CONCORSO LETTERARIO - ADUNATA BOLZANO |
Dicembre 2012 |
Due alpini della Sezione ANA di Conegliano sono tra i cinque vincitori (tutti classificati a pari merito) del concorso letterario, bandito alla vigilia dell'Adunata nazionale di Bolzano, sul tema "Quel giorno da alpino che non potrò mai dimenticare".
Pervenuti ben 180 elaborati da tutta Italia. I "nostri" sono Gian Franco Dal Mas e di Luigi Bravin entrambi con naja da ufficiali della Julia, autori, rispettivamente dei racconti "Mandi, mandi" e "Gemona" che di seguito, doverosamente, pubblichiamo.
Caserma Cantore, Tolmezzo. Nel 1974 vi erano ospitati due Gruppi di artiglieria: l’Udine (3° Artiglieria da Montagna) e il Pinerolo (1° Artiglieria di Montagna). Nella Cantore c’era un Gruppo della Taurinense. Cosa ci facessero i Piemontesi in terra friulana nessuno lo sapeva, si parlava di una vecchia punizione per ammutinamenti e per un capitano gettato dalla finestra... leggende…
La fama del Pinerolo era quella che era, ma le pessime cose che si dicevano sul Gruppo lasciavano tutti nella più totale indifferenza, qualcuno ne andava anche fiero. La convivenza con l’Udine, poi, non faceva che amplificare a dismisura le "sbracature" degli artiglieri del Pinerolo. Il Gruppo Udine, le cui batterie erano guidate da capitani che facevano sputare sangue, era una macchina perfetta, perennemente protesa alla ricerca della perfezione formale e operativa. A tale regime si erano adattati anche i muli, che erano stati addestrati a rispondere ai comandi di "attenti" e di "riposo".
Il motto del 1° Artiglieria da Montagna in fatto di originalità era una chicca: "Mai niun davant!". Lo scudetto della Taurinense non aveva nulla da invidiare a quello della Julia: l’aggressività dell’aquila nera si poteva abbinare a un superbo gesto di eleganza, lo slancio del toro della Brigata piemontese, rappresentato nel pieno della veemenza offensiva mentre si inalbera sulle zampe posteriori, dava la sensazione di una forza smisurata e di un’incontenibile potenza.
Dunque si diceva, della loro fama gli artiglieri del Pinerolo andavano fieri e non perdevano occasione di perpetuarla nel tempo. Ma proprio per questo il Gruppo era nel mirino di colonnelli e generali che non perdevano occasione per distribuire quella che, in gergo, allora come ora, si chiamava "carne". Durante le marce di trasferimento qualche penna bianca sbucava improvvisa da una radura, o ti arrivava silenziosa da dietro o te la trovavi dopo il tornante. E, constatato che uomini e muli non erano in ordine, arrivava regolarmente una razione di "carne".
Ricordo una tappa di un campo estivo tra i boschi che sovrastano Paularo. Comparve alle spalle, improvvisa e silenziosa, una jeep. Un frenetico sussulto percorse tutta la batteria, una voce "Generale, il generale, lè riva al general, è qui il generale!" partì dalla coda e in un baleno raggiunse il comandante in testa. In pochi secondi il "branco" prese un’altra forma (in queste manovre quelli del Pinerolo erano molto esperti): si armonizzarono le distanze tra mulo e mulo e tra squadra e squadra, si controllarono i basti e l’assetto dei pezzi, si ridistribuirono le pressioni delle cinghie… Quando il Generale fu sulla colonna (si trattava di Parisio, Comandante della Julia) il Capitano fermò la batteria, gli corse incontro con fare marziale e disse "Batteriaaaa atttt-ntiiii!!". Il Comandante della 7° era il Capitano Pergami, abruzzese. Quando il capitano Pergami dava l’attenti, sembrava venissero giù le montagne. Nel silenzio improvviso in cui era piombato attonito il bosco, gli echi di quel comando si rincorrevano sulle pareti dei dirupi.
Passava in quel preciso istante vicino ai due ufficiali un’anziana donna carnica con un fazzoletto nero in testa. Avanzava stanca, portandosi una vacchetta che procedeva ciondolando sulla testa. Veniva da chissà dove e andava chissà dove, ma tutti erano concentrati sul Generale e ammutoliti sull’attenti e nessuno si era accorto di lei. Non se l’aspettava, la vecchietta, non le era mai successo che un’intera batteria di militari e muli si bloccasse così di schianto al suo passaggio. Sorpresa e nello stesso tempo molto onorata, non ritenne però fosse il caso di fermarsi e continuò la sua strada felice quanto mai: «i’ su ringrâzi, i’ su ringrâzi trop trop, ma no servive nuje… mandi mandi».
Erano passati pochi giorni dal solstizio. Il sole era in procinto di
scavalcare i monti a est di Gemona e le ombre erano lunghe, dietro la mia figura
che usciva dalla porta principale della "Goi". Il terremoto aveva squassato la
terra friulana, le case, le chiese e anche le palazzine dell’"Udine". Le sere si
camminava in gruppetti nei viali della caserma, fra tende, macerie e scuderie
silenziose: i muli erano ospiti del "Belluno" a Pontebba. Dopo i giorni da fine
del mondo, di un mese e mezzo prima, la vita normale faticava a farsi strada; la
tristezza, la malinconia, lo sconforto, a volte, ci assalivano all’improvviso.
Nello stesso tempo, solo il pensare di andare via suggeriva immagini di
tradimento, di fuga dalla sofferenza, sentimenti che non erano nel nostro animo.
"Artigliere è arrivato il trasferimento". La domanda l’avevo fatta ancora a
Belluno, il primo giorno di militare.
L’esame di laurea era fissato per il 13 luglio a Padova. "Potevo rinunciare, ben
conoscendo i sacrifici che avevo fatto per finire la tesi prima di essere
arruolato?"
La strada che dalla Goi portava alla stazione dei treni di Gemona non era lunga,
se fatta in libera uscita, lo diventava però con la valigia e tutto il corredo
in una mano, la borsa con la tesi e i libri nell’altra e lo zaino in spalla. Il
silenzio, a quell’ora del mattino, era quello della campagna, degli orti e dei
giardini coperti di guazza notturna che stava già evaporando; solo verso il
paese, trasportato dalla brezza che scendeva dai monti, il silenzio era rotto
dal frastuono smorzato delle ruspe che erano al lavoro sulle macerie. Dietro di
me c’erano due persone: un uomo che spingeva la bici e una donna che teneva in
equilibrio sulla canna una valigia. Li avevo visti giungere da una stradina
laterale, camminavamo in silenzio. Arrancavo con una grossa valigia spostandola
da una mano all’altra, ogni pochi metri.
"Alpino, se vuoi puoi appoggiarla sul portapacchi, basta che la
tieni in equilibrio".
"Grazie, ma avete già la vostra". "Appoggiala", m’intimò quasi la donna.
"Prendo il primo treno, quello che arriva da Vienna. Sono stato trasferito a
Padova, mi devo laureare fra quindici giorni". "Sei fortunato, vai incontro a
giorni migliori – e con voce incrinata la donna continuò – bisognerebbe andar
via tutti, qui ci sono solo morte e disperazione".
Non avevo parole da aggiungere, né altre aveva l’uomo che guardava davanti a
sé il sole, tracimato ora completamente.
"Lui riparte, torna in Svizzera a lavorare". L’uomo fermò la bici, guardo
dietro di sé e lo sguardo si spinse prima lontano, quasi fino al Tagliamento,
poi si fissò immobile più vicino.
"Quella è la mia casa. Ho lavorato vent’anni all’estero per costruirla. Ora è
ridotta così", disse indicandola con la mano. La casa era sbilenca, uno scherzo
della geometria: i rettangoli diventati parallelogrammi, il trapezio isoscele
del tetto scomposto in trapezi scaleni, una tenda grigioverde nel cortile.
"Per sistemarla deve ripartire, ancora profugo, lui lontano, alla sua età e
io ancora qui a tenere duro e soffrire due volte". "Non parlare così, non vale
la pena, ce la faremo".
Il groppo che avevo dentro per lasciare quella terra, la caserma, molti che
mi erano diventati fratelli, si era fatto così grosso che m’impediva di portare
parole di consolazione, anzi, lacrime soffocate mi facevano colare il naso che
non potevo pulire, perché avevo entrambe le mani occupate.
"Hai preso il raffreddore a dormire in tenda e a fare la guardia di notte?"
chiese l’uomo.
"Non è per quello – riuscii a dire sottovoce – è un raffreddore come il suo",
gli risposi con l’aria complice, perché mi ero accorto che stava tirando su con
il naso, per soffocare le lacrime.
Eravamo ormai alla stazione. "Buona fortuna". "Anche a te, alpino".