ALlA GOI-PANTANALI |
maggio 2011 |
Ogni anno approssimandosi il 6 maggio nella Goi-Pantanali di Gemona si ricordano 55 secondi di terrore,
ragazzi di 20 anni che scavavano a mani nude tra le macerie una maledetta notte di luna, 29 ragazzi
di 20 anni travolti dal crollo della loro caserma.
Sabato 30 aprile 2011, si parcheggia in caserma, il servizio d'ordine e tutte le fasi della cerimonia sono
affidati a giovani alpini della Julia, e non mi sfugge che 35 anni fa non erano ancora nati. La messa viene
celebrata sotto la tettoia ricovero automezzi, davanti alla chiesetta che
rappresenta l'unica struttura in cemento del vasto complesso. Solo qualche
piccolo prefabbricato, per il resto quella che era una caserma immensa ora è un
immenso cortile. Tanti i presenti, alpini, familiari ed amici, fedeli a questo
appuntamento anche quando le distanze sono impegnative. C'è il nostro vessillo
sezionale con Narciso De Rosso ed un gruppo di alpini di Colfosco guidati dal
capogruppo Trentin. Con il capogruppo Gava ci sono alpini di Godega, presenti
ogni anno per ricordare Guido Da Re.
La messa è accompagnata dal canto di un coro di penne nere, sicché anche il
Kyrie, il Sanctus e l'Agnus Dei mi sembrano tristi cante alpine. Toccante il
discorso del sin- daco di Gemona: ricorda che ogni 6 maggio 29 dei 400 rintocchi
della campana più grande del duomo sono per gli alpini caduti sotto le macerie
della Goi: da quella sera quei ragazzi sono diventati per sempre cittadini di
Gemona. Il comandante della Julia Bellacicco sottolinea che tutto è cambiato in
questi 35 anni ma rimane indelebile il ricordo. Nessuno potrà dimenticare che
dopo aver tirato fuori i loro commilitoni dalle macerie gli artiglieri della Goi
non si fermarono a piangere ma uscirono dalla caserma per spostare con le mani
altre macerie, coinvolti in pieno in tutte le fasi dell'emergenza e dei soccorsi
alla popolazione. La Julia è un bene prezioso di questa terra e quella storia
luttuosa divenne poi una delle pagine più belle tra quelle scritte dagli alpini.
Alla fine della messa mi aspetto il classico Signore delle Cime e partono invece
le note sommesse, tristi, struggenti, dolci, strazianti e bellissime di Stelutis
Alpinis che in questo momento mi sembrano la più bella melodia, la più bella
preghiera uscita da questa terra.
Vengono scanditi 29 nomi in un silenzio assoluto, anche il vento, che prima
sembrava presagire il turbine, ora è cessato. Poi l'omaggio alla stele con quei
nomi in ordine alfabetico che la tragedia ha accomunato per sempre, corone di
fiori accompagnate dalla madre dell'art. Pierantonio Mutti di Vazzola, e dalla
sorella del C.le Doriano Dal Bianco di Quinto di Treviso.
Un'altra donna molto anziana, cammina a fatica, si avvicina a quella pietra,
mette la mano in un punto preciso, manda un bacio e lascia una lacrima.
A ricordo di questi figli e di questi fratelli sono stati allestiti all'interno
della chiesetta due pannelli commemorativi, con le fotografie di quei ragazzi, a
perenne memoria del loro sacrificio.
Tra le autorità anche l'on. Zamberletti, allora commissario straordinario del
Governo per la ricostruzione, che tutti qui ricordano con affetto e
riconoscenza.
Il colonnello Tomadoni, allora capitano all'a Goi della BCS dell'Udine, mi
racconta tutti i momenti di quella notte, quando perse 8 dei suoi alpini. La
voce è ferma, il racconto è pacato, ma improvvisamente gli occhi si fanno lucidi
e rimangono lucidi sempre.
Sempre più numerosi, di anno in anno, i familiari dei caduti, a signi-ficare che
quella ferita non si è mai rimarginata. E di anno in anno l'assenza, definitiva,
di qualche papà o di qualche mamma, a ricordarci che il tempo passa.
Ognuno dei presenti avrebbe la sua storia da raccontare. Tra gli alpini che si
abbracciano c'è chi era rimasto sotto le macerie, chi porta ancora i segni di
quella notte, chi quella notte ha scavato con le mani nude e rabbiose alla luce
delle fotoelettriche. Quella notte li ha fatti diventare amici per sempre. Li
chiamano "quelli della Goi", una associazione che non ha né nome, né presidente,
né segretario. Un'anima ce l'ha, è Giuseppina, moglie di Arturo Virilli.
La storia di Arturo è stata scritta due anni fa su queste pagine, la storia di
un artigliere del Conegliano che nel terremoto perse tutta la sua famiglia e che
rifiutò il congedo per affiancare i commilitoni nelle operazioni del post
terremoto.
Passarono anni, mi dice Giuseppina, prima che Arturo prendesse parte a questa
cerimonia, si sa che a questo appuntamento qualcuno non è mai venuto e forse non
verrà mai, perché i ricordi pesano e non è facile. Ma ogni anno compare qualche
volto nuovo, e chi vien la prima volta poi non manca più.
La giornata finisce, come ogni anno, con un incontro conviviale, che sembrerebbe
strano se non lo avessero voluto i parenti. Vengono raccolte delle offerte per
la famiglia di uno della Goi che da quest'anno non c'è più ed ha lascato moglie
e figli in una situazione non facile. Tornano i ricordi, le storie, si scambiano
racconti, c'è un anno da raccontare tra amici che si vedono solo in questa
occasione.
Arturo mi indica la presenza di sei madri e di un papà. C'è il fratello di Livio
Sciulli, Enzo, che viene da Lanzano, Chieti. Per 30 anni è sempre stato presente
il padre, che prima di morire ha chiesto ad Enzo di partecipare in sua vece. C'è
la mamma di Giuseppe Siemitz, di Gorizia, figlio unico. Era in licenza la sera
del terremoto, rientrò in caserma la mattina successiva. Perì giorni dopo in un
incidente stradale mentre era impegnato nelle operazioni di soccorso. Era figlio
unico anche Osvaldo Battaglia, la mamma è arrivata da Teramo con due nipoti. C'è
anche la mamma di Roberto Ghetti di Castel San Pietro, Bologna. Anche lei aveva
solo quello di figlio, mi dice Arturo, nascondendo l'emozione, dimenticando
forse che in quel terremoto lui ha perso i genitori, la sorelle ed un nipote.
Quelli che ci sono e quelli che non ci sono più, come la mamma di Vanni
Calligaro. Vanni era per Arturo un fratello, più che un fratello. Quella
maledetta sera alla Goi non vedendolo per la libera uscita lo aveva cercato.
Vanni era stato nominato caporale il giorno prima e proprio quella sera montava
di servizio in caserma. "Ci vediamo domani". Erano le 18.45 e non lo rivide più.
Mesi dopo, la mamma di Calligaro, informata dell'amicizia di Arturo con il
figlio, aveva manifestato il desiderio di incontrarlo. Più volte gli amici
avevano sollecitato un incontro ma Arturo si rifiutava, sentiva di non avere
parole da dirle. Poi non poté sottrarsi e, recatosi a Buia, si trovò davanti una
persona distrutta. Non ricorda cosa si siano detti né se si siano detti
qualcosa, ricorda solo che quella madre piangeva, piangeva. Ed è morta dopo due
anni, di crepacuore. (f.)
La deposizione delle corone d'alloro
L'omaggio delle autorità ai ragazzi caduti 35 anni fa
Le insegne alpine alla cerimonia religiosa
Santa Messa in suffragio