alpini. E' un testo scritto in un linguaggio
di facile fruibilità, mondato da qualsiasi frivolezza letteraria che
striderebbe di fatto con la praticità propriamente alpina; un testo scremato da
ogni retorica inutile per ricercarne, piuttosto, l’immediatezza e
l’efficacia espressiva, un testo permeato di quel realismo scevro dal solito
manierismo dello scoop, cui spesso siamo abituati da un giornalismo,
cinico e superficiale, attento solo alla tiratura.
La narrazione dei vari eventi raccolti da Lugaresi, invece, ne rispecchia la
comprovata professionalità ed in ogni caso è sempre documentata ed obiettiva,
incalzante e coinvolgente.
In ogni riga aleggia immane il profondo
rispetto che lega l’autore all’universo variegato delle penne nere, fatto di
storie e memorie, di uomini e luoghi, di leggende e pietre, di sangue e sudore,
di eroismi e fatiche, di fede e bestemmie, che poi non sono altro che preghiere
fuori ordinanza.
Sì, perché l'alpino nella sua essenza è
un enigma tanto valoroso in guerra quanto generoso in tempo di pace, un uomo che
in qualsiasi caso fa dello spirito di corpo quasi una ragione di vita. Se non
che, mentre sul primo aspetto esiste un’ampia e varia pubblicistica,
sull’altro nulla, o quasi è stato scritto.
Due aspetti della medesima iconografia alpina che l’autore ha sempre
tratteggiato con nitore in tutti i venti capitoli che compongono questa sua
ricerca per porre rimedio a tale carenza.
Un insieme complesso di ideali patriottici, etici ed umani che nascono dal
radicato senso del dovere, dalla sacralità del lavoro e dalla secolare pietas
contadina che nelle disgrazie affratella tutti i poveri cristi, nemici compresi.
Un capitolo del libro ci interessa da vicino, in quanto è incentrato
interamente all’iniziativa, denominata Operazione San Quirico di Assisi,
condotta congiuntamente dalle sezioni di Conegliano e Vittorio Veneto, con lo
scopo di restaurare il monastero di clausura delle Clarisse deteriorato dal
terremoto del 1997 che devastò l’Umbria. Fin dalla sua costruzione, nel
lontano 1300, i bisognosi e gli afflitti avevano bussato alla porta del loro
monastero, trovando sempre ospitalità, cibo e conforto; questa volta, invece,
furono le Clarisse a dover bussare ad altre, tante, porte ricevendone, però,
solo premurose promesse e nient’altro.
Poi bussarono alla porta degli alpini. E gli alpini risposero. Come sempre, come
sono abituati.
Un centinaio di volontari impiegati in ben 11 turni di lavoro tra l’ottobre
1998 e il febbraio successivo, 8 mila ore di lavoro, una quantità enorme di
materiale impiegato con in più la difficoltà logistica di operare a ben 400 km
di distanza.
Fede, provvidenza, carità e quella preghiera nobile e grande - scrive
l’autore - alla quale assurge il lavoro dell’uomo, quando sia fatto per
l’amore di Dio, e a Dio offerto, hanno infatti accomunato in quei mesi gli
alpini (l'azione) e le clarisse (la contemplazione) in un’opera che è, viene
da dire, a maggior gloria di tutti: di Dio, naturalmente, ma anche delle
clarisse e degli alpini.
E i volontari hanno così ricordato con commozione quella toccante esperienza:
San Quirico è ... l’incontro con le voci angeliche della vita claustrale e
testimoniare la pace ricostruendo le pietre di un vecchio monastero.
San Quirico ... è stato anche qualche moccolo provocato dalla durezza della
pietra, ma le bestemmie degli alpini non salgono in cielo, esse rimangono a
terra sepolte dalla fatica e purificate dal sudore, al cielo sono salite le
preghiere e i canti condivisi con le clarisse.
San Quirico ... è stato una lunga preghiera per onorare i nostri morti, gli
amici alpini passati avanti. Essi erano orgogliosi di noi nel vederci da lassù,
impegnati in quest’opera. Erano accanto a noi e qualche volta, vedendoci in
difficoltà, ci hanno aiutato, lavorato di notte con le loro cazzuole
silenziose.
E che dire poi dell’Operazione Sorriso a Rossosch. Altra pietra miliare degli
alpini di pace, alla quale in parteciparono molti della nostra sezione, taluni
anche con importanti compiti di responsabilità, altri con generose donazioni di
materiali Nomi e ditte a noi ben noti che sono riportati assieme ai dettagli
tecnici, nello specifico capitolo del libro.
Quel giorno a Rossosch c'ero anch’io, - scrive con orgoglio il Lugaresi - quel
giorno dell’inaugurazione, 19 settembre 1993, data che resterà nella storia
d’Italia, come un’altra di mezzo secolo prima, seppur vissuta in circostanze
completamente diverse, anzi opposte.
E qui il riferimento commosso va alla
ricorrenza della tragica ritirata delle divisioni alpine dal Don fino alla
gloria di Nikolajewka.
E noi, alpini di oggi, alpini di pace
come egli ci chiama, noi che facciamo della devozione verso i nostri caduti il
collante e la molla per tutte le nostre iniziative di carattere sociale ed
umanitario, noi che facciamo del ricordo di chi è andato avanti il cordone
ombelicale che alimenta il nostro attaccamento ai valori etici e di Patria, noi
come potevamo non ricordare degnamente il loro sacrificio in terra di
Russia?
Come potevamo, noi, dimenticare i nostri
fratelli, tanti –troppi, stanchi di guerra e di gelo, prostrati e congelati ai
piedi della ripida balka, rattrappiti sull’uscio dell’ultima isba,
inghiottiti dall’immane turbine bianco, smarriti fardelli di cenci e di povere
ossa, avvinghiati con disperazione al miraggio stremo di casa, di sole, di
Italia?
Come potevamo, noi, non onorarne la memoria se non con un significativo,
grande, gesto di pace?
Era scritto, era ineluttabile, così, dopo
50 anni, siamo tornati sul Don per sancire questa ritrovata pacificazione con il
popolo russo. Operazione sorriso l’abbiamo chiamata, e mai definizione
fu così appropriata e bella, e là a Rossosch dove era allocato il comando
delle truppe alpine di Nasci abbiamo costruito un bellissimo, attrezzatissimo,
funzionalissimo asilo.
Come il sacrario del Bosco delle penne mozze di Cison, anche questo
edificio costruito in quella che fu terra nemica, vuole essere la nostra eterna
preghiera di pietra, vuole essere un universale messaggio di pace. Un altro
segno tangibile della Pietas alpina che non conosce confini, non porta
rancori, non coltiva violenza. Ecco perché siamo tornati in Russia da amici, da
fratelli riconciliati, per non dimenticare, mai, il dramma di centomila odissee
mai narrate ed asciugare finalmente il pianto di tante madri e spose che sono
incanutite nella vana attesa e che non hanno una tomba dove deporre un fiore.
Quando il mio pensiero torna là a Rossosch io che ebbi l’onore di farvi un
turno di lavoro nel ‘92, chissà perché ma mi viene spontaneo abbinare
quell’asilo ai girasoli, la coltivazione caratteristica del Don.
Il girasole, quel grande fiore dai colori caldi e mediterranei, che si nutre, si
alimenta della terra intrisa del sangue dei nostri alpini e che ricopre con un
manto dorato la steppa.
La steppa, quella madre generosa che serba gelosamente l’ultimo gemito,
l’ultimo anelito, l’ultimo sospiro di quegli strani invasori dal tallone
lieve, soldati con le mani rudi da contadini, stranieri dal cuore buono.
Ecco, mi piace pensare che allietati dai giochi spensierati dei bimbi di
quell’asilo, nel sereno crepuscolo di orizzonti infiniti, ninnati da brezza
lieve e cullati da nenie arcane, sorridano anche i girasoli, ora.
E che questi nostri sentimenti oggi abbiano trovato corpo e spessore nella penna
di Lugaresi, alpino ad honorem, ci conforta, ci incoraggia, ci
inorgoglisce, ci sprona a non mollare.
Allora portiamo a casa una copia di questo
libro, facciamone un bel dono ai più giovani affinché un domani rinfoltiscano
i ranghi, regaliamolo ad amici e parenti, mettiamo da parte - una volta tanto -
la nostra umiltà e facciamone un vanto di tutta l’Associazione e anche
personale, perché il tempo passa, ognuno di noi passerà, ma non le opere, e le
nostre opere, anche le più semplici, porteranno sempre l’emblema delle penne
nere, esse saranno il nostro testamento imperituro, la prova che anche noi nel
nostro piccolo, abbiamo contribuito a costruire un mondo più equo e solidale.
Questi sono i principi basilari che animano tutte le iniziative targate A.N.A.,
un campionario eloquente ed emblematico, un campionario di uomini ed imprese
passati dalla cronaca nella storia: una storia più recente, la storia del
nostro tempo, non meno tormentato e drammatico di altri tempi e nel quale più
che mai sono necessarie testimonianze di bene che oggi, come ieri, possono
essere sintetizzate nella semplice, ma eloquentissima espressione popolare
dialettale, riferita dallo scrittore triestino Pietro Jahier, al passare della
fanfara del suo reparto:
I è forti, i alpini, ‘sti fioi de cani!
Giorgio Visentin