UNA STORIA LUNGA VENT'ANNI


Settembre 2013

Le penne nere tornano in terra di Russia per ricordare lo slancio di alpinità che diede vita all’Operazione Sorriso, un asilo a Rossosch che ora ospita oltre 170 bambini. Allora si onorò un debito di riconoscenza verso la gente di quei luoghi e si edificò un monumento di vita per ricordare chi la perse servendo la Patria. Oggi l’abbraccio con la comunità di Rossosch a vent’anni dal coraggioso progetto.

  


Gli alpini De Lucca e Chies con Sante Cietto


La doverosa foto di gruppo a fine turno
e una corona da gettare nel Don


L’intervento di Luciano Mazzer
all’ex Convento San Francesco


Sul tetto dell’asilo di Rossosch


La “camera” dove dormivano gli alpini
durante la costruzione dell’asilo
 


Una cameretta dove oggi dormono
i bambini dell’asilo di Rossosch


Il Presidente Nardo Caprioli col sindaco di Rossosch


Un’immagine dell’asilo di Rossosch, orgoglio degli alpini

Bortolo Busnardo, zio del nostro Presidente nazionale Sebastiano Favero, un grande amico che ora non c’è più e che dell’essere alpino aveva fatto il motivo della sua vita, parlava dell’Operazione Rossosch come di una “pazza idea” propiziata da quel pizzico di follia che affascina gli alpini e che li ha trascinati, in guerra e in pace, in altre difficili, straordinarie imprese. Un impegno coinvolgente, carico di emozioni e fibrillazioni, una storia a lieto fine, ricca di sentimenti, come le belle favole dei nostri anni verdi.
Rossosch rappresenta forse la più bella pagina tra quelle scritte dagli alpini in tempo di pace e mi onoro di esserci stato dentro dal primo all’ultimo giorno. È stata per me un’ulteriore occasione per scoprire quanto gli alpini siano unici, quanto grande sia la loro capacità di dare, dare senza mai chiedere, la loro generosità, la loro umiltà. A tal proposito ricordo quei due vecchi generali a spasso per il cantiere con la loro carriola, che, pur d’esserci, s’erano assoggettati al ruolo di umili manovali. Per non parlare del medico e del cappellano, sempre presenti in ogni turno, il cui compito, peraltro portato avanti con il massimo scrupolo, era il più umile di tutto il cantiere: quello di sovrintendere alla costante pulizia dei servizi igienici.

Il medico va bene, ma cosa ci facesse il prete all’interno del turno può essere incomprensibile a chi non conosce la religiosità degli alpini. Tanto per ricordare che alla fine della giornata di lavoro in cantiere c’era sempre la messa. Quindi il rancio serale cui seguiva il momento della nostalgia quando passava sopra di noi la luna, quella luna che di lì a poco a tremila chilometri avrebbe illuminato la notte sopra le nostre case. Fino a quando qualcuno intonava Cimitero di rose, un canto semplice, dolce e struggente, la colonna sonora che ci ha accompagnato per tutto il periodo della costruzione dell’asilo.

Il mio primo viaggio in Russia, in quel mondo in cui ancora tutto era difficile, incomprensibile, assurdo, anche impossibile: l’aereo, poi 14 ore di treno, un’avventura, l’arrivo a Rossosch, fino a pochi giorni prima un punto indecifrabile sulla carta geografica, incapacità di comunicare, alloggio improbabile, perplessità e difficoltà di ogni genere. Perché quella che ci trovammo davanti era una terra prostrata da una crisi politico-sociale devastante e da una diffusa, palpabile povertà. L’unica certezza sapere che quelli erano i luoghi dove 50 anni prima si era compiuta la più grande tragedia dei nostri alpini. Ed era grossa la responsabilità di cui ci sentivamo caricati, pesavano le parole di Caprioli che ci aveva salutati all’aeroporto: mi raccomando l’asilo. Il nostro incontro con il sindaco Ivanov e lo storico Morozov, gli unici che credevano realmente negli italiani, catapultati in un mondo in cui non esisteva nulla, dai servizi, alle attrezzature, ai telefoni. I mercati desolatamente vuoti, dove però campeggiavano ovunque le matriosche, le oche, quelle di cui avevano sempre parlato i reduci, che scorazzavano libere ed ovunque per le strade. Una strana terra dove a lavorar di pala e cazzuole erano le donne.

Non fu facile, ma si sa che gli alpini non si arrendono. Ricordo quando al ritorno Nardo era in aeroporto ad aspettarmi e come gli dissi che il contratto era stato firmato vidi, forse per l’unica volta, stamparsi sul suo volto un sorriso splendido. L’avvio delle operazioni non fu facile, con i volontari che dormivano nel bunker di uno scantinato privo di finestre e servizi, l’umidità che penetrava la pelle e le brande protette da un telo di nailon a riparo dell’acqua che scendeva dal solai

Era un cantiere unico quello di Rossosch, con la fantastica approssimazione degli alpini dove poi tutto si ricompone meravigliosamente, una babele di dialetti, un universo di abilità e professionalità che seppe adattare i pochi e inadeguati mezzi a disposizione per predisporre un’organizzazione efficiente. Poi la costruzione prese corpo. Perché lì c’erano professionisti e tecnici preparati, gente di mestiere, volontari che mettevano lo stesso impegno e la stessa passione che avrebbero messo nella costruzione della loro casa. E non solo pensionati, ma giovani alpini che per esserci avevano sacrificato le loro ferie.

E non si stupì nessuno del fatto che furono 1200 coloro che chiesero di partecipare: ne servivano 600, gli altri a malincuore dovemmo lasciarli a casa. Anche le offerte raccolte dall’associazione per le spese ed i materiali superarono di gran lunga le aspettative. E ci fu chi non si accontentò di fare un turno. Furono tre i capocantieri ad alternarsi nella direzione dell’opera: Giulio Franchi, Aldo Del Bianco e il nostro Sante Cietto. Sante si era fratturato il mignolo della mano destra e pur di partire in mia compagnia e non ritardare la sua presenza a Rossosch, in ospedale a Conegliano chiese al primario ortopedico di farsi tagliare la falange. Accontentato, di turni in cantiere ne fece ben otto. Il suo impegno fu in seguito riconosciuto da Caprioli con un presente particolarmente significativo.

È tradizione qui da noi che sul colmo dell’edificio, infissa sulle impalcature che ancora contornano la costruzione, svetti una frasca: quel ramo è il simbolo verde della rinascita, del nuovo, memoria di una usanza antica, come bandiera arcaica del lavoro compiuto. Non svettò nessuna frasca sull’ultima trave dell’asilo, ma gli alpini vollero comunque ricordare a modo loro: fermato il cantiere, tutti salirono sul tetto, seduti su quella trave, petto nudo e cappello in testa, ripresi da un temerario fotografo in bilico sul montacarichi pericolosamente sospeso nel vuoto dalla gru del cantiere, mentre dalla vicina chiesa ortodossa si diffondeva il suono delle campane cui si era attaccato il pope. Fu un momento di intensa commozione, non sfuggiva che quella trave rappresentava il primo risultato tangibile di quella pazza idea in cui 400mila uomini, a tremila chilometri di distanza, avevano creduto, mettendoci il loro impegno e la loro passione, un momento indecifrabile voluto e cercato fortemente, anche se in maniera inconscia, da uomini di pace e buona volontà.

Come saremmo stati accolti dalla popolazione di Rossosch? Le raccomandazioni di Nardo Caprioli erano state chiare: non dimenticatevi di trovarvi in una terra dove siamo stati invasori. I primi contatti con la popolazione non furono facili, ma la diffidenza iniziale si dissolse ben presto. All’inizio destammo grande curiosità ed incredulità: che siete venuti a fare? E perché lo fate? Lavorare gratis? Cosa significa volontariato? Quando i rapporti si sciolsero, il cantiere divenne un punto di incontro, nacquero relazioni ed amicizie, e l’interesse per le ragazze russe da parte di qualche “giovinotto” venne subito tenuto a freno dagli anziani. Anche se più di qualche donna di Rossosch ora vive felicemente sposata in Italia.

Rossosch non fu solo l’asilo: in quella terra i reduci tornarono con il cuore gonfio di ricordi, i giovani alpini onorarono un debito di riconoscenza e il bisogno di ricordare i loro morti. Rossosch fu anche il secondo capitolo di quell’incontro Italiani-Russi che costituisce una delle storie più paradossali del secolo scorso. Ricordi tremendi ma anche umani, quelli dei momenti duri della ritirata, quando i nostri soldati congelavano sulla steppa innevata e le donne russe aprivano le porte al loro bussare, li riscaldavano e condividevano l’ultimo pane. La commovente generosità degli abitanti che li nutrivano e curavano quando passavamo derelitti per i loro villaggi e mostravano quale era la direzione giusta per la fuga. La meraviglia nel constatare che, paradossalmente, proprio quel popolo che insulsamente volevano assoggettare li aiutava a sopravvivere. Gli abitanti della steppa si erano istintivamente accostati agli alpini. La gente d’Ucraina aveva trovato un’intesa con gli uomini dalla penna nera e si mostrava piena di simpatia e di attenzioni verso quei ragazzi. Una storia, quella del rapporto tra alpini e popolazione russa, che qualche volta, per qualche momento, è riuscita a rappresentarci una visuale diversa sugli avvenimenti nell’inferno della ritirata.

Un’anziana mi invitò un giorno nella sua isba un po’ fuori Rossosch e, chiuse le porte, accertatasi che nessuno ci avesse seguito sollevò il doppio piano del tavolo che costituiva l’unico elemento di arredo della piccola cucina e mi mostrò i pantaloni color cachi dell’alpino con cui 50 anni prima aveva vissuto una storia.
Aspettative improbabili, promesse di eterna fedeltà, testimoniate da quel paio di pantaloni sbiaditi gelosamente custoditi in segreto con la paura, non ancora rimossa, di essere scoperta dal KGB. Ritenendo che questa storia non meritasse di finire nel silenzio, tornato in Italia mi misi alla ricerca del protagonista della vicenda e le mie ricerche portarono ad un paesino della Barbagia in Sardegna. Mi rivolsi al parroco che con delicatezza contattò prima il figlio del reduce. Finì che i protagonisti di quella strana vicenda rivissero la loro storia a modo loro: il reduce sardo fece arrivare in Russia, mio tramite, 200 dollari, dalla Russia arrivò in Sardegna un pacco contenente un pugno di semi di zucca.

Luciano Mazzer era bambino quando vedeva la nonna passare le ore seduta alla finestra e lo sguardo fisso sul cancello che dava sulla strada in quel di Santa Rosa di San Vendemiano. Ne coglieva tutta la pena, mai riusciva a scalfire la tristezza di quello sguardo che non si staccava dalla strada e si perdeva lontano, come se aspettasse qualcuno che doveva arrivare. Luciano capì presto che la nonna aspettava Giacomo ed Enrico, partiti per un posto lontano e mai più tornati. Luciano non ha mai dimenticato il dolore dell’attesa della nonna, fino all’ultimo giorno con il rosario in mano ad aspettare quei figli che non tornavano, anni di pianto senza lacrime e gli occhi persi sulla strada. Oltre il cancello. Giacomo ed Enrico non sono più tornati. Per onorare la memoria degli zii, Luciano ha curato la pubblicazione italiana del libro in cui Alim Morozov parla del suo incontro con gli alpini, che è stato presentato nell’Auditorium del San Francesco assieme alla riedizione dell’“Operazione Sorriso”. Ricordare gli zii e la nonna per Luciano Mazzer non è stato facile.

Questa e altre iniziative messe in campo dalla Commissione Rossosch sono la testimonianza che l’Operazione Sorriso non si è mai conclusa. Dopo 20 anni gli artefici di quell’intervento in terra russa sono ormai una associazione nell’associazione. Li lega l’amicizia creatasi in quel cantiere unico, amicizia che si rinnova nei numerosi e periodici incontri. Anche se, inevitabilmente, le file cominciano ad assottigliarsi e tanti non ci sono più, a cominciare dai principali artefici, vedi Panazza, Greppi, Busnardo e Caprioli che ci ha lasciato solo qualche settimana fa. Per non dimenticare il nostro Sante Cietto.

Rossosch non è stato solo l’asilo ma tante altre vicende, tante altre storie che avrebbero risvegliato la penna di De Amicis. Ricordo solo quando venne in cantiere un’anziana signora russa. Piangeva. Mi consegnò le fotografie, sbiadite dal tempo, di due belle ragazze. Mi raccontò tra le lacrime che la mamma, 50 anni prima, mentre infuriava la battaglia aveva raccolto nella sua isba due alpini gravemente feriti che non era riuscita a salvare. E da allora aveva custodito le due foto trovate nei loro portafogli. La mia curiosità fu attirata dalla scritta “foto Marino - Conegliano” su una delle due foto. Le due immagini furono pubblicate sul Gazzettino di Treviso e dopo due giorni mi contattò un ristoratore di Conegliano: quella scattata a Conegliano era la foto di sua cugina, ai tempi morosa di Giovanni Casagrande, mai più tornato dalla Russia. Solo che Olimpia era morta poche settimane prima. E se n’era andata invocando un nome: Giovanni.

Lino Chies


Giornate di lavoro senza dimenticare il dovere del ricordo di chi è andato avanti