...NO L'E' CORETO 'NDAR VIA SENZHA SALUDAR


Dicembre 2007

E’ una delle tante storie che accadono nella nostra sede di via Beccaruzzi. Una storia che può capitare a tutti, a tutti gli alpini che frequentano la sede …e la taverna


Pronti per una bella partita a carte


La sana allegria de un gòto de vìn per accogliere
in taverna la sempre gradita presenza di
Giorgio Sonzogni,
già Vice Presidente Nazionale dell’ANA

Martedì 19 giugno 2007, sede di via Beccaruzzi. Finita la riunione cui ho partecipato, scendo le scale della nostra sede e… Alla fine delle scale, le belle scale strette e lucide, come si sa se vai dritto imbocchi l’uscita e ciao, se no puoi girare a destra, dove c’è la taverna.
Andare nella taverna è la cosa più semplice (so che dentro ci sono degli amici e l’amicizia pretende di essere sempre rinnovata) ma anche la più pericolosa perché non sai come va a finire. In questo momento so che non è bene che entri in quella taverna sia perchè domani mi aspetta una giornata difficile e sia perché certi liquidi, si sa, possono nuocere alla salute.
Il portone d’ingresso è spalancato sulla strada e rappresenta in questo momento la più semplice e consigliabile via di fuga. Ma, ahimè, anche la porta della taverna è spalancata… tiro via diritto, guardandomi bene dal girare lo sguardo a destra, come se stessi salutando qualcuno sulla strada, ma una voce dalla taverna mi blocca: “No l’é coreto ‘ndar via sezha saludàr!”.
Mi è andata male, il mio tentativo di fuga è naufragato, peccato. Siamo in quattro poi in cinque poi in sei attorno ad un tavolo. Al centro c’è una bottiglia d’acqua. E’ la prima volta che vedo qualcosa del genere, acqua fresca in una taverna alpina.
Ma, pensandoci bene, dopo la lunga stagione delle piogge proprio oggi è scoppiato il caldo, e poi tutto muta, tutto cambia, non c’è nulla di assoluto, e che male c’è se per una sera anche gli alpini vanno ad acqua? E’ noto lo spirito canzonatorio che in ogni tempo e sotto ogni latitudine ha costantemente accompagnato la vita spicciola dei reparti militari.
Basti pensare a quanto noi alpini guardavamo dall’alto in basso coloro che non portavano il cappello con la penna. Ma la storia si ripete anche tra alpini ed artiglieri da montagna e quando uno comincia a dirmi che l’artiglieria è una indegna succursale della gloriosa fanteria alpina, i toni si accendono.
Ed i discorsi vanno ai campi invernali ed estivi, alle marce interminabili, alle guerre con quelle bestiacce che erano i muli, agli alpini imboscati, ai capitani che ti facevano sputare sangue, alle fughe, alle bevute colossali.
Ed intanto il taverniere arriva con una caraffa di bianco ed un piatto di sopressa. E come si fa a dire di no ad una fetta di soppressa col pane... Poi i ricordi vanno al dopo naia, a quella “naia” che ciascuno di noi andò a vivere per conto suo, ed al ricordo di quegli interventi in cui ci siamo sentiti più alpini di quando eravamo sotto la naia. E all’avventura di San Quirico in Assisi, che per certi versi fu davvero un’avventura.
I turni settimanali, quando il buon Lino nei pressi del casello dell’autostrada alle 5 di mattina della domenica, buio pesto, già ne aveva per tutti mentre sistemava mezzi e uomini sul pulmino, ed avveniva una strana commistione tra il gruppo di alpini che si preparava a partire per portare la propria opera a 500 km ed gli sparuti gruppi che ancora rientravano dalla vita notturna per sciogliersi lì dove si erano dati appuntamento la sera prima.
E la patente ritirata a chi, diretto ad Assisi all’alba di una domenica, era incappato nell’autovelox della polizia che controllava i giovani che uscivano dalle discoteche.
Ed il legame creatosi con le Clarisse, e la festa il giorno dell’inaugurazione dei lavori. Ma intanto la prima caraffa se n’è andata ed il buon Renato provvede. E provvederà un’altra volta ancora. Anche perché l’amico che ho a destra, che inizialmente aveva messo con fare risoluto la mano sopra il bicchiere ed aveva iniziato con aranciata, ora mi allunga il bicchiere vuoto.
Si è fatto tardi, molto tardi, Renato spegne tutte le luci attorno a noi, chiude e riapre le porte per farci capire che sarebbe ora di chiudere. E quando vede che tutto è inutile se ne va raccomandandoci che qualcuno chiuda e conservi le chiavi.
La discussione continua sempre più animata ed accalorata, dimenticandoci che la porta è aperta, le ore si sono fatte piccole e ci troviamo nel bel mezzo di una città. E così, improvvisamente dalla strada una voce severa, e sull’arrabbiato, ci invita a smetterla, a parlare più piano e ad andarcene, invito accompagnato da qualche insulto pesante, molto pesante. Parole che arrivano dentro taglienti come lame affilate. Ma che non sortiscono effetti immediati. Quando usciamo scopriamo che nella città regna un immenso silenzio. In una panchina, presso la fontana del Nettuno, solo due amanti, perduti, che ci ignorano, e nessun altro, niente macchine, nessun rumore. Evanescenti ed impercettibili gli scrosci d’acqua che zampillano dalle narici dei cavalli dell’imponente dio del mare. E per due volte, in questo immane silenzio, irrompono, gravi e solenni, e pesanti come macigni, i rintocchi delle ore provenienti dal campanile del duomo. Ma non sortiscono alcun effetto, perché i nostri discorsi non si sono mai interrotti, ed ora vorrebbero risolvere le sorti degli alpini, il loro presente il loro futuro. Noi incuranti dei rintocchi del campanile, i due amanti della panchina incuranti delle nostre voci che, spesso concitate, inondano e si disperdono per la strada. Guardo preoccupato verso l’alto le finestre aperte dei palazzi che danno sulla strada… da lì potrebbe sempre arrivare qualcosa di più pesante di un rimprovero di inciviltà… Ed intanto scopro che nel silenzio della notte quest’angolo di Conegliano è di una bellezza unica, ma fra poche ore si spegneranno le luci, si riaccenderà il brusio e sarà di nuovo rumore incessante. Il gruppo si scioglie, qualcuno a casa si prenderà un’altra razione di improperi. Tutto perché no le coreto ‘ndar via senzha saludar…

Dlmgfr