CULTURA ALPINA |
Maggio 2013 |
di Antonio Menegon
Lo sanno tutti che un seme germoglia e cresce dritto se il terreno è fertile, ricco di humus e se di tanto in tanto viene bagnato da una pioggia leggera, mai a scrosci. Così anche i valori degli alpini, che sono poi quelli dei patrioti che vollero l'Italia una e indivisibile, dopo secoli sottomissione a stranieri di ogni tipo; gli stessi valori che animarono i nostri soldati, dopo Caporetto, allorché ripiegarono di là del Piave a costruire la riscossa. Il prodigarsi degli alpini in slanci di solidarietà nella speranza che diventino contagiosi, l'ergersi a rispettoso saluto quando sul pennone si alza il Tricolore, il commuoversi quando un vecjo imbocca la strada del Paradiso di Cantore, l'avere le Istituzioni nel cuore, sono gesti e sentimenti che hanno bisogno di un terreno fertile per diventare patrimonio di tutti. Diversamente assisteremo ad un pur lento ma progressivo declino di quella che con somma sintesi chiamiamo "alpinità", anche perché di alpini, intesi come popolo con la penna nera, l'esercito italiano non ne sforma praticamente più. Solighetto, 19 gennaio 2013, Teatro parrocchiale; un piccolo gioiello che sembra uscito da un film di Fellini. Come da diversi anni in quel teatro il Gruppo di Solighetto organizza una serata a preludio della commemorazione ufficiale della Battaglia di Nikolajewka che si celebra il giorno dopo. "Parole e cante degli alpini in Russia" è il titolo della serata. Gli ingredienti sono la lettura di alcuni brani di autori che parlano della tragedia occorsa all'esercito italiano in quella terra gelida e inospitale, dellee cante della tradizione alpina intonate dai Cantori da filò e il canto di un gruppo di bambini della scuola elementare di Solighetto. Poi c'è una tromba con cui Ugo Granzotto suona il silenzio, il silenzio più struggente che si possa ascoltare, perché quello strumento è stato raccolto proprio in Russia su un campo di battaglia innevato e macchiato di tanto sangue italiano. Nella platea e fin sopra il piccolo loggione del teatro è tutto esaurito. Nelle prime file una frotta fremente di bambini della scuola elementare, le loro maestre, i genitori e anche i nonni. I bambini salgono sul palco e in platea gli occhi si illuminano; le maestre a fare le ultime raccomandazioni, Piero Marchesin, che li dirige, a mettere ordine tra le fila, ma non ce n'è bisogno. Poi al preciso gesto del maestro da quelle bocche esce un canto: il Fratelli d'Italia, l'Inno di Mameli, interpretato, non solo cantato. Lo si vede dal portamento serio, dalle facce impegnate, quasi corrucciate quando nello slancio finale gridano: siam pronti alla morte !'Italia chiamò! Il pubblico applaude, i bambini sorridono, nelle prime file il luccichio degli occhi lascia cadere qualche lacrima, nei cuori di tutti c'è una sensazione di gioia e di ammirazione per quei ragazzini e quelle ragazzine, per le loro insegnanti, che con Piero Marchesin hanno curato la preparazione dei canti. Dopo l'Inno nazionale è la volta de Sul cappello e poi de Sul rifugio. E' in quest'ultimo canto che i bambini danno il meglio di sé: Se un alpino cade in montagna, la fanciulla pianger vedrà. Se una lacrima gl'occhi le bagna, sulla neve un fior diverrà. Come dare un senso a questi canti? Come dare valore a queste parole? Lo sanno sicuramente bene le insegnanti di Solighetto se insistono da anni a proporre ai loro alunni parole e emozioni ormai in disuso, ma che sono alla base di una società davvero civile. E gli alpini? Cosa devono fare gli alpini?