A CONEGLIANO GLI LPINI LASCIANO IL SEGNO |
Luglio 2015 |
L'esultanza di Nino Geronazzo |
La regia.
La prima impressione di questo Triveneto è che il nostro Nino è in qualche difficoltà con le corde vocali.
Ma anche se la voce lo abbandonasse del tutto non rinuncerebbe al compito di regista di questa manifestazione,
organizzata in ogni minimo particolare.
Si illudeva che l’adunata di Pordenone, la quinta, fosse per lui l’ultima.
Questa quasi-adunata lo ha preso più delle altre perché qui giocava in casa.
Dove sono i muli? Sento una voce di protesta dietro di me, la protesta di qualcuno che vorrebbe vedere i vecchi
quadrupedi del reparto salmerie di Cappella Maggiore presenti già alla cerimonia di accensione del tripode. La voce è
quella di un vecchio artigliere friulano, un imponente armadio di quasi due metri, ricordi di naia e muli di più 40 anni
fa.
I muli, maledette bestiacce per alcuni, curiosi quadrupedi per altri, amati e odiati, coccolati e vezzeggiati, erano
loro i protagonisti della vita in caserma, perché attorno a essi ruotava tutta l’attività del giorno e della notte.
Era vita dura, quella dell’Artiglieria da Montagna, dura per colpa dei muli. Vi erano muli docilissimi, ricorda il
friulano, altri mal sopportavano i frequenti cambi di conducente. Marciana era una mula gigantesca, un culo alto così,
atteggiamento da primadonna, sguardo che metteva paura.
Conegliano e Gorizia al passaggio delle consegne: il momento è solenne |
I muli della Cantore.
E Marciana era toccata a lui, perché solo lui sapeva domarla. Imbastarla era un’operazione che richiedeva tempo,
pazienza e grande abilità. Ma quando, dopo tentativi estenuanti, si sentiva calare il basto sulla schiena, Marciana
diventava un animale docile e mansueto.
Va a finire che il friulano si perde nei ricordi, i ricordi delle guardia-muli notturne quando i quadrupedi scappavano
dalla scuderia e gli zoccoli, sull’asfalto del cortile della caserma, erano un surreale concerto notturno di xilofoni.
Un’interminabile impresa, la mattina, riportarli nella scuderia.
L’operazione più importante della giornata era l’abbeverata-muli, cui partecipavano tutti, compresi i furieri e gli
imboscati. Un’operazione difficile e rischiosa, bastava che un mulo scappasse e scappavano tutti.
Ricorda che le Batterie della Cantore di Tolmezzo erano piene di abruzzesi, bravi anche loro con i muli. Bassi di
statura, ma quadrati, erano loro a contendersi la vittoria in quella gara demenziale che consisteva nel fare il giro del
cortile della caserma di corsa reggendo il quintale della bocca da fuoco dell’obice. Ricorda anche un conducente
genovese che nel corso di una marcia in un passaggio difficile su un monte della Carnia perse il controllo del suo mulo,
imbizzarritosi per l’improvviso smottamento di pochi sassi. Volata nel vuoto la povera bestia era rimasta immobile nel
fondo di un crepaccio. Uno spettacolo molto triste, l’animale esanime, zampe all’aria con la culla inferiore ancora
agganciata al basto. E non si seppe mai se fosse per la paura delle conseguenze o per la povera bestia, sta di fatto
che, confessa il mio interlocutore, quel giorno fu l’unica volta che vide un alpino piangere sotto la naia.
Tra ricordi e nostalgia.
Terminata la cerimonia dell’accensione del tripode, nel chiosco più vicino fervono già le operazioni di mescita. Stante
anche il fatto che su piazza IV Novembre incombeva il più classico dei solleoni estivi.
Aldo, come è solito fare, impone un bicchiere a tutti coloro che gli stanno attorno. Un prosecchino buono, delizioso e
freschissimo ma ignobilmente servito in volgari bicchieri di plastica. Si parla, inevitabilmente, di naia, e col suo
bicchiere in mano Ezio ricorda (e cos’è in fondo un’adunata di alpini se non un tuffo nei ricordi? Ricordi, ricordi e
nostalgia. Ma diceva qualcuno che la nostalgia non è peccato ma ferita dell’anima) che partito sotto naia convinto di
raggiungere l’Aquila si ritrovò in una città sconosciuta (Teramo) lui che sotto il Po non s’era mai spinto. Nemmeno
l’Aquila sapevo da che parte fosse, ma almeno quella città aveva un nome giusto per andarci a fare l’alpino, per via
dell’immagine superba del rapace che aveva vista cucita su tante divise.
Un mese di CAR, poi con la tradotta su nel Friuli. Pensava l’avrebbero spedito nella fredda Pontebba che radio naia
aveva battezzato “la tana dei lupi” o, peggio ancora, Chiusaforte, dove non si vede mai il sole. E invece si ritrovò a
Paluzza, paesetto della Carnia di cui pure ignorava l’esistenza. Ma la sorpresa più grande fu scoprire che la caserma
era intitolata a una donna. Dentro i veci erano in febbrile attesa delle nuove reclute, e gli zaini volarono alti. Ma
anche bassi, se per ben due volte dovette ridiscendere dall’ultimo piano per recuperare il suo scaraventato in cortile.
Il rancio era buono ma le marce erano massacranti e come telegrafista Ezio doveva partecipare a tutte le esercitazioni.
Nonostante il complesso apparato di fili, teleferiche e impianti, le radio non funzionavano mai. Veniva peraltro captata
in maniera perfetta Radio Capodistria, sembrava l’unica emittente di quella zona, non era una gran cosa, ma intanto si
passava il tempo.
Il capitano era uno che, come tutti i capitani degli alpini, faceva sputare sangue. Aveva una predilezione maniacale per
l’ordine, la divisa e gli zaini che dovevano essere affardellati in maniera perfetta.
Salire la montagna lungo sentieri ripidi e impervi con lo zaino di 35 - 40 chili era la cosa più massacrante dietro al
capitano che con il suo zaino sembrava invece un camoscio. E mentre tutti si chiedevano dove andasse a trovare tanta
forza e tanta resistenza, un giorno scoprirono che nello zaino del capitano c’era un materassino ben gonfiato che dava
allo zaino una forma perfetta.
Ezio ricorda che nella libera uscita aveva la sensazione che gli alpini fossero benvoluti, ma il paese era piccolo e non
c’era nessun diversivo, se si eccettua qualche bevuta nell’unica osteria per festeggiare il congedo di qualche amico.
Soprattutto non si vedevano tose in giro e, siccome la cosa capitava anche nella libera uscita a Teramo, Ezio aveva
elaborato la teoria che quando gli alpini uscivano le tose, chissà perché, se ne stavano rintanate in casa.
“Andare in fuga” era l’avventura più classica tra quelle che si potevano vivere sotto naia. Consisteva nel fare un salto
a casa quando non si era di servizio, di solito il sabato sera, per trovare la morosa. Serviva la copertura della
camerata, era molto rischioso e la punizione, se si veniva beccati, molto severa. Ma bisognava raggiungere Tolmezzo in
autostop, essendo Paluzza fuori dal mondo, ed era successo che a caricare un alpino autostoppista si fosse fermato
nientemeno che il capitano.
Di fughe neanche parlarne, quindi, la libera uscita non proponeva granché e tutto si consumava dentro i muri della
caserma, con le lunghe serate dedicate alle lettere della morosa, quelle da scrivere e quelle da leggere e rileggere, che a volte, succedeva sotto naia, venivano lette anche agli amici.
Anche i mesi a Paluzza
passarono e verso la fine Ezio fu gratificato di una licenza premio in quel di Lignano, dove l’esercito disponeva di una
struttura balneare. Si ritrovò così a meditare, lui che aveva sempre disdegnato le vacanze al mare, quanto fosse
gratificante starsene beatamente sul materassino con la pancia al sole mentre per gli impervi sentieri dei monti della
Carnia altri alpini sputavano sangue per star dietro al capitano col materassino gonfiato d’aria. Venne il giorno del
congedo, il giorno tanto atteso, una attesa che prima si misurava in mesi, poi in giorni, poi addirittura in ore,
marchiate con stelline dorate all’interno del cappello. Poi tutti presero la loro strada, ognuno andò a vivere il
doponaia per conto suo, a rincorrere i suoi sogni, a percorrere i suoi sentieri, ben più difficili di quelli della naia.
E intanto sono passati quasi 40 anni. Ezio sta aspettando gli amici di naia, si incontrano ogni anno in occasione
dell’adunata e si sono dati appuntamento anche a questo Triveneto. Quelli che nel chiuso della camerata della caserma
Maria Plozner Mentil di Paluzza condividevano la lettura, e qualche volta anche la scrittura, delle lettere alla morosa.
Tre colpi di canone in Piazza Cima, è la sveglia degli alpini |
Il picchetto degli alpini in armi onora il Triveneto di Conegliano |
Ufficialità e cuore in Piazza Cima intorno al Labaro nazionale |
Senza parole... |
Numeri da guinness.
Siamo già al secondo giro di prosecco quando Gino, di adunate, mi dice di averne fatte ormai 53, la
prima nel ’62 a Bergamo. Fortemente rammaricato per aver saltato, unica, quella di Latina, quando si trovò ricoverato al
Pronto Soccorso di Conegliano con 12 punti sulla testa, rimediati dopo una brutta caduta, a litigare con medici e
infermiere che non lo lasciavano partire. Una febbre altissima lo costrinse poi definitivamente su un letto d’ospedale, niente adunata. E sembra ancora contrariato di quella sventurata assenza. Tre potenti colpi di cannone (qualcuno paventa
presenze inquietanti) precedono i discorsi ufficiali che si concludono con l’appassionata rivendicazione di un ruolo di
prim’ordine all’interno delle società e l’invito alle istituzioni a non ignorare che gli alpini ci sono e ci saranno
sempre. Anche il nostro presidentissimo Favero gioca (quasi) in casa. E nella piazza davanti l’Accademia parte il
concerto degli ex della Cadore. Una esibizione unica nel suo genere, un susseguirsi di note e canti, gli strumenti che
si fermano e la fanfara che diventare coro:
Portava un fiorellino tra i capelli un fiorellino rosso come il fuoco e
aveva gli occhi azzurri tanto belli la bella del Cadore, che amore, che amore.
Musiche e canti senza soluzione di
continuità, a ravvivare questa piazza divenuta negli anni ormai sempre più deserta e silenziosa. Un tripudio di note
nemmeno scalfito dal suono delle campane del duomo, che di solito irrompono prepotenti a coprire la vastità di piazza
Cima e tutta via XX Settembre. L’effetto di grande sonorità finisce per amplificare la suggestione creata da brani tanto
cari alle penne nere. Il possente rombo dei tamburi si riflette sulla facciata dell’Accademia e degli edifici che danno
sulla piazza fino a far vibrare, per interferenza, come mi fa notare Pierluigi, la pelle dei tamburi della nostra
fanfara.
E si fermerebbero chissà quando gli ex della Cadore, se proprio le campane non avessero annunciato che è ora di
messa.
La nostra fanfara nulla ha da invidiare a quella della Cadore se non il numero di orchestrali. Oltre a dare il
passo alla sfilata, ha accompagnato tutti i momenti della manifestazione. Ne ha scandito i ritmi, con suono grave e vibrante. Tante le fanfare presenti al Triveneto: trombe, tamburi,
vibrafoni, labiofoni, clarinetti che dicono della tradizionale e irrinunciabile tendenza degli alpini a esprimere con
immediatezza ogni sentimento.
La Fanfara Congedati della “Cadore” protagonista al Triveneto |
L’orgoglio della Protezione Civile, braccio operativo dell’ANA |
Uomini rudi e sensibili.
Sono centinaia gli alpini accalcati nel duomo per la messa,
grandi teorie di gagliardetti, gonfaloni e labari. La cerimonia non è gestita dagli alpini ma dal coro parrocchiale con
i suoi canti liturgici. All’offertorio non sentirò quindi partire le note melanconiche, tristi, struggenti, dolci,
strazianti e bellissime di Stelutis Alpinis, la più bella melodia, la più bella preghiera tra quelle recitate dalle
penne nere.
Così alla comunione non sarà il momento di Sul Ponte di Perati, come succede nella messa di tutte le
adunate, quando al coro si uniscono via via le voci degli alpini presenti, cui sembra fare eco un coro muto di voci
invisibili, le voci lontane degli alpini che la storia di questa nenia tristissima l’hanno vissuta, quando ti pare
proprio di sentirlo il coro di fantasmi di cui parla la canta, di quelle migliaia e migliaia di alpini caduti sulle
montagne della Grecia, nelle pietraie dell’Albania, quelli che si batterono senza mai arrendersi contendendo ogni guado,
ogni strada, ogni ponte. Quelli cui toccò di ripercorrere l’interminabile steppa ghiacciata della Russia. Quelli che
tornarono e quelli che rimasero lì per sempre.
Non sentirò il Signore delle Cime, con il coro che l’ha intonato subito
sostenuto dall’immenso coro di tutti gli alpini che occupano la navata a crearti un’emozione fortissima, a dirti che è
questo il momento più alto di tutta l’adunata.
Ma non posso fare a meno di apprezzare le immagini di rara suggestione
che l’omelia ci regala ricordandoci che lo spirito alpino è stato temprato nelle marce in montagna, dove, quando l’amico
è stanco, qualcuno è pronto ad aiutarlo a raggiungere la vetta alleviandolo dello zaino. Un’omelia, quella del vescovo Ravignani, breve e semplice, in perfetto stile alpino. Le parole di uno che gli alpini sembra conoscerli bene e li
descrive come “uomini dal fare spesso rude che nasconde però sensibilità e ricchezza di sentimenti. E senza mai chiedere
nulla in cambio”.
La Preghiera dell’Alpino è affidata al nostro Battista. La voce tradisce una fede alpina smisurata, e
dietro a quella voce sento altre voci, quella di tutti gli alpini che in questi 90 anni hanno dato un pezzo della loro
esistenza a questa Sezione, a questa città, ai nostri gruppi, i nostri paesi.
La loro passione per la penna altro non
era, non è, che la passione e l’amore per la loro storia e la loro, la nostra terra.
90 tricolori per i 90 anni della Sezione |
La Protezione civile sull’attenti, davanti al palco d’onore |
Il vessillo di Conegliano |
Gli alfieri dei 30 Gruppi di Conegliano |
La sezione di Conegliano |
Il nostri Sindaci |
Via XX.
Poi parte la festa. Perché
gli alpini quando è ora di lavorare lavorano, quando è ora di pregare pregano e quando è il momento di far festa fanno
festa. In questo caso, però, la festa è partita un po’ in anticipo, e cioè quando ancora altri alpini stavano pregando.
Perché in duomo già durante il Sanctus irrompono dalle porte aperte i suoni della festa che già sta impazzando nell’adiacente via XX Settembre.
La festa, quella che nel programma del Raduno Triveneto è stata indicata
come Notte verde – Animazione in città. Via XX diventa allora un’unica tavolata con posti in piedi e a sedere. Ma non si
contano in città i chioschi e le bancarelle di ogni genere, in un turbinio di cori e sapori, mani che si tendono per
offrirti il bicchiere, brindisi, alpini che si incontrano e fraternizzano come se si conoscessero da una vita.
All’inizio le musiche sono quelle della movida notturna coneglianese. Gli alpini lasciano fare ma quando si esaurisce
quel momento, importante ma che nel programma non ha trovato spazio (magnàr un bocon), piano piano riprendono in mano la
situazione e le note della movida si spengono su quelle de Il Capitan de la compagnia, Sul ponte Bassano, Quel mazzolin
di fiori, La montanara, Romagna mia.
A mezzanotte le fanfare si riuniscono sul grande palcoscenico che è la gradinata
degli alpini per l’inno nazionale.
Le strofe di Mameli piombano su via Mazzini e via Carducci che, come tutta Conegliano
ormai, hanno preso forma d’alpino.
Il reduce Cristiano Dal Pozzo a Conegliano per il Triveneto |
L’abbraccio caloroso a Cristiano Dal Pozzo |
Le Sezioni del Triveneto al gran completo a Conegliano |
Il grido “Riportiamoli a casa” si è levato a Conegliano |
“Trentatré”.
Ma in una città che ha preso forma d’alpino, sono le note del
“Trentatré” la colonna sonora di tutta la festa, ripetute in maniera quasi ossessiva, ieri, oggi, stanotte. Si
rincorrono di strada in strada, di piazza in piazza, di fanfara in fanfara, lente, marziali, martellanti ma anche
struggenti e a volte strappalacrime (a tutto può resistere un alpino, ma non a quelle). “Trentatré” sembra oggi l’unico
numero certo in questa grande festa popolare, tutti gli altri numeri possono solo essere immaginati. E domani, durante
tutta la sfilata, sarà ancora, sempre, “Trentatré”.
Non poteva mancare il mulo, vecchio amico di naja |
I rappresentanti delle Istituzioni |
Grandi numeri.
E' stata una notte come tutte le notti che precedono la domenica dell’adunata. Una notte lunga e, per qualcuno, anche difficile. Ora è tutto in
ordine, tutto pronto, c’è perfino silenzio.
Sotto una pensilina di via 24 Maggio una donna anziana continua ad aspettare
l’arrivo dell’autobus, ogni tanto mette fuori la testa, smarrita, chiedendosi perplessa il perché del ritardo.
Da
giorni, da settimane questa terra, questa città, questi campi aspettano la pioggia.
E la pioggia è arrivata. Oggi.
Una
pioggia, leggera ma insistente, accompagna l’inizio della sfilata, il cielo è plumbeo e si carica via via di nuvole
sempre più scure che non promettono nulla di buono. Il pensiero va, inevitabilmente, a un anno fa, Pordenone, quando
proprio alla partenza della nostra Sezione si scatenò l’inferno. Che ci sia qualcuno lassù, oltre le nuvole, che ce l’ha
con noi?
Sfila l’esercito di veci e bocia del Triveneto, tra applausi, calore e commozione. Tenaci combattenti anche
contro le avversità della vita, tanti gli alpini che sfilano in carrozzina. Lo speaker di turno (anche lui come Nino
gioca in casa) assieme alla storia della Sezione che sfila ricorda gli interventi di cui le penne nere sono stati
protagonisti. E il Nicola snocciola sequenze interminabili, elenchi di luoghi che spesso sono oltre i confini delle
comunità in cui la Sezione opera, località sconosciute o tristemente note che ci ricordano le catastrofi nostre e
altrui, nomi che evocano tragedie, fame e povertà, luoghi dove gli alpini sono stati con i segni della pace a portare il
loro aiuto. Nomi di luoghi lontani, al di là del nostro continente, spesso oltre il mare e i deserti, a dirci che gli
alpini non li ferma né il mare né il deserto.
E quando è il momento delle penne nere di Conegliano, lo speaker esplode,
incapace di celare l’orgoglio di poter raccontare che anche i numeri della nostra piccola Sezione sono grandi numeri.
Una media sopra la media.
Il più applaudito è senz’altro il nostro presidente che questo Triveneto lo ha sognato e
voluto fin dal primo giorno del suo insediamento a capo della Sezione. Benedetti, risponde agli applausi con il dito del
pollice rivolto verso l’alto. Ora è il pollice della destra ora quello della sinistra, si guarda bene dall’alzarli
entrambi… non vuole copiare da quell’alpino di Treviso (che tutti conosciamo) che è sfilato poco prima di lui con
entrambi i pollici rivolti al cielo. Applauditissimo anche Giovanni Battistella 100 anni appena fatti.
Perché anche noi abbiamo il nostro Cristiano Dal Pozzo. Non sfugge a nessuno, peraltro, che l’età media delle penne
nere sta ormai viaggiando ben sopra la media.
Anche gli speaker si commuovono.
Quando passano le sezioni trevigiane il
buon Nicola non può non ricordare il Bosco delle Penne Mozze.
Dal memoriale di Cison è giunta ieri la fiamma che ha
acceso il tripode. E la voce dello speaker vacilla nel leggere quei versi che aleggiano struggenti sulle stele dei
caduti di Russia: Io resto qui. Addio. Stanotte mi coprirà la neve. E voi che tornate a casa pensate qualche volta a
questo cielo di Certkowo. Io resto qui con gli amici in questa terra.
E voi che ritornate a casa sappiate che anche qui,
dove riposo in questo campo vicino al bosco di betulle, verrà la primavera.
E nel ricordare coloro che di quel memoriale
furono gli ideatori, Stefani chiude con un pensiero del mai dimenticato Giulio Salvadoretti.
L’è sempre alpin e no in
congedo quel che no se vergogna:
de ver fat el soldà de parlar in diaeto de esser itaiian e galantomo
de metter el capel
co lè ora de ndar in cesa se vol
e in ostaria se pol ma da far tut a testa alta.
E inveze al se vergogna:
de robar co i
no o vede e sbaregar co i no o sente
de desmentegarse dei so veci de quel che i a fat e quel che i a dit.
Parchè al sa:
lavorar e ver cor par tutti esser serio co ocore
e far baldoria co ghe piase
che in tutti se fa tut basta che ognun i se
tire su le braghe
e anca che chi ride e canta in compagnia nol mette bombe
nè nol spara par le strade par copar femene,
boce e omeni giusti.
Dimenticavo: la pioggia che ha accompagnato tutta la sfilata è cassata quando si è mossa la Sezione Conegliano. Forse lassù, sopra le nuvole. Qualcuno…
Gianfranco Dal Mas