NIKOLAJEWKA, C'ERO ANCH'IO |
Maggio 2015 |
Racconto di GIUSEPPE ARMELLIN
Caporal maggiore Giuseppe Armellin
Divisione Tridentina, battaglione Vestone, 6° Reggimento Alpini
Quando, il mattino del 26 gennaio 1943, Nikolajewka ci apparve in fondo all’ampio avvallamento, oltre il bastione
ferroviario, già da dieci giorni durava la marcia degli alpini. Il ripiegamento dal Don si era iniziato i giorni 16-17
gennaio. Il Corpo d’Armata Alpino, costituito dalle 3 Divisioni Julia, Tridentina e Cuneense era schierato sul fianco
nord del settore tenuto dagli italiani. A sud c’erano le 6 divisioni di fanteria, i bersaglieri e le Camicie Nere.
Contro questa ala sud del settore italiano, fin dal dicembre si era scatenata la furia degli attacchi russi. La Julia in
quei giorni di dicembre fu spostata a sostituire la Cosseria, pressoché distrutta da un possente attacco russo; ed
ancora una volta la gloriosa Julia fu pari al suo valore, combattendo in condizioni impossibili, in trincee di neve,
subendo perdite disastrose, ma tenendo testa per quasi un mese a tutti gli attacchi.
Il 15 gennaio si scatenò con estrema violenza la seconda offensiva russa, e travolte le difese a sud dello schieramento
alpino, i carri armati russi piombarono su Rossosch, sede del comando del nostro corpo d’armata.
Era il segnale dell’accerchiamento; infatti una seconda colonna russa irrompente dal nord, chiuse gli alpini in una
grande sacca. Così cominciò la nostra ritirata attraverso il territorio occupato dal nemico, nelle retrovie sconvolte,
senza più rifornimento, con 30-40 gradi sotto zero, con un vento che ti bruciava la pelle come fosse la vampa di una
fornace.
All’immensa colonna degli alpini si erano intanto uniti i resti della Vicenza, tedeschi, ungheresi, e romeni. Come una
inondazione nera sull’immensa distesa bianca, uomini, muli, slitte, cannoni, avanzavano lenti, trascinandosi verso
un’unica meta, tremendamente lontana: ritornare a casa.
Il 18 gennaio ad Opyt si sostenne il primo combattimento. Da allora i generali decisero di far avanzare in testa i
reparti migliori, poiché quella non era una ritirata, ma una avanzata in territorio occupato dal nemico. Alla Tridentina
fu affidato il compito di aprire la via con l’appoggio degli ultimi 4 carri armati tedeschi. Giorno per giorno la
colonna andava disfacendosi; di combattimento in combattimento si andavano perdendo i collegamenti; i reparti che
marciavano in testa continuamente si assottigliavano, per quelli che cadevano combattendo, per quelli che restavano
indietro sfiniti, per la fame, il freddo, il congelamento. Le nostre tappe erano i paesi dove c’erano isbe per
ricoveraci. Coloro che, sopraggiunta la notte, restavano fuori, coloro che non riuscivano ad entrare nelle isbe stipate,
erano condannati a una notte insonne senza riposo. Stretti gli uni agli altri si addossavano contro le pareti delle isbe
per proteggersi dal vento della steppa. Così uno ad uno passarono i giorni della ritirata. I russi con continue puntate
di carri armati, piombavano in coda alla colonna, dove c’erano soltanto uomini senz’armi, ai quali la disperata volontà
di sopravvivere non bastava più per andare avanti; bloccati nella gelida landa restavano prigionieri del nemico, del
freddo e della morte per assideramento.
Ma anche in testa si combatteva. Il nemico tentava di arrestare la nostra marcia occupando i villaggi disposti sul
nostro cammino.
Per altre dieci volte le formazioni che marciavano in testa furono impegnate in furiosi attacchi a villaggi presidiati.
Bisognava attaccare nelle condizioni più disperate, con l’appoggio di scarsa artiglieria, senza il tempo di manovrare;
bisognava solo vincere, bisognava solo passare. E gli alpini passarono ogni volta. A Warwarowka era scomparso tutto un
battaglione, il Morbegno, tenendo a bada un’intera formazione corazzata russa, finché la colonna non riuscì a sfilare
protetta dal sacrificio di quelli alpini.
Finalmente il mattino del 26 gennaio, noi del battaglione Vestone che marciavamo in avanguardia, giungemmo davanti a
Nikolajewka. Ivi c’era posto per tutti, ma vedemmo che la cittadina era occupata dal nemico.
Disposta in fondo ad un ampio avvallamento, la città era ben protetta dal rilevato della ferrovia, sul quale si era
attestato il nemico con forze che per noi erano completamente sconosciute.
Il nostro battaglione si dispose in spiegamento di battaglia e, dopo aver atteso invano il grosso della colonna che
presso Arnautowo era stata bloccata da una formazione nemica, iniziò l’attacco.
Guidati dal nostro maggiore Bracchi, sulle ore 11 andammo all’assalto, discendendo l’ampia spianata digradante verso il
bastione ferroviario. All’improvviso si scatenò su di noi la furia delle armi nemiche: mitragliatrici, cannoni, mortai
aprirono un fuoco infernale sugli alpini che scendevano allo scoperto. Il nostro bel battaglione fu in pochi minuti
distrutto davanti alla città, dal fuoco di un’intera divisione russa.
A Nikolajewka il nemico aveva concentrato ingenti forze quante gli alpini non avevano mai incontrate durante tutta la
ritirata. Nikolajewka doveva essere la tomba del Corpo d’Armata Alpino.
Le nostre perdite nel primo attacco furono enormi; nessuno contò i nostri morti disseminati nel grande avvallamento. Io
so dire solo dei 12 uomini della mia squadra, in una decina di minuti, 3 uomini caddero morti e in 6 fummo feriti: 9
uomini su 12 furono colpiti. Contemporaneamente ad Arnautowo il battaglione Tirano andava ripetutamente all’attacco
perdendo quasi tutti gli ufficiali. Intanto attaccarono reparti del Val Chiese, del Verona, dell’Edolo e del Tirano.
Verso mezzogiorno finalmente il grosso della colonna cominciò ad arrivare di fronte a Nikolajewka.
Gli ufficiali raccoglievano i soldati, formavano nuovi reparti con elementi sparsi, con soldati di altre divisioni,
trascinavano a combattere dietro di loro gente che non aveva più ne uniforme ne armi. Raccoglievano le armi dei morti e
dei feriti e con quelle attaccavano. Generali, colonnelli, infermieri e conducenti, artiglieri e alpini, mescolati,
senza gradi, si slanciavano contro il bastione ferroviario; ma i russi spazzavano il vallone e respingevano un assalto
dopo l’altro, con una violenza di fuoco insormontabile. Cadde il generale Martinat ed il colonnello Calbo del Vicenza,
rimasero feriti il colonnello Adami ed il colonnello Migliorati.
Il colonnello Signorini comandante il 6°, ritornò infinite volte all’attacco con i suoi alpini; il capitano Zani, sempre
in testa a tutte le battaglie per otto volte balzò all’attacco anche a Nikolajewka, benché più volte ferito.
Non si riusciva a superare in forze il bastione ferroviario: da una parte un’intera divisione russa, uomini freschi,
armi potenti, munizioni a non finire, posizione protetta e dominante; dall’altra parte uomini sfiniti, che avanzavano
allo scoperto, affamati, febbricitanti, con poche armi, sfiduciati, disperati. Si avvicinava la sera e tutto sembrava
ormai perduto. Allora il generale Reverberi, l’indomito comandante della Tridentina, decise di riunire tutte le forze,
per tentare l’ultimo disperato assalto: tutti dovevano discendere come una valanga.
Raccolse i pochi resti del Vestone e del Morbegno, i battaglioni Val Chiese, Verona, Tirano, Edolo, i reparti dei gruppi
di artiglieria, alpini e artiglieri della Julia e della Cuneense, fanti della Vicenza; tutti gli uomini validi, feriti,
armati e disarmati, slitte cariche di feriti e l’ultimo carro armato. Scendere tutti come una valanga, decise il
generale, con lui in testa.
Quando tutti furono pronti il generale Reverberi balzò sul carro armato e gridò con tutta la voce che gli restava:
“Tridentina avanti!” .
Dal ciglio del vallone una unica ondata si mosse, avanzò improvvisa, spaventosa ed enorme. La furia delle armi russe
divampò tremenda e micidiale; ma dietro quel carro armato, dietro al loro generale in piedi sul carro, gli alpini non
potevano più essere fermati.
Avevano con se i compagni che più non si reggevano e che ancora li incitavano; e tutti andammo all’attacco, tutti
insieme, anche con i nostri morti. Disteso su una slitta, solenne nella morte, il colonnello Calbo venne portato avanti
e guidò per l’ultima volta i suoi soldati. E gli alpini passarono.
Si impadronirono di mitragliatrici, di cannoni e li volsero contro il nemico che voleva resistere ad ogni costo.
La battaglia continuò casa per casa. Alla stazione il capitano Ferroni del Val Chiese, combatteva con la sua compagnia
ridotta a pochi uomini; se avesse ceduto i russi avrebbero preso alle spalle tutti gli Alpini. Ma Ferroni resisteva e
resisterà fino all’ultimo, e unico superstite in mezzo ai suoi alpini tutti morti, il capitano più volte ferito, col
mitragliatore, lui solo, ricaccerà il nemico e poi morirà di schianto.
Il capitano Frugoni del Val Chiese, espugnata con i suoi uomini una posizione dominante, da dove l’artiglieria nemica
infuriava, la tenne quanto bastò perché si avvicinassero i rinforzi. Morì con tutti i suoi soldati e venne decorato di
medaglia d’oro al valor militare.
I russi tentarono di ritornare, ma con un ultimo disperato corpo a corpo la posizione fu riconquistata. Era ormai calata
la notte, quando finalmente la tremenda battaglia si risolse a nostro favore. Nelle case abbandonate dai russi, i
sopravvissuti cercheranno un po’ di pane, un po’ di fuoco, un giaciglio per riposare l’infinita stanchezza; per essere
in grado di riprendere l’indomani la marcia verso la libertà.
Da NIKOLAJEWKA, C'ERO ANCH'IO