UN FIORE A NIKOLAJEWKA |
![]() Giugno 2008 |
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Rossosch, (Russia) 1993,
Operazione Sorriso. Siamo da mesi impegnati nella costruzione dell’asilo, dove
le squadre di alpini si alternano ogni due settimane. Il giorno della domenica,
intermezzo di riposo per il turno quindicinale di lavoro, è riservato alla
visita, guidata dal prof. Morozov, ai luoghi delle operazioni belliche del
‘42-‘43.
Ovviamente la meta più cercata dai volontari è quella
località che ha contribuito a creare la memoria collettiva degli alpini ed è
indelebilmente impressa nella loro vicenda storica: Nikolajewka. La località
dista da Rossosch 120 chilometri ed ora è chiamata Livenka.
La strada per arrivarci attraversa zone non molto abitate ed è spesso interrotta da lavori. Distese
incolte si alternano a zone intensamente coltivate, poco abitate, dove l’unica
attività sembra essere l’agricoltura, con pascoli di bestiame spesso allo stato
brado.
La velocità del pullman è quasi sempre ridotta da lunghi sali
scendi. Ciò ci consente di esaminare nei particolari località sempre uguali:
"isbe" di vecchie dimore e case di "moderna" fattura costruite con materiali
vari e misti di pannelli in legno, mattoni e blocchi di silice, blocchi di creta
e paglia, con coperture di lastre in fibrocemento.
In lontananza si distinguono mandrie di bovini e cavalli, lungo la strada, nei pressi delle abitazioni, bisogna dare il passo a nugoli
di oche starnazzanti alla ricerca di pozzanghere alimentate da acqua di dubbia
provenienza.
La pianura sembra sterminata ed è rotta solo da leggeri
rilievi e da improvvisi valloni, torrenti secchi naturali, detti "balke". Dopo
quattro ore di viaggio, discendendo da un enorme terrapieno si staglia
all’orizzonte un agglomerato sovrastato dal profilo di un inconfondibile
fabbricato: la cupola, il campanile, le linee sinuose della chiesa di Livenka.
Lo sguardo ricerca lontani punti di riferimento più volte descritti dai
reduci: la lunga discesa verso il terrapieno della ferrovia, i varchi dei sottopassaggi. Tutto è confuso, alte
siepi, boschetti e lussureggiante vegetazione ammantano lo scenario che
cinquant’anni fa fu teatro di un’immensa tragedia.
Percorriamo a piedi il sottopasso e ci fermiamo davanti ai
caratteri a noi sconosciuti della lapide sul muro della stazione, scrutiamo il
panorama uniformemente squallido e ci assale una sensazione strana ed
indescrivibile: perché tante sofferenze? A che scopo tanti morti?
E’ la visita alla chiesa a distoglierci da questi desolati pensieri. Sulle
pareti esterne ancora i segni di schegge di granate e delle sventagliate di
colpi di mitragliatrice si confondono con i segni del degrado del tempo.
Grande ospitalità da parte del pope e del sindaco che ci
invita a pranzo nel ristorante del paese. Scambio di opinioni e discorsi finali
di cortesia, al termine dei quali il sindaco ci invita a seguirlo.
Appena fuori del paese le vetture si fermano, il sindaco percorre un leggero
declivio per circa 200 metri, lo seguiamo ansiosi in silenzio fino a quando,
fermatosi sul crinale di una balka ci dice: «Qui sono sepolti 10000 caduti,
alpini italiani, soldati romeni e ungheresi morti nella battaglia di
Nikolajewka. Voi siete i primi italiani a mettere piede su questo suolo». Ci
spiega poi che dopo la battaglia furono le donne a raccogliere i corpi e
portarli qui con le slitte per gettarli in questo avvallamento. Fino a poco tempo fa questo sito è stato
coperto da segreto militare.
Sbigottimento, incredulità, commozione ed improvviso
silenzio, rotto solo dal movimento di fronde delle siepi vicine mosse dal vento.
Migliaia di nostri alpini, mandati a combattere e morire in una terra lontana e
sconosciuta, per una causa che non era la loro, sepolti in una fossa comune,
senza una lapide, senza una croce, senza una preghiera…
Visto il nostro smarrimento, intelligentemente il sindaco ci lascia soli. Con
noi c’è don Bruno, sacerdote bergamasco impegnato nel nostro turno, che già ha
indossato veste e stola per celebrare la messa. Una messa che non dimenticherò mai:
preghiere e silenzi, e quel vento che non voleva cessare…
Eravamo una trentina quella domenica a Nikolajewka a pregare
sopra quella grande fossa, ma quel giorno sentivamo di rappresentare tutti gli
alpini. E quando pensavamo che la nostra commozione si fosse sciolta, Toni
Fornasier arrivò con un mazzolino di fiori raccolti chissà dove in quella landa
desolata dove ancora sembrava aleggiare la morte, e li depose là dove don Bruno
aveva consacrato il pane ed il vino. Era un mazzolino incolore, sbiadito,
bellissimo.
A 15 anni da quella scoperta e a 65 dal sacrificio di
Nikolajewka, abbiamo voluto ritornare su quella tomba, dove ora i nostri caduti
sono ricordati da un cippo. Venti amici, alpini e non: di alcuni di questi, in
Russia è rimasto il padre, il nonno, lo zio. Del gruppo di 15 anni fa con me c’è
ancora Toni Fornasier.
La mattina del 26 gennaio lasciamo Rossosch, dove abbiamo alloggiato, 120 km
di pull-man, la strada è la stessa che hanno percorso i nostri alpini nella
ritirata. Qualche breve tappa nei paesi ancora segnati dai combattimenti di
allora, ed ecco Nikolajewka, dove ci incamminiamo verso lo storico sottopasso:
le pietre sono le stesse di allora, monumento alla tragedia qui vissuta dagli
alpini, la vicina chiesa, invece, è stata intonacata e sono stati cancellati,
così, i segni della battaglia.
Poi raggiungiamo quella che da 65 è la tomba degli alpini
periti in quella ecatombe, mentre improvvisa si scatena una bufera di neve.
Percorriamo in silenzioso corteo il declivio, davanti Angelo
con il tricolore, unico simbolo che abbiamo portato dall’Italia, dietro Toni
Fornasier (e non poteva essere altro che lui ad assolvere a questo compito) con
un mazzo di fiori, e l’urlo del vento in un mare desolatamente bianco. E
null’altro.
Ci disponiamo davanti al cippo. Uno di noi legge la preghiera
di Peppino Prisco ed un brano del diario della ritirata di padre Anastasio
Corsara, Enzo improvvisa una preghiera, bellissima, ma che non saprei ripetervi. La tormenta si placa per un attimo e nel silenzio
improvviso ed abissale nessuno pronuncia più una parola, una sola parola. Guardo
una ad una le facce dei miei compagni per sollecitare qualcuno ad un discorso…
ma capisco che non servo-no altre parole. Vedo commozione e
gli occhi lucidi di chi ha la sensazione di trovarsi per la prima volta a
pregare sulla tomba del padre.
Fa freddo, ma non lo sentiamo: il freddo lo abbiamo dentro, il cuore stretto in una morsa, abbiamo la sensazione di sentirci in questo momento
testimoni delle tragedie vissute da tutti gli alpini nella loro storia, ma ci
sentiamo anche onorati di aver portato oggi, su questa immensa tomba in questo
anniversario, la nostra pietà e la nostra bandiera.
Si riforma il corteo per risalire, e la tormenta riprende con
rabbiose intermittenze irregolari. Camminiamo a fatica sprofondando nella neve,
sono solo 200 i metri che ci separano dal pullman… siamo vestiti di tutto punto
e tra poche ore ci ritroveremo in una confortevole stanza d’albergo… Pensavo di
sapere tutto sulla ritirata, forse solo oggi ho capito cosa deve essere stato
quell’inferno.
I fiori che Toni ha messo ai piedi del cippo saranno già
con-gelati e sommersi dalla neve, ma le nostre preghiere sono salite altissime.
Lino Chies