AMARCORD INVERNALE - VITA MLITARE |
Giugno 2008 |
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Fine '61 dello scorso secolo, corso sci ad Arabba
"alloggiati" alla caserma Gioppi; innevamento perfetto e temperature ideali
favoriscono l'addestramento dei futuri Alpini sciatori. L'unico mezzo di
risalita consentito durante le lezioni sono le pelli di foca, un modo non
proprio defaticante usato per riguadagnare quota tra una discesa e l'altra.
Arriva però un bel giorno, inaspettata, la grande notizia: ci è stato assegnato
uno skilift che riceveremo in carico a tempi brevi. Dovremo provvedere però al
montaggio dello stesso e seguire tutto quanto concerne il suo corretto
funzionamento. L'entusiasmo è a mille, già stiamo pregustando le prestazioni di
questo trabiccolo che ci farà scivolare leggeri verso l'alto.
Alacremente lavoriamo di pala e piccone per creare le
piazzole dove saranno installati i tralicci che sosterranno i cavi. Il lavoro è
faticosissimo ma solo l'idea di essere trascinati in salita da quel marchingegno
ci fa operare col sorriso.
Quindici giorni bestiali, un su e giù con carichi portati a
spalla da mandare in crisi anche un portatore d'alta quota. Finalmente arriva il
giorno del grande evento, noi tutti allineati in tuta bianca, i nostri sci
tirati a lucido, due mani di lacca arancione sulla soletta e dose doppia di
sciolina argentata. Assistiamo col fiato sospeso all'accensione del motore a
scoppio, l'emozione è al livello massimo. L'avvio è immediato, ascoltiamo quella
musica dolcissima che paragoniamo al preludio del terzo atto della Traviata e
stiamo quasi per applaudire quando succede l'imprevedibile, un intoppo al quale
non avremmo mai voluto dover assistere: una nuvola grigiastra avvolge tutto
l'apparato motore che con due scoppi impressionanti mette fine alla sua
brevissima attività motoria. Spiegazione: un meccanismo del propulsore avrebbe
dovuto in fase di movimento essere totalmente immerso nell'olio. Vuoi per una
maledetta fatalità, vuoi per la fretta o per trascuratezza, la tanica che doveva
col suo pieno di lubrificante servire allo scopo è rimasta integra e sigillata
nel deposito della caserma. Delusione e costernazione paragonabili a quando la
tua squadra del cuore perde in finale di Champions. L'ordine è di smontare tutto
l'apparato, riporlo pezzo per pezzo sul camion e rimandarlo al luogo di
provenienza. Per l'operazione perdiamo una settimana durante la quale ognuno
colleziona un discreto numero di colorite espressioni labiali non propriamente
in voga nei salotti raffinati. Sfumata l'operazione "risalita meccanica"
riprendiamo, piuttosto rassegnati, l'attività sciistica usando per tornare in
alto le vecchie e care mai riposte pelli di foca, anzi tessilfoca (con buona
pace degli animalisti).
Renato Gumier
La vita militare per me non doveva nemmeno cominciare: terzo
di fratelli che avevano già fatto il soldato, venni esonerato, ma la forte
tensione che si era creata in quel lontano 1953 tra Italia e Jugoslavia per
l'annessione all'Italia della zona A (Trieste) e della zona B (Capodistria), con
l'invio di nostri reparti militari ai confini da parte del governo Pella,
costrinse il Ministro della difesa ad annullare simili privilegi ed arruolare i
giovani prima esclusi. Fu così che nel gennaio del 1954 venni inviato al C.A.R.
di Padova come recluta nel settore alpino artiglieria da montagna. Nel colloquio
che ebbi con l'ufficiale addetto allo smistamento, chiesi con insistenza di non
assegnarmi nei reparti dove c’erano anche muli, per la forte repulsione mista di
paura che simili animali mi incutevano e perché il mio lavoro di idraulico non
aveva nessuna attinenza con tale mansione. Lui mi assicurò che come operaio di
batteria, questo era l'incarico, assegnatomi, non avrei avuto
nessun contatto con questi quadrupedi, ma comunque la mia
destinazione era la venticinquesima batteria someggiata di stanza a Tolmezzo.
Finiti i due mesi di C.A.R. venni trasferito all'Arsenale di Piacenza: per sedici
settimane, fui impegnato ad imparare i vari congegni dei pezzi di artiglieria in
dotazione alle truppe alpine.
Tutto questo giocava a mio favore, dal momento che la vita in
caserma in quella città non era per niente paragonabile a quella dei miei
compagni di scaglione occupati in batteria al governo dei muli. La stagione
delle mele venne anche per me. Finito questo periodo di addestramento venni
"scaraventato" per usare un termine alpino, al comando di batteria che era al
campo estivo a Sappada. Venni scaricato dalla jeep con armi e bagagli, facendo
quella sera stessa la prima conoscenza con i famigerati animali.
Inutile dire che il primo approccio fu disastroso, venni incaricato di portare
un mulo all'abbeverata, il tenente mi indicò il più docile ma, imbranato come
ero la bestia capì la mia timidezza, fece uno strappo e scappò. Con l'apporto di
qualche commilitone riuscii a riprenderlo, ma quanta fatica! Il giorno dopo,
cominciai ad imparare la vita alpina sfatando quella allegoria che si vede
spesso nelle cartoline militari dove un alpino stanco si fa trascinare attaccato
alla coda di un mulo.
Mi insegnarono "Avanti ai muli, dietro ai cannoni, lontano
dai superiori". Per quelli che non lo sanno in montagna il mulo non cammina ma
corre, pertanto spetta al conducente stare davanti per poterlo guidare cercando
con l'occhio di misurare la distanza che intercorreva tra una sosta e l'altra,
onde far riposare il mulo nei tratti pianeggianti.
Un giorno ebbi modo di seguire il colloquio tra un caporalmaggiore ed il
capitano Biglino nostro comandante, riferendosi alla mar-cia molto faticosa che
stavamo facendo gli chiese: "Ma perché signor capitano il Padre Eterno ci ha
messo solo sette giorni per creare l'Universo?". "Ma che razza di domande mi
fai" - fu la risposta e lui continuò: "E signor capitano visto che era padrone
dell’Eternità ed il tempo per lui non contava, se ci metteva qualche giorno in più e la terra la creava senza
queste montagne, liscia come un biliardo, quanta fatica ci saremo risparmiati
noi". Il capita-no abbozzò un sorriso e niente altro: era proibito
familiarizzare con la truppa.
I miei commilitoni non mi risparmiavano lazzi e frizzi. "Tubo
imbranato dove sei stato fino adesso? Al C.A.R. all'asilo sei stato! Cerca di
svegliarti e di orientarti e quando saremo in caserma passerà l'aquila". Finito
il rancio c'erano sempre quattro o cinque gavette da lavare, la cosa mi
infastidiva un bel po' ma in cambio mi aiutava a capire lo spirito alpino come
quel giorno che un "vecio" vedendo la fatica che facevo, salendo la montagna, mi
prese lo zaino e me lo portò fino in cima.
Quei quindici giorni di campo estivo mi servirono a diventare
in poco tempo un "vecio" e una volta rientrato in caserma, pensavo a godere dei
privilegi e rispetto che tale grado meritava. Ma avevo fatto male i miei conti.
Con l'arrivo dei pezzi di ricambio, cosi chiamate le reclute provenienti dal
C.A.R., ci fu tra i miei compagni un passa parola: una di queste sere passerà
l'Aquila, e l'Aquila passò.
C'era la consuetudine, direi quasi blasfema, di umiliare le
reclute facendo prendere tra i denti una fetta di patata, intrisa di nafta
mescolata con urina di mulo, come in una specie di comunione, con la frase di
rito:"Se sei un artigliere da montagna, prendi sta patata e magna e se sei del
gruppo Belluno non dirlo a nessuno".
Quella notte venni svegliato da un fruscio sommesso; al lume di candela
quattro "veci" si avvicinarono alla mia branda e con voce suadente mi
intimarono: "Tubo prendi!". Con un movimento repentino alzai le coperte e lo
spostamento d'aria spense il lume. Riaccesero la candela, io nel frattempo mi
impossessai del Wincester che avevo vicino al letto, e brandendolo come una
clava intimai loro di lasciarmi in pace, mentre con un gran soffio spensi di
nuovo la candela. Visto la mala parata se ne andarono mormorando fra i denti:
"ritorneremo", ma non tornarono.
Confesso che avevo preso un bel po' di paura, ma al confronto
della loro, la mia era ben poca cosa, in vista di ciò che sarebbe successo dopo.
Il maggiore comandante venuto a sapere del fatto andò per le spicce, nel suo
ufficio di fureria c'era pure una recluta che aveva subito un simile affronto,
alla quale chiese di dire solo gli ingredienti tanto i nomi dei responsabili non
glieli avrebbe mai detti.
Avuto la risposta, fece mettere in cella di rigore il
caporalmaggiore responsabile reparto automezzi per un giorno, poi lo chiamò e
senza tanti preamboli gli disse: "Siccome in questa caserma si e svolta una
azione che non voglio nemmeno nominare, ti ritengo responsabile del fatto che
l'olio pesante si trovava solo nel garage, e tu non potevi non saperne niente,
perciò ti do 30 giorni di cella di rigore, più 30 giorni di cella semplice, ti
degrado e ti trasferisco in altro reparto.
A sentir ciò, quello, balbettando, rispose di non essere
stato lui e raccontò per filo e per segno come si erano svolti i fatti,
rivelando i nomi dei quattro artiglieri autori della infausta azione. Finito il
colloquio il Maggiore sentenziò: "Dal momento che eri a conoscenza così
dettagliata dei fatti e non hai mosso un dito per evitarli, do 30 giorni di
cella di rigore a ciascuno di voi e questo serva a monito per il prossimo
futuro".
Non posso dire di aver provato forte dispiacere per questa
punizione, in fondo se l'erano andata a cercare, ma veder passeggiare un'ora al
giorno questi commilitoni senza cintura lacci di scarpe e stellette, con la
prospettiva che, finita la ferma militare, dovevano rimanere in reparto per
altri 30 giorni, mi veniva la pelle d'oca pensando che bastava un po' di sale in
zucca per evitare tutto ciò.
Firmato il congedo e tornando borghese non ebbi più notizie,
ma ho forte motivo di credere che, negli scaglioni che seguirono, tale pratica
sia stata completamente debellata.
Illario Zabotti