Goi-Pantanali |
Maggio 2009 |
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Sono paradossalmente un atto di amore verso qualcosa che tutti, o quasi, abbiamo odiato o mal sopportato: la naia.
Stiamo parlando degli incontri tra alpini che hanno militato nelle stesso reparto (avvengono per la maggior parte in
occasione dell’Adunata) dove si rinnovano quelle amicizie nate in caserma e destinate a durare tutta la vita, almeno nel
ricordo.
E, ancora una volta, si racconta di quel capitano che faceva sputare sangue o del maresciallo rompi, di quelle bestiacce
che erano i muli, di quel campo massacrante sotto la neve, delle fughe dalla caserma, di quella colossale ciucca
collettiva e di quell’avventura impossibile durata lo spazio di due libere uscite: ricordi velati dalla nostalgia, non
quella per la vita di caserma, ma quella dei vent’anni…
Tra questi incontri uno è differente da tutti gli altri.
Avviene il 6 maggio di ogni anno, sempre nella stesso posto: si ricordano 55 secondi di terrore, ragazzi di 20 anni che
scavavano a mani nude tra le macerie una maledetta notte di luna, 29 ragazzi di 20 anni travolti dal crollo della loro
caserma. Sono gli alpini della Goi-Pantanali di Gemona, che il terremoto ha unito in modo indelebile.
L’incontro è nel segno della tristezza. C’è la messa nella chiesetta della Goi per gli amici che non ci sono più.
Il piccolo edificio sembra rappresentare l’unica struttura in cemento, poi qualche prefabbricato, per il resto quella
che era una caserma immensa ora è solo un immenso cortile.
Tanti gli alpini, fedeli a questo appuntamento anche quando le distanze sono di centinaia e centinaia di chilometri.
Sempre più numerosi, di anno in anno, i familiari dei caduti, a significare che quella ferita non si è mai rimarginata.
E di anno in anno l’assenza, definitiva, di qualche papà o di qualche mamma, a ricordare l’ineluttabile trascorrere del
tempo.
Poi la foto davanti all’enorme masso con quel lungo elenco di nomi in ordine alfabetico.
Era della Goi anche Alessandro Cenedese, di Colfosco. Quella sera si trovava a Tolmezzo, aggregato alla caserma Del Din
dov’era istruttore guida.
Partì dopo mezz’ora dalla prima scossa per Gemona, aveva troppi amici laggiù.
Quello che visse quella notte ha segnato per sempre lui ed i compagni alpini che scavavano tra le macerie con la rabbia
nell’anima, le lacrime agli occhi, l’inferno nel cuore.
Gli episodi di generosità, di altruismo, di coraggio e di disperazione di quei giorni fanno parte ormai della storia del
terremoto e degli alpini.
Ma c’è una vicenda, unica e quasi sconosciuta, che ha per protagonista un amico di Alessandro, che col tempo è diventato
anche amico del gruppo Colfosco. Arturo Virilli era autista nel gruppo Conegliano, comandato dal colonnello Angelo
Gaiolo, la 15ma batteria era da poco affidata al capitano Mario Massimi, abruzzese. Fortuna aveva voluto che lui, la
naia, la facesse nella sua città, la libera uscita era quindi l’occasione per cenare con i suoi che abitavano a poche
centinaia di metri dalla caserma.
Quella sera li salutò a meno un quarto alle nove dicendo che voleva rientrare presto in caserma per una doccia, quel 6
maggio era stata una giornata caldissima. Ma uscito di casa aveva trovato un commilitone che lo aveva invitato per un
caffé al bar Glemine, appena sotto il duomo, ritrovo abituale dei militari. Venne per un attimo a mancare la luce, tutti
uscirono in strada per capire, qualche fiammata lontana, non si capiva, tutti rientrarono. Un minuto dopo fu l’inferno.
Dal monte Glemine che incombeva su Gemona si era staccata una frana, un tonfo lugubre e terrificante, sembrava essere
quella la causa di tutto. Arturo si mise a correre giù per la strada, verso la caserma, verso casa sua.
Si fermò davanti alla portineria dell’ospedale, unica stanza dove ancora c’era luce. Il locale era vuoto, erano fuggiti
tutti, dalla radio di servizio da Udine una voce trafelata chiedeva sempre più insistentemente cosa fosse successo.
Nell’androne deserto quell’appello senza risposta echeggiava ancor più drammatico. Arturo proseguì la sua discesa tra le
macerie che intasavano la strada: case sventrate, gente che urlava e chiedeva soccorso.
Ricorda di aver aiutato una decina di persone ad uscire dalle case dove le pareti erano crollate.
Non c’era la luce ma era sufficiente il chiarore della luna ad illuminare il disastro.
La vista del corpo di un bambino immobile sul ciglio della strada lo spinse ad accelerare la sua corsa.
La sua casa non c’era più, un condominio di quattro piani ed otto famiglie ora era un cumulo di macerie non più alto di
5 metri. Un uomo che sotto quel cumulo aveva la moglie urlava che erano tutti morti. Non ricorda quanto tempo rimase
immobile, impietrito davanti a quella che fino a pochi minuti prima era la sua casa. Si rifiutava di credere che sotto
ci fosse tutta la sua famiglia, li aveva salutati tutti un’ora prima. Le scosse continuavano ad intervalli irregolari,
rumori vicini e lontani seguiti da crolli, dal fragore sordo della montagna che pareva venire giù, lampi, echi di urla.
E c’è una sensazione, soprattutto, che Arturo Virilli si è portato addosso per sempre e su cui ritorna quando parla del
terremoto: il silenzio.
E’ il suo ricordo più netto di quelle ore, sempre uguale, sempre intenso. Il silenzio era una nota profonda: le scosse,
i bagliori lontani, il fragore dei crolli, le urla e poi quella quiete irreale, strana, tragica. Il silenzio della
morte. All’una raggiunse la caserma per chiedere aiuto, dovevano venire da lì i soccorsi… ma la caserma era crollata. Le
luci dei camion con il motore acceso illuminavano una montagna di detriti dove gli alpini che si erano salvati facevano
di tutto per liberare quelli sepolti. Ogni tanto i motori venivano spenti per ascoltare meglio eventuali invocazioni di
aiuto.
Qualcuno con un foglio in mano depennava i nomi degli artiglieri che mano a mano rientravano. Una confusione infernale,
le scosse che si susseguivano, che facevano tremare la terra e parevano scuotere drammaticamente le macerie, gli alpini
che si allontanavano per poi risalire sulla sommità dei cumuli. Arturo non ricorda altro di quella notte, quella
maledetta notte di luna.
E giunse l’alba, un’alba nera. Gemona non esisteva più. Le sagome dei monti avevano perso il loro aspetto familiare, i
loro profili apparivano devastati, lacerati da voragini profonde come se proprio lungo quei pendii si fosse scatenato
l’inferno. Un colonnello fece salire Arturo su una camionetta che si diresse verso il centro.
Entrando a Gemona ebbe il senso dell’immane tragedia. La città era rasa al suolo, una montagna di detriti. Le travi
sporgenti delle case sembravano croci, ammassi di pietre erano addossate a muri desolatamente protesi al cielo.
Arrivarono davanti a quella che era stata la sua casa, dove l’uomo della sera prima continuava ad urlare che erano tutti
morti.
Sopra le macerie, dei soldati, arrivati da chissà dove, già scavavano freneticamente.
Sotto quelle rovine c’erano suo padre e sua madre, entrambi di 53 anni, la sorella, 22 anni, con il suo bambino, 3 anni.
Solo allora ad Arturo apparve chiaro quello che da ore si rifiutava di credere, solo allora si mise a piangere. Si era
salvato il fratello di 16 anni che si trovava fuori casa, e l’altra sorella, che risiedeva con la sua famiglia in
un’altra parte della città.
Giorni dopo il Colonnello Gaiolo lo chiamò proponendogli una licenza a tempo indeterminato.
Arturo chiese di continuare la sua naia in caserma. Non sa ancora perché lo fece. Forse perché non aveva più né una casa
né una famiglia, tutto quello che possedeva era la divisa che indossava e diecimila lire in tasca. Forse perché non
riusciva a togliersi dalla mente le immagini di quei militari sopra le macerie di casa sua e lui impietrito, incapace di
agire… ed ora voleva fare la sua parte per la sua gente, il suo Friuli. Forse per non impazzire.
Passò tutta l’estate impegnato nell’emergenza, un’emergenza che a Gemona aveva il suo centro nella Goi, impegnato nel
rifornimento di viveri. Con il suo camion faceva la spola tra Udine, le tendopoli e le famiglie di Gemona che non
avevano voluto abbandonare le loro case.
Con gli incubi che imperversavano devastanti e quelle due parole in risposta ad amici, conoscenti, commilitoni, che,
incontrandolo, gli chiedevano come era andata ai suoi: “tutti morti”.
Lo fece con impegno totale, febbrile, rabbioso, come gli ha ricordato un amico alpino incontrato tempo fa ed impegnato
con lui in quelle operazioni: “lavoravi, bestemmiavi e piangevi”. E intanto Arturo poteva constatare l’ostinazione della
sua gente di voler subito ricostruire, di non saper attendere i tempi, la voglia di rimettere in piedi le proprie mura
in qualsiasi maniera, la volontà di continuare senza chiedere nulla a nessuno.
Vide la sua gente rimboccarsi le maniche e ricominciare di nuovo, mentre la Goi, mezza crollata ed inagibile, era
diventata il punto di riferimento per tanta gente che sembrava contasse su ragazzi ventenni per superare la disperazione
e riprendere coraggio. Quando la ricostruzione stava avviandosi la terra riprese a tremare: altre scosse, altre rovine,
altri morti.
E per Arturo non era finita perchè il destino si accanì nuovamente: in un incidente il fratello Flavio lasciò la sua
giovane vita sulla strada. Questa nuova tragedia rischiò di fare quello che non era riuscito a fare il terremoto.
Arturo, nemmeno lui sa come, ne venne fuori ancora, un’altra volta. Virilli allora non volle parlare della sua tremenda
vicenda, sentiva che quello era un dolore tutto suo e non voleva condividerlo con nessuno ed in quei giorni rifiutò
interviste a televisioni nazionali, tedesche e perfino giapponesi.
Parla adesso perché teme l’oblio della memoria, perché nota che ogni anno ci sono sempre meno Gemonesi il 6 maggio in
duomo a commemorare le vittime del terremoto, sente che troppa gente vorrebbe rimuovere, dimenticare: ma come seppellire
il passato quando il passato è lì, davanti… Vuole farlo anche per tutti i morti, per la memoria della sua famiglia e di
quei 29 commilitoni. Uno di questi, Vanni Calligaro, era per Arturo un fratello, più che un fratello. Quella maledetta
sera non vedendolo per la libera uscita lo aveva cercato. Vanni era stato nominato caporale il giorno prima e proprio
quella sera montava di servizio in caserma. “Ci vediamo domani”. Erano le 18.45 e non lo rivide più.
Mesi dopo, la mamma di Vanni, informata dell’amicizia di Arturo con il figlio, aveva manifestato il desiderio di
incontrarlo.
Più volte gli amici avevano sollecitato un incontro ma Arturo si rifiutava, sentiva di non avere parole da dirle. Poi
non poté sottrarsi e, recatosi a Buia, si trovò davanti una persona distrutta. Non ricorda cosa si siano detti né se si
siano detti qualcosa, ricorda solo che quella madre piangeva, piangeva.
Ed è morta dopo due anni, di crepacuore. Arturo vive a Gemona con la sua bella famiglia. La sua è una casa “aperta”, un
punto di incontro. I più assidui sono gli amici ed i commilitoni che hanno vissuto il terremoto, e quelli della Julia,
che non hanno dimenticato quel suo gesto di 32 anni fa. Per loro Arturo è un simbolo di fedeltà, generosità, coraggio e
di rinascita.
La moglie Giuseppina e la figlia Flavia sono totalmente coinvolte in questa associazione che non ha nome né statuto:
quelli della Goi. E due anni fa hanno voluto celebrare la ricorrenza del trentesimo in modo particolare, curando tra
l’altro la pubblicazione di un opuscolo di testimonianze. E quando non lo trovi a casa, Arturo lo puoi cercare nel
vicino cimitero. Allora per le vittime del terremoto non ci fu nemmeno tempo per la pietà, sepolte frettolosamente in
una fossa comune segnata da numeri. Ora riposano assieme in un settore, un piccolo complesso monumentale. Su ogni lapide
una sola data, quella di nascita: quell’altra sarebbe superflua, perché sta scritta su tutte le pietre di questa città e
ne farà parte per sempre della storia.
Tutti assieme i componenti della sua famiglia: il papà, la mamma, la sorella ed il nipotino Ivan, il più giovane delle
400 vittime di Gemona. Prega per tutti, Arturo, per i suoi, per quelli nella cui tomba, con il passare degli anni,
nessuno porta più un fiore, per tutti i bambini che, come recita una lapide, il 6 maggio del ’76 rimasero bambini per
sempre. Il vecchio Friuli.
Quello che amava ricordare Padre Turoldo, fatto di paesi dove tutti si conoscono ed in armonia vivono insieme e godono e
piangono insieme. Il paese che accompagna al cimitero insieme i suoi morti perché ogni volta è come se fosse uno dei
tuoi che è morto.
Quel paese dove, dopo il vespro, tutti discorrono sul sagrato delle sorti del paese e del mondo ed assieme vanno poi
all’osteria a fare la partita insieme, perché il paese non è che una famiglia sola. E dopo la partita e nelle feste
quelle villotte tristissime e dolci, umili e forti. Ora Gemona è tornata bella, il duomo è stato ricostruito con le
stesse pietre, a testimoniare l’ostinazione della sua gente ed i tristi cumuli di macerie sono un lontano ricordo. Ma
qualcosa è andato irrimediabilmente perduto, perché dopo un terremoto nulla è più come prima.
Troppe cose sono andate sepolte sotto quelle macerie. La gente non è più quella di una volta, per strada ci si saluta
sempre meno, le persone si chiudono in casa, case blindate, protette da mura e cancelli inaccessibili e sorvegliati,
oltre i quali sembra solo silenzio e nulla. Arturo Virilli non ci sta, non vuole crederci, per illudersi che non tutto è
cambiato lui la sua casa l’ha costruita senza cancello e senza mura di recinzione. Ma, confessa amaramente, il Friuli,
quel Friuli, non esiste più.
Gianfranco Dal Mas