LE PORTATRICI CARNICHE |
Dicembre 2004 |
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La straordinaria vicenda delle Portatrici carniche si colloca nella storia della prima guerra
mondiale, come fatto, forse unico, nella cronaca dei conflitti armati.
I fatti ricordati in queste
pagine, in una sintesi necessariamente breve, riguardano le Portatrici del comune di Paluzza e delle
frazioni di Rivo, Casteons, Naunina, Cleulis e Timau, sia per la rilevanza del loro numero che per
la notevole ampiezza del fronte di combattimento da esse servito.
E’ d’obbligo precisare che
analoghe vicende hanno vissuto con uguale impegno, le Portatrici di altri 23 Comuni tra i quali Sutrio, Cercivento, Treppo Carnico, Ligosullo, Paularo, così come quelle degli altri Comuni delle
Alpi Carniche, prossimi alla linea di confine.
I luoghi citati mi sono ben noti perché il Friuli e la Carnia sono la mia Terra dove ho prestato il servizio militare
nell’11° RGPT Alpini d’Arresto, composto nei primi anni ‘70, dai battaglioni Val Tagliamento, Val
Fella e Val Natisone e competente per la difesa del settore But, Degano, Chiarsò.
La preziosa opera
delle portatrici di Paluzza si svolse nel sottosettore Alto But e in parte nel sottosettore Val
Chiarsò, sino a ridosso della linea del fronte che si estendeva dal monte Coglians m. 2780, Cresta di
Collinetta m. 2188, Passo di Monte Croce Carnico m. 1360, Pal Piccolo m. 1886, Freikofel (Cuelat) m.
1757, Pal Grande 1809, Pizzo Timau m. 2217, linea difensiva dei Battaglioni Alpini a reclutamento
locale Tolmezzo e Val Tagliamento.
Il sottosettore di destra, il Val Chiarsò, si estendeva da Pizzo
Timau m. 2217, Cima Avostanis m. 2193, Passo Pramosio m. 1804, Monte Questalta m. 2198, Monte Cullar
m. 1794 era presidiato dai Battaglioni Alpini a reclutamento piemontese Borgo San Dalmazzo e Saluzzo.
In sostanza, la linea di combattimento rifornita dalle Portatrici di Paluzza e degli altri comuni
dell’Alto But, Sutrio e Cercivento, aveva un’ampiezza frontale di circa 16 chilometri, poiché si
estendeva dal Monte Coglians al Monte Questalta e comprendeva inoltre le posizioni più arretrate di
Monte Terzo e del Lavareit.
La linea del fronte del Sottosettore Alto But era una linea strategica
molto calda e lo dimostra il fatto che dopo 40 giorni dall’inizio del conflitto, venne conferita
alla Bandiera dell’8° Regt. Alpini una Medaglia d’Argento al Valor Militare con questa motivazione:
“Per l’incrollabile tenacia, il superbo valor, l’abnegazione di cui dettero prova i Battaglioni
Tolmezzo e Val Tagliamento in aspre violentissime lotte, mantenendo saldamente il possesso di
importanti posizioni a prezzo di un largo e generoso olocausto di sangue (Pal Piccolo, Freikofel,
Pal Grande, 24 Maggio – 4 Luglio 1915)”.
La forza media presente nei Sottosettori But e Val Chiarsò,
si aggirava costantemente intorno ai 10 – 12 mila uomini. Circa un uomo ogni 1,5 metri di fronte.
Tutti questi soldati per vivere e combattere, dovevano essere vettovagliati ogni giorno e riforniti
di munizioni, medicinali, materiali di rafforzamento delle postazioni, attrezzi vari e così via.
Dal
fondo valle, dove erano dislocati magazzini e depositi militari, sino alla linea del fronte, non
esistevano rotabili o carrarecce che consentissero il transito di automezzi e di carri a traino
animale.
Si potevano seguire a piedi sentieri e qualche mulattiera. Ogni rifornimento dei reparti
schierati a difesa del confine doveva perciò avvenire con il trasporto a spalla; per effettuarlo non
si potevano sottrarre militari alla prima linea senza recare pregiudizio alla efficienza operativa
delle varie unità.
Le salmerie dei battaglioni non bastavano e d’inverno non erano impiegabili. Il
Comando Logistico della Zona e quello del Genio, furono costretti a chiedere il concorso della
popolazione, ma gli uomini validi erano tutti alle armi e nelle case erano rimasti solo gli anziani,
i bambini e le donne.
E le donne di Paluzza, avvertendo la gravità di quella situazione, non
esitarono ad aderire al pressante invito che con toni drammatici veniva loro rivolto e si misero
subito a disposizione dei Comandi Militari per trasportare a spalla, quanto occorreva agli uomini
della prima linea. Alcune di loro erano quindicenni.
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L’opera e il sacrificio di queste donne, sono
stati così descritti dal Gen. Costantino De Franceschi di Paluzza: “Aduse da secoli ad una atavica
pesante fatica a causa della estrema povertà della loro terra, quelle donne indossarono la gerla di
casa – che potrebbe rappresentare il simbolo della loro vita – per portarla questa volta al servizio
del Paese in guerra”. Solo che invece di riempirla di granturco, patate, fieno e di altri generi
necessari alla casa e alla stalla, esse si apprestarono con generoso slancio a caricarla di granate,
cartucce, viveri e altro materiale, col peso di oltre 30, 40 chili e oltre.
In breve tempo si
costituì un vero e proprio Corpo di ausiliarie formato da donne giovani e meno giovani, dai 15 ai 60
anni di età, dalla forza pari ad un battaglione di 1000 soldati.
Furono munite di un libretto
personale di lavoro sul quale i militari addetti ai vari magazzini segnavano le presenze, i viaggi
compiuti, il materiale trasportato ad ogni viaggio; furono anche dotate di un bracciale rosso con
stampigliato lo stesso numero del libretto e con l’indicazione dell’unità militare per la quale
lavoravano.
Dovevano presentarsi all’alba di ogni giorno presso i depositi e i magazzini dislocati
in fondo valle, su una estensione di circa sei chilometri – per ricevere in consegna e caricare
nella gerla il materiale da portare al fronte. In caso di emergenza potevano essere chiamate ad ogni
ora del giorno e della notte.
Per ogni viaggio ricevevano un compenso di lire 1,50 corrisposto
mensilmente. Non furono militarizzate, ma “militare” nel più nobile significato della parola fu il
loro comportamento sempre ispirato alla fedele e scrupolosa osservanza del gravoso impegno
responsabilmente assunto.
Fatto il carico nella gerla, partivano a gruppi di 15 – 20 senza apposite
guide, imponendosi esse stesse una disciplina di marcia. Percorso qualche chilometro in fondo valle,
attaccavano la montagna dirigendosi ogni gruppo a raggiera, verso la linea del fronte.
Dovevano
superare dislivelli che andavano da 600 a 1200 metri, vale a dire dalle due alle quattro ore di
marcia in ripida salita.
Giunte a destinazione con il cuore in gola, curve sotto il peso della gerla
in una così disumana fatica, specie d’inverno quando per avanzare affondavano nella neve fino alle
ginocchia, scaricavano il materiale, sostavano qualche minuto per riposare, per far sapere agli
alpini di reclutamento locale le novità del paese e magari per riconsegnare loro la biancheria
fresca di bucato ritirata, da lavare, nei viaggi precedenti. Dopodiché si incamminavano lungo la
discesa per il ritorno in famiglia, ove le attendevano i vecchi, i bambini, il governo della casa e
della stalla.
L’indomani all’alba si ricominciava daccapo con nuova lena. Qualche volta, durante il
viaggio di ritorno, veniva chiesto alle Portatrici di trasportare a valle, in barella, i militari
feriti o quelli caduti in combattimento. I feriti venivano poi avviati con le ambulanze agli
ospedali da campo; i morti venivano pietosamente seppelliti nel cimitero di guerra di Timau, dopo
che le portatrici stesse avevano scavato la fossa.
Durante i violentissimi attacchi nemici del 26 e
27 marzo 1916, che portarono alla perdita del Pal Piccolo e alla sua riconquista dopo furibonde
lotte corpo a corpo con 708 uomini fra le nostre fila fuori combattimento, di cui 190 morti, 573
feriti e 25 dispersi, le donne di Timau corsero a offrire la loro opera quali serventi ai pezzi di
artiglieria, chiedendo nel contempo di essere armate di fucile. Il loro impiego non fu necessario,
ma il generoso gesto rincuorò i combattenti suscitandone l’ammirato riconoscimento.
L’opera delle
portatrici, svolgendosi in zona di operazioni non era davvero priva di rischi e di pericolo.
Una di
esse, infatti, Maria Plozner Mentil, giovane madre di 32 anni, con 4 figli e il marito combattente
su altro fronte, giunta col suo carico fino a Casera Malpasso, a quota 1619, il 15 febbraio 1916
veniva colpita a morte da un “cecchino” austriaco. La salma fu poi collocata nel Tempio Ossario di
Timau, accanto a quelle dei 1764 soldati (di cui 73 austriaci) caduti combattendo sul sovrastante
fronte. Nel 1955 venne intestata a suo nome la caserma degli Alpini di Paluzza: unica caserma
italiana intestata a una donna.
Da armi austriache furono inoltre colpite altre tre portatrici di Timau e Cleulis: Maria Muser Olivotto, ferita da pallottola alla gamba sinistra nel febbraio del
1916, mentre con un gruppo di spalatrici e spalatori anziani, era intenta a sgomberare il sentiero
adducente al fronte del Monte Terzo, letteralmente sepolto e cancellato sotto una abbondante
nevicata; Maria Silverio Matiz, ferita da scheggia di granata ad un braccio nell’agosto dello stesso
anno, mentre con la gerla carica saliva lungo la mulattiera per Pramosio; Rosalia Primis, colpita da
una fucilata sul Faas durante un trasporto munizioni.
Senza nulla togliere al tenace valore dei
soldati combattenti, non v’è dubbio che se la linea del fronte dell’Alta valle del But poté essere
sempre saldamente tenuta, salvo qualche sfortunato episodio locale subito ristabilito, parte del
merito spetta anche alle Portatrici. Il 27 ottobre 1917, gli strenui difensori di quel fronte
dovettero ripiegare per non essere presi alle spalle a causa del cedimento del fronte dell’Isonzo.
Frammiste con i soldati in ritirata per raggiungere la nuova linea del fronte sul Grappa e del
Piave, dove si sarebbero poi combattute le grandi battaglie che portarono alla vittoria, camminavano
piangendo per recarsi profughe in Patria anche le Portatrici: insieme con i loro vecchi e con i loro
bambini, avevano dovuto abbandonare le povere case e i dolci focolari per non cadere in mano nemica
dopo tanti sacrifici.
Enzo Faidutti
Bibliografia: “Testimonianze della Grande Guerra sui monti di Timau e dintorni” di Lindo Unfer, Ed. Andrea Moro, Tolmezzo; “Guerra sulle Alpi Carniche e Giulie (La Zona della Carnia nella Grande Guerra)” di Adriano Gransenigh, Ed.Andrea Moro, Tolezzo; “Le Portatrici Carniche” Associazione Amici delle Alpi Carniche – Timau, Tipografia C. Cortolezzis di Paluzza. “Il Friuli del ‘15/18” di Lucio Fabi, Giancarlo L. Martina, Giacomo