...NO L'E' CORETO 'NDAR VIA SENZHA SALUDAR |
Dicembre 2007 |
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Martedì 19 giugno 2007, sede di via Beccaruzzi.
Finita la riunione cui ho partecipato, scendo le scale della nostra sede e…
Alla fine delle scale, le belle scale strette e lucide, come si sa se vai
dritto imbocchi l’uscita e ciao, se no puoi girare a destra, dove c’è
la taverna.
Andare nella taverna è la cosa più semplice (so che
dentro ci sono degli amici e l’amicizia pretende di essere sempre
rinnovata) ma anche la più pericolosa perché non sai come
va a finire. In questo momento so che non è bene che entri in
quella taverna sia perchè domani mi aspetta una giornata difficile
e sia perché certi liquidi, si sa, possono nuocere alla salute.
Il
portone d’ingresso è spalancato sulla strada e rappresenta in
questo momento la più semplice e consigliabile via di fuga.
Ma, ahimè, anche la porta della taverna è spalancata… tiro via
diritto, guardandomi bene dal girare lo sguardo a destra, come
se stessi salutando qualcuno sulla strada, ma una voce dalla
taverna mi blocca: “No l’é coreto ‘ndar via sezha saludàr!”.
Mi è andata male, il mio tentativo di fuga è naufragato, peccato.
Siamo in quattro poi in cinque poi in sei attorno ad un tavolo. Al
centro c’è una bottiglia d’acqua.
E’ la prima volta che vedo qualcosa del genere, acqua fresca in
una taverna alpina.
Ma, pensandoci bene, dopo la lunga stagione delle piogge proprio oggi è scoppiato il caldo, e poi tutto
muta, tutto cambia, non c’è nulla di assoluto, e che male c’è se per
una sera anche gli alpini vanno ad acqua?
E’ noto lo spirito canzonatorio che in ogni tempo e sotto ogni
latitudine ha costantemente accompagnato la vita spicciola dei reparti militari.
Basti pensare a quanto noi alpini guardavamo dall’alto in basso coloro che non portavano il cappello con la penna.
Ma la storia si ripete anche tra alpini ed artiglieri da montagna
e quando uno comincia a dirmi che l’artiglieria è una indegna
succursale della gloriosa fanteria alpina, i toni si accendono.
Ed i discorsi vanno ai campi invernali ed estivi, alle marce interminabili, alle guerre con
quelle bestiacce che erano i muli, agli alpini imboscati, ai capitani che ti facevano sputare
sangue, alle fughe, alle bevute colossali.
Ed intanto il taverniere arriva con una caraffa di bianco ed un piatto di sopressa. E come
si fa a dire di no ad una fetta di soppressa col pane...
Poi i ricordi vanno al dopo naia, a quella “naia” che ciascuno di noi
andò a vivere per conto suo, ed al ricordo di quegli interventi in
cui ci siamo sentiti più alpini di quando eravamo sotto la naia. E
all’avventura di San Quirico in Assisi, che per certi versi fu davvero un’avventura.
I turni settimanali, quando il buon Lino nei pressi del casello dell’autostrada
alle 5 di mattina della domenica, buio pesto, già ne aveva per tutti
mentre sistemava mezzi e uomini sul pulmino, ed avveniva una
strana commistione tra il gruppo di alpini che si preparava a partire
per portare la propria opera a 500 km ed gli sparuti gruppi che
ancora rientravano dalla vita notturna per sciogliersi lì dove si
erano dati appuntamento la sera prima.
E la patente ritirata a chi, diretto ad Assisi all’alba di una
domenica, era incappato nell’autovelox della polizia che controllava
i giovani che uscivano dalle discoteche.
Ed il legame creatosi con le Clarisse, e la festa il giorno dell’inaugurazione dei lavori.
Ma intanto la prima caraffa se n’è andata ed il buon Renato provvede. E provvederà un’altra
volta ancora. Anche perché l’amico che ho a destra, che inizialmente aveva messo con fare
risoluto la mano sopra il bicchiere ed aveva iniziato con aranciata, ora mi allunga il bicchiere
vuoto.
Si è fatto tardi, molto tardi, Renato spegne tutte le luci attorno a noi, chiude e riapre le porte
per farci capire che sarebbe ora di chiudere. E quando vede che
tutto è inutile se ne va raccomandandoci che qualcuno chiuda e conservi le chiavi.
La discussione continua sempre più animata ed accalorata, dimenticandoci che la porta è
aperta, le ore si sono fatte piccole e ci troviamo nel bel mezzo di una città.
E così, improvvisamente dalla strada una voce severa, e sull’arrabbiato,
ci invita a smetterla, a parlare più piano e ad andarcene, invito accompagnato da
qualche insulto pesante, molto pesante. Parole che arrivano dentro taglienti come lame affilate.
Ma che non sortiscono effetti immediati.
Quando usciamo scopriamo che nella città regna un immenso
silenzio. In una panchina, presso la fontana del Nettuno, solo due
amanti, perduti, che ci ignorano, e nessun altro, niente macchine,
nessun rumore. Evanescenti ed impercettibili gli scrosci d’acqua
che zampillano dalle narici dei cavalli dell’imponente dio del mare.
E per due volte, in questo immane silenzio, irrompono, gravi e
solenni, e pesanti come macigni, i rintocchi delle ore provenienti
dal campanile del duomo. Ma non sortiscono alcun effetto,
perché i nostri discorsi non si sono mai interrotti, ed ora vorrebbero
risolvere le sorti degli alpini, il loro presente il loro futuro.
Noi incuranti dei rintocchi del campanile, i due amanti della
panchina incuranti delle nostre voci che, spesso concitate,
inondano e si disperdono per la strada.
Guardo preoccupato verso l’alto le finestre aperte dei palazzi che
danno sulla strada… da lì potrebbe sempre arrivare qualcosa
di più pesante di un rimprovero di inciviltà…
Ed intanto scopro che nel silenzio della notte quest’angolo di
Conegliano è di una bellezza unica, ma fra poche ore si spegneranno
le luci, si riaccenderà il brusio e sarà di nuovo rumore incessante.
Il gruppo si scioglie, qualcuno a casa si prenderà un’altra razione
di improperi. Tutto perché no le coreto ‘ndar via senzha saludar…
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