UN ALPINO SUL K2 |
Aprile 2005 |
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Pierluigi Donadon, 50 anni, socio del CAI e dell’ANA, è salito fino ai 5000 metri del
campo base del K2, in occasione del cinquantesimo anniversario della storica impresa di
Compagnoni-Lacedelli.
A mezzo secolo dalla prima assoluta su uno degli ottomila più prestigiosi al mondo, una delegazione
di 25 Italiani, promossa dal CAI nazionale, ha viaggiato per 24 giorni, 17 a piedi, fino a raggiungere
il campo base da cui partono le spedizioni per attaccare la vetta.
Militare nel 1974 in Carnia come Alpino d’Arresto della Julia, Compagnia 269, iscritto al Gruppo Alpini di Santa Lucia di Piave,
Pierluigi Donadon dedica al padre Mario, anche lui Alpino, la sua impresa sportiva ed umana.
“Se di impresa si può parlare, la dedico a mio padre Mario che le montagne le ha viste soltanto durante la naja, ma è
grazie a mia moglie e ad alcuni amici che ho potuto coronare questo sogno in occasione del mio cinquantesimo
compleanno”.
Infatti, all’insaputa dell’interessato, la moglie Isabella e un gruppetto di amici hanno iscritto Pierluigi alla spedizione commemorativa promossa dal CAI, curandosi però di
avvertirlo per tempo, in modo da permettergli una adeguata preparazione fisica ed un accurato controllo medico.
Una trasvolata in aereo da Milano a Dubai e da lì ad lslamabad; poi 900 chilometri in
autobus fino a Skaram ed infine 150, duri, chilometri in jeep, prima di passare alla salita conclusiva a piedi fino al
campo base del K2.
Un viaggio dentro città caotiche e piene di colori e dentro paesaggi mozzafiato, passando dai sassi e dalle ghiaie di
smisurati fiumi in secca, agli immensi crinali franosi. Dai 42 gradi di lslamabad ai meno 15
del campo base.
Pierluigi Donadon si è portato anche il Cappello Alpino per una foto ricordo con alle spalle la Montagna degli Italiani,
da regalare al padre, da far vedere agli amici, insieme a tante, incredibili, immagini di una montagna e di un ambiente
tra i più straordinari al mondo.
Quali sono state le maggiori difficoltà?
"Per arrivare al campo base non ci sono particolari difficoltà tecniche, ma camminare dalla
mattina alla sera per 17 giorni, dormendo in tenda, mangiando i prodotti locali con poche proteine, è una vita da nomadi
a cui, decisamente, non siamo abituati. Ma l’entusiasmo era tale che tutte le difficoltà sono state superate”.
Quale la soddisfazione maggiore che porti esperienza?
“Andare in in un paese sconosciuto, vedere come vivono le persone, passare attraverso villaggi abitati da tanta povera gente è stato molto
istruttivo.
Ti fa riflettere sulla vita, su come si vive in certe parti del mondo, senza luce, senza acqua, con poco cibo, in una povertà assoluta, ma con gente serena e ben disposta sia con noi
occidentali, che tra di loro. Vivono la vita in modo molto diverso da noi e questo per me è stato motivo di riflessione.
Poi c’è un ambiente meraviglioso che ti permette di assaporare veramente l’avventura.
E infine la possibilità di conoscere di persona guide e portatori che fino ad allora avevo visto solo sulle
riviste specializzate. Come Little Karim, uno dei più grandi portatori d’alta quota
degli anni Ottanta, un vero mito dell’alpinismo”.
C’è stato qualcosa di particolarmente negativo che hai vissuto durante la spedizione?
“C’erano ragazzi di 16 anni che hanno portato sulle spalle, per giorni e giorni, carichi incredibili, anche di 30 chili
tra lo zaino proprio con cibo e fornelli e le nostre attrezzature della spedizione. Vedevo in loro mio
figlio, i nostri figli...
Ma lì le aspettative di vita sono di una cinquantina d’anni, si invecchia e si muore presto
anche per le condizioni in cui si è costretti a lavorare. Forse sarebbe stato più opportuno se la nostra spedizione
avesse assoldato un numero maggiore di persone per il trasporto dei materiali. Sarebbe stato moralmente più giusto”.
Antonio Menegon
A centro Little Karim con Pierluigi Donadon |