CAPORAL MAGGIORE MATTEO MIOTTO |
Maggio 2011 |
Afghanistan.
Il 31 dicembre 2010 ancora un tragico evento: la morte del Caporal Maggiore Matteo MIOTTO
di Zane' (socio della sezione di Vicenza) in forza al 7° Rgt Alpini.
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Non è giusto morire a vent’anni, soprattutto non è giusto morire in guerra.
Pubblichiamo la lettera che Matteo Miotto ha scritto in occasione della festa delle forze armate.
Voglio ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noi militari
in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensiero solo in
tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo
il loro dovere.
Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati,
soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove
veniamo, a cosa apparteniamo. Questi popoli di terre sventurate, dove
spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche
ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo
che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case:
invano. L’essenza del popolo afgano è viva, le loro tradizioni si ripetono
immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono
rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici,
della propria terra e di essa si nutre.
Allora riesci a capire che questo strano
popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a
noi. Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi
Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni
della croce… Nel mezzo blindo, all’interno, non una parola. Solo la radio che ci
aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone per imboscate,
nient’altro nell’aria… Consapevoli che il suolo afgano è cosparso di ordigni
artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro
Lince.
Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo,
ma non ci pensi.
La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di
anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio.
Veniamo accolti dai bambini
che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla
bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame. Li guardi: sono scalzi, con
addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o
sorella… Dei loro padri e delle loro madri neanche l’ombra, il villaggio, il
nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l’aria di non essere
lì per giocare.
Non sono lì a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi
massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, sotto le
sterpaglie c’è un asinello, stracarico, porta con sé il raccolto, stanno
lavorando… e i fratelli maggiori, si intenda non più che quattordicenni, con un
gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e
pecore ne sa qualcosa.
Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un
adulto ci guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi scopri che
ne ha massimo trenta… Delle donne neanche l’ombra, quelle poche che tardano a
rientrare al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno
quaranta gradi all’ombra.
Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno
prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e
il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi… Che dicano poi che noi
alpini siamo cambiati.
Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra:
"brutta cosa bocia, beato ti che non te la vedare’ mai…" Ed eccomi qua, valle
del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la
penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi "visto, nonno,
che te te si sbaia’…".
Valle del Gulistan – Novembre 2010
Caporal Maggiore Matteo Miotto 7°
Reggimento Alpini