IO, ALPINO DEL TERREMOTO |
Aprile 2006 |
Ero in licenza premio da due giorni. Ero tornato a Venzone da Vaiano, presso Prato,
dopo un mese e mezzo di ininterrotto servizio di sorveglianza alle gallerie della tratta
ferroviaria Bologna-Firenze (erano gli anni bui del terrorismo e degli attentati ai treni).
Avevamo festeggiato la nostra licenza al ristorante “Udinese” di Venzone, che era l’abituale
luogo di ritrovo per i nostri incontri fuori caserma.
La sera di quel triste sei maggio le tremende scosse si fecero sentire anche nel Coneglianese.
La mattina dopo le notizie erano confuse e non era ancora chiaro quale fosse l’entità del sisma.
Si sapeva solo che l’epicentro era la Carnia. Qualcosa mi diceva che dovevo immediatamente partire
e rientrare nella mia caserma di Venzone.
Ci ritrovammo cinque commilitoni della zona a ripercorrere la stessa strada fatta solo due giorni prima.
Non era rimasto nulla della nostra gaia spensieratezza, in macchina nessuno parlava, il coraggio che
ci aveva fatto partire senza esitazione si stemperava ora piano piano in paura: la paura di cosa
avremmo trovato. Sacile, Pordenone, Zoppola, Dignano, nulla di particolare. Solo a Maiano fu netta
la dimensione del disastro.
La macchina dei soccorsi non era ancora stata avviata, il traffico non era intenso e non avemmo difficoltà
a raggiungere la caserma. L’edificio era irrimediabilmente segnato, solo la palazzina comando si
presentava intatta. Davanti si stagliava la sagoma del San Simeone, che aveva perso il suo aspetto familiare.
I suoi profili apparivano devastati ed il fatto che proprio dalle sue viscere fosse partita l’onda
distruttrice gli conferiva un aspetto terrificante.
Ci presentammo subito al comandante della compagnia, la 72, il capitano Fedri.
Il “capitano” era un uomo duro, un militare irreprensibile, uno che durante l’addestramento faceva
sputare sangue. Scoprimmo in quell’occasione che era anche una persona di straordinaria umanità.
Il suo aspetto rivelava tutta la tensione vissuta la notte precedente nell’organizzare i soccorsi a
favore dei sinistrati.
Con altri alpini fui comandato di guardia per impedire episodi di sciaccallaggio e tenere lontane le
persone dalle case pericolanti. Entrando nel centro di Venzone ebbi il senso dell’immane tragedia:
un paese praticamente raso al suolo, una montagna di detriti. Le travi sporgenti sembravano croci,
il bellissimo duomo un ammasso di pietre addossate a qualche muro desolatamente proteso al cielo.
La prima notte fu terribile: buio spettrale, paura, ed un silenzio lugubre, rotto solo dal sordo rumore
di sassi che, ad ogni nuova scossa, franavano sul greto asciutto della Venzonassa.
In quei giorni fui testimone di scene di disperazione ma anche di grande civiltà tra le macerie
di quelle case fatte tutte solo di sassi raccolti dal fiume. Un vecchio, la faccia scavata dalla fatica
e gli occhi infiammati dalla rabbia, mi disse che in 55 secondi il terremoto era riuscito a fare ciò
che non era riuscito a secoli di calamità e devastazioni, ed ai Tedeschi durante la guerra.
Pareva mi dicesse che Dio era stato peggio di Hitler. Ma un altro ringraziava Dio perché la casa era
sì distrutta, ma non c’era stata nessuna vittima.
La cosa che più mi colpì fu l’ostinazione di voler subito ricostruire, di non saper attendere i tempi,
la voglia di rimettere in piedi le proprie mura in qualsiasi maniera, la voglia di continuare senza
chiedere nulla a nessuno.
Vidi la gente rimboccarsi le maniche e ricominciare di nuovo. E nella caserma inagibile noi Alpini
eravamo diventati punto di riferimento per la gente che sembrava contasse su di noi per superare
la disperazione e riprendere coraggio.
Ora Venzone è una cittadina di rara bellezza, il duomo è stato ricostruito con le stesse pietre,
a testimoniare, forse, l’ostinazione di quella gente, ed i tristi cumuli di macerie sono un lontano
ricordo. Ma qualcosa è andato irrimediabilmente perduto, perché dopo un terremoto nulla è più come
prima. Ci siamo ritrovati ancora noi ex della 72ma compagnia ed una volta al ristorante “Udinese”
di Venzone, lo stesso in cui 30 anni fa festeggiavamo prima di andare in licenza.
Abbiamo rievocato la nostra naia e quegli avvenimenti che fecero sì che noi, Alpini del terremoto,
vivessimo una esperienza unica ed irripetibile. Abbiamo ricordato la commozione del capitano Fedri
e le canzoni che cantavamo la sera, prima di addormentarci, nel sacco a pelo sui camion parcheggiati
nel cortile della caserma, per vincere la paura di quella montagna spaccata che ci stava davanti e
che sembrava in attesa di franare da un momento all’altro. Ci siamo chiesti come potevamo noi,
ventenni inesperti ed inaffidabili, essere punto di riferimento per la popolazione.
Dopo 30 anni penso di aver trovato una risposta: era il nostro cappello.
Gianluigi Tonon