A Gemona, ricordi di un alpino |
Giugno 2016 |
Erano passati pochi giorni dal solstizio. Il sole era in procinto di
scavalcare i monti ad est di Gemona e le ombre erano lunghe, dietro la mia
figura che usciva dalla porta principale della “Goi”. Il
terremoto aveva squassato la terra friulana, le case, le chiese e anche le
palazzine dell’ “Udine”. Le sere si camminava in gruppetti nei viali della
caserma, fra tende, macerie e scuderie silenziose: i muli erano ospiti del
“Belluno” su a Pontebba. Dopo i giorni da fine del mondo, di un mese e mezzo
prima, la vita normale faticava a farsi strada; la tristezza, la malinconia, lo
sconforto, a volte, ci assalivano all’improvviso. Nello stesso tempo, solo il
pensare di andare via suggeriva immagini di tradimento, di fuga dalla
sofferenza, sentimenti che non erano nel nostro animo.
“Artigliere è arrivato il trasferimento”.
La domanda l’avevo fatta ancora a Belluno, il primo giorno di militare.
L’esame di laurea era fissato per il 13 luglio a Padova.
“Potevo rinunciare, ben conoscendo i sacrifici che avevo fatto per finire la
tesi prima di essere arruolato?”.
La strada che dalla Goi portava alla stazione dei treni di Gemona non è lunga,
se fatta in libera uscita, lo è con la valigia di tela con tutto il corredo in
una mano, la borsa con la tesi e i libri nell’altra, lo zaino in spalla.
Il silenzio, a quell’ora del mattino, era quello della campagna, degli orti e
dei giardini coperti di guazza notturna che stava già evaporando; solo verso il
paese, trasportato dalla brezza che scendeva dai monti, il silenzio era rotto
dal frastuono smorzato delle ruspe che erano al lavoro sulle macerie.
Dietro di me due persone: l’uomo spingeva la bici e la donna teneva in
equilibrio sulla canna una valigia.
Li avevo visti giungere da una stradina laterale, camminavano in silenzio.
Arrancavo con la grossa valigia spostandola da una mano all’altra, ogni pochi
metri.
“Alpino, se vuoi puoi appoggiarla sul portapacchi, basta che la tieni in
equilibrio”.
“Grazie, ma avete già la vostra”.
“Appoggiala”, mi intimò quasi la donna.
“Prendo il primo treno, quello che arriva da Vienna. Sono stato trasferito a
Padova, mi devo laureare fra quindici giorni”.
“Sei fortunato, vai incontro a giorni migliori – e con la voce incrinata la
donna continuò – bisognerebbe andar via tutti, qui è solo morte e disperazione”.
Non avevo parole da aggiungere, né altre aveva l’uomo che guardava davanti a sé
il sole, tracimato ora completamente.
“Lui riparte, torna in Svizzera a lavorare”.
L’uomo fermò la bici, guardò dietro di sé e lo sguardo si spinse prima lontano,
quasi fino al Tagliamento, poi si fissò immobile più vicino.
“Quella è la mia casa. Ho lavorato vent’anni all’estero per costruirla. Ora è
ridotta così”, disse indicandola con la mano.
La casa era sbilenca, uno scherzo della geometria: i rettangoli diventati
parallelogrammi, il trapezio isoscele del tetto scomposto in trapezi scaleni,
una tenda grigioverde nel cortile.
“Per sistemarla deve ripartire, ancora profugo, lui lontano, alla sua età ed io
ancora qui a tenere duro e soffrire due volte”.
“Non parlare così, non vale la pena, ce la faremo”.
Il groppo che avevo dentro per lasciare quella terra, la caserma, molti che mi
erano diventati fratelli, si era fatto così grosso che mi impediva di portare
parole di consolazione, anzi, lacrime soffocate mi facevano colare il naso che
non potevo pulire, perché avevo entrambe le mani occupate.
“Hai preso il raffreddore a dormire in tenda e a fare la guardia di notte?”
chiese l’uomo.
“Non è per quello – riuscii a dire sottovoce – è un raffreddore come il suo”,
gli risposi con l’aria complice, perché mi ero accorto che stava tirando su con
il naso, per soffocare le lacrime.
Eravamo ormai alla stazione.
“Buona fortuna”.
“Anche a te, alpino”.